L’attualità
“NUOVE NORME IN MATERIA DI OBIEZIONE DI COSCIENZA”
UNA BUONA LEGGE, MA…
Mao Valpiana
L’argomento
ECONOMIA E NONVIOLENZA DAL PENSIERO AL PROGETTO
Pasquale Pugliese
Il fucile spezzato
PREMIO INTERNAZIONALE ALEXANDER LANGER 1998
Pianeta India
L’INDUISMO E IL MONACO SANKARA
Claudio Cardelli
Inserto speciale – 80 anni dopo
DOV’E’, O GUERRA, LA TUA VITTORIA?
Enrico Peyretti
Ci hanno scritto
Obiezione
IL CONGRESSO DELLA LEGA OBIETTORI DI COSCIENZA
PER COMINCIARE A DISCUTERE
Recensioni
Io obietto al congedo
Ill.mo signor Presidente della Repubblica,
sono un obiettore di coscienza che da poco ha terminato il servizio civile svolto al Movimento Nonviolento; le scrivo per esprimere il mio dissenso dal foglio di congedo illimitato.
Sul retro del documento vengono riportati una serie di articoli, ne cito alcuni :
1. Il militare in congedo illimitato continua ad appartenere alle FF. AA. e deve obbedienza a qualunque ordine gli pervenga dalle Autorità Militari per ciò che riguarda i suoi doveri militari.
12. Il militare richiamato alle armi deve presentarsi al reparto cui è stato destinato munito del foglio di congedo o di un documento di riconoscimento rilasciato dal Comune. Non presentandosi, sarà denunciato per diserzione.
Nonostante io obietti all’uso delle armi risulto appartenente alle Forze Armate, ed è per questo motivo che ho deciso di restituire il mio congedo.
Devo contestare il primo articolo nel quale non mi riconosco, la mia coscienza mi spinge a rifiutare qualsiasi forma di egemonia militare, di obbedienza ad un esercito, il quale imponendo a dei giovani cittadini italiani l’obbligo di prestare servizio militare, li rende automaticamente schiavi di un meccanismo che ideologicamente svilisce le singole personalità.
Ma il motivo principale per cui mi sento totalmente estraneo alle Forze Armate, è dato dal fatto che vi è una continua ed esasperata corsa agli strumenti bellici tecnologicamente più potenti e micidiali.
Non accetto che vengano stanziati ogni giorno decine e decine di miliardi per sovvenzionare delle spese militari assolutamente inutili, pensando soprattutto a ciò che si potrebbe realizzare per la collettività con la stessa esorbitante quantità di denaro, per questo è opportuno e necessario far conoscere alla società la possibilità di obiettare alle spese militari.
L’impiego di immense risorse nel settore bellico, anche indipendentemente dall’utilizzo o meno delle armi, sottrae risorse allo sviluppo, creando un divario maggiore fra paesi ricchi e paesi poveri, costituendo quindi un attentato alla pace.
L’obiezione fiscale alle spese militari non intende contestare il diritto dello stato ad esigere le imposte, si oppone invece all’utilizzo di tali tasse per finanziare gli eserciti.
Ritengo sia indispensabile per una società che si avvicina alla fine del millennio, la possibilità, anzi, la necessità della strutturazione di una forma alternativa di difesa, mi riferisco alla Difesa Popolare Nonviolenta. A mio avviso essa è un tentativo di risposta concreta ai bisogni di difesa di una società e potrebbe portare un contributo positivo per la modifica degli attuali sistemi militari, conducendo i cittadini ad esigere dal proprio governo una politica estera realmente orientata verso la giustizia e la pace.
Spero che il mio gesto, e quello di altri obiettori, possa dimostrare la nostra coerenza e determinazione nell’opposizione integrale alla guerra e all’uso delle armi, anche semplicemente rifiutando un congedo militare.
Le rivolgo i più sentiti ringraziamenti.
Marco Brandini – Verona
NEL TRENTENNALE DELLA MORTE
Il pensiero e l’azione di Aldo Capitini
Pisa, 10 ottobre (dalle ore 9,30)
Giornata di studi presso la Sala convegni della Domus , in via Mazzini 7, promossa dalla Biblioteca Franco Serantini e dalla Domus Mazziniana, con il patrocinio della Provincia di Pisa.
Relazioni di Teresa Mattei (Membro dell’Assemblea Costituente) Un’eredità dimenticata, Rocco Altieri (Biblioteca Franco Serantini) Religione e politica in Capitini, Antonino Drago (Università di Napoli) La fondazione di un pensiero strutturale nonviolento, Matteo Soccio (Casa della pace di Vicenza) Teoria e prassi della nonviolenza in Capitini, Giovanni Salio (Università di Torino) Anarchia e nonviolenza, Alberto L’Abate (Università di Firenze) Nonviolenza e omnicrazia. Interverranno anche Pier Carlo Masini, Lanfranco Mencaroni, Pietro Pinna.
Nei giorni precedenti, dal 5 al 10 ottobre, presso la Sala della Biblioteca della Domus Mazziniana sarà esposta la mostra documentaria: “Capitini ed il movimento nonviolento in Italia negli anni del primo dopoguerra, 1945-1955”
Aldo Cattaneo, Daniele Rocchetti, Giovanni Stiz, La fionda di Davide. Verso una finanza etica, Alfazeta – Coop. Il Seme, 1997, lire 14.000
Un numero sempre maggiore di famiglie italiane sta trasferendo i propri risparmi dal tradizionale investimento in titoli di stato al mercato borsistico ed ai fondi comuni.
Spesso queste scelte finanziarie sono, in perfetta buona fede, in profonda contraddizione con i valori e le convinzioni dello stesso risparmiatore. Può accadere così che un fervente antimilitarista finisca per finanziare una fabbrica che costruisce armi, oppure che un convinto ecologista presti i propri soldi a un’azienda inquinante o che pratica la sperimentazione sugli animali.
La Banca Etica, che diventerà operativa nei primi mesi del 1998, permetterà ad ogni persona di investire il proprio denaro esclusivamente in attività “etiche”, compatibili da un punto di vista sociale ed ambientale, garantendo nel contempo un importante canale di finanziamento al cosiddetto Terzo Settore, il vasto mondo costituito da associazioni, organizzazioni di volontariato, cooperative sociali.
Lo stimolo della Banca Etica ha favorito il sorgere di molte iniziative finanziarie che si autodefiniscono “etiche”, sia da parte di banche che di altri intermediari. Attualmente ci troviamo dunque di fronte ad un panorama vario e diversificato, con grandi potenzialità di sviluppo e nello stesso tempo con consistenti pericoli di confusione e disorientamento per i risparmiatori interessati.
“La fionda di Davide” è un testo curato da alcuni formatori della Cooperativa Il Seme di Bergamo – già nota per il successo del precedente libro “Capitali Coraggiosi” – e vuole essere un valido strumento di orientamento nel mondo della finanza etica, illustrando esperienze consolidate e prospettive future ed aiutando il risparmiatore ad effettuare una scelta consapevole tra i vari prodotti finanziari cosiddetti “etici” presenti sul mercato. Il volume, reso possibile dal contributo della FISAC Milano-Lombardia, è costituito da una raccolta di saggi che, pur raccogliendo contributi da autori diversi (tra cui Alberto Castagnola, economista ricercatore presso l’Ispes di Roma, e Gianni Calligaris, presidenti di Alfazeta) risulta fortemente unitaria nel progetto e nella struttura.
Dopo aver inquadrato il tema della finanza all’interno del processo di globalizzazione, il libro illustra chiaramente, in forma didattica e esemplificativa, a quali requisiti deve rispondere un prodotto finanziario per poter essere considerato “etico”. Quindi, vengono esaminate alcune esperienze già esistenti di finanza etica, operanti all’esterno (la “Grameen Bank”, la “Alternative Bank Schweiz” e la “Ökobank”) e in Italia (le MAG, cooperative di Mutua AutoGestione).
Il cuore del libro è dedicato all’illustrazione del progetto di Banca Etica: vengono esposti il percorso che ha portato a questa iniziativa, i principi costitutivi, le future modalità di funzionamento, i legami con il mondo delle organizzazioni non profit.
Infine, vengono esaminate alcune proposte del sistema finanziario tradizionale, per ciascuna delle quali viene definito il “grado di eticità” alla luce dei requisiti precedentemente indicati. Un articolo è destinato alle potenzialità rappresentate dalla nascita dei fondi pensione.
Il libro è arricchito dalle interviste a due figure tra le più rappresentative del mondo della finanza etica: Giovanni Acquati (presidente della Mag2-Finance) e Fabio Salviato (Presidente della Cooperativa Verso la Banca Etica e Direttore della Ctm-Mag).
La “chicca” più preziosa è rappresentata dalla postfazione di Alex Zanotelli, il cui intervento dà il titolo al libro: con la consueta potenza comunicativa e capacità dialettica, l’ex direttore di Nigrizia, ora missionario a Korogocho, trasmette al lettore la necessità e l’urgenza che i progetti di finanza etica diventino finalmente operativi e costituiscano la fionda di Davide in grado di contrastare il Golia economico imperante.
Per richiedere copie: Cooperativa Il Seme via Bonomelli, 9 – 24121 Bergamo Tel/fax 035/242829
MAESTRI DEL PENSIERO INDIANO / 7
L’evoluzione dell’Induismo
e il monaco Sankara
di Claudio Cardell
Alla morte di Asoka (232 a.C.) seguì una rapida crisi dell’Impero Maurya. Nei primi secoli della nostra era, la principale dinastia è quella dei Kushana, il cui regno comprendeva la valle dell’Indo, il Gandhàra e l’odierno Afghanistan. Dopo una nuova invasione da parte degli Unni Eftaliti, nei primi anni del IV secolo il Magadha risorse come centro di un nuovo impero, quello dei Gupta (320 – 550 d.C.), che si estese su tutta l’India settentrionale. Nei secoli successivi prevalse il frazionamento in vari centri di potere fino all’invasione islamica dopo il Mille.
L’epoca Gupta è considerata il periodo classico della cultura indiana, che conobbe in quei secoli una grande fioritura letteraria, artistica e filosofica. In campo religioso, si verificò una ripresa dell’Induismo, in opposizione alla diffusione del Buddhismo e della sua filosofia (Nagàrjuna è il più acuto dei filosofi buddhisti).
Il popolo indiano, scosso dalle minacce esterne e dalle divisioni politiche interne, si raccolse intorno ai culti tradizionali (la devozione, bhakti, per Vishnu, Shiva ecc.) e alla fede nei sacri testi (Veda, Upanishad, Bh. Gita), dei quali gli intellettuali elaborarono nuovi commenti e una complessa sistemazione razionale.
Il Brahmanesimo si trasformò nell’Induismo sotto la spinta di una fede ardente che travolse il politeismo naturalistico dei Veda e il panteismo delle Upanishad. Emerse prepotente l’esigenza di pregare un Signore onnipotente, che assume vari nomi e vari aspetti, ma che ha un’unica, immutabile Essenza. L’Induismo, in duemila anni di storia, ha espresso un numero altissimo di mistici (fino a Gandhi), protesi verso un Dio personale, che ama e soccorre i fedeli. Del resto, una simile prospettiva è già presente nella Bhagavad Gita.
Vita e dottrina di Sankara
Sankara (chiamato anche Sankarakarya) nacque nel 788 della nostra era presso Kalady, nell’attuale stato del Kerala, da una famiglia di bramani. Giovanissimo si fece monaco mendicante (sannyàsin), rinunciando alla casa e al mondo; percorse molte regioni dell’India e fondò numerosi monasteri, che sono attivi ancora oggi. Morì a soli trentadue anni, intorno all’820, lasciando una vasta produzione di testi religiosi e filosofici. Basterà ricordare i commenti ai Vedànta-Sutra (Aforismi sul Vedanta), alle Upanishad e alla Bhagavad-Gita, oggi la scrittura indù più popolare.
Col termine Vedànta si designa una scuola filosofica, il cui scopo è la corretta spiegazione e interpretazione delle Upanishad, che rappresentano il coronamento dell’insegnamento vedico. Sankara fu sostenitore, entro il Vedànta, dell’indirizzo Advaita (non-dualità), vale a dire di una concezione monistica della realtà.
La tesi fondamentale dell’Advaita è che esiste un’unica vera Realtà; ogni altra cosa, al di fuori di questa realtà, è irreale. Questa unica Realtà è il Sé individuale che si innesta nel Brahman. In altre parole, l’unica realtà esistente è l’Essere infinito (Brahman), la cui presenza è avvertibile anche all’interno della nostra coscienza (il Sé individuale). Approfondendo la nostra conoscenza, è possibile intuire l’identità del Sé individuale col Brahman. È un itinerario verso Dio che abbiamo incontrato anche nella ascesi yogica.
D’altra parte l’uomo sente il bisogno di un Dio che abbia un nome, cui egli possa rivolgere le proprie preghiere. Sankara introduce a questo proposito il concetto del Brahman con attributi, Saguna Brahman, che è un’entità divina personale in grado di esaudire le suppliche dei fedeli. Questo Brahman con attributi può irrompere nella storia e porsi in dialogo con l’umanità. Come si vede, anche in Sankara è presente l’esigenza di dare una personalità all’Assoluto e di orientarsi verso un Dio di amore e di consolazione: sembra qui tramontare l’indifferenza di un Essere supremo (Brahman) presente sì nella nostra anima, ma non in grado di darci ascolto nella Sua perfezione infinita.
La filantropia e la devozione religiosa
La profonda convinzione della presenza del Sé eterno nell’interiorità di tutti gli uomini portò Sankara a predicare incessantemente la fraternità e l’unità dell’intero genere umano. Fu molto colpito quando un pària, al quale aveva chiesto di lasciargli il passo, gli replico: “Nobile signore, a chi chiedete di lasciarvi il passo, al mio corpo o al Sé che lo abita?”. Il filosofo comprese in un attimo che il corpo e la materia hanno soltanto un’esistenza apparente e che il Sé è eterno e il medesimo in tutti gli esseri.
Concludo con una citazione dal volume: Le grandi figure dell’Induismo, Cittadella ed., Assisi, 1991.
Da una parte Sankara fu un rigido non-dualista, fino al punto da poter essere considerato come un monista. L’unica realtà è la coscienza (il Sé). La liberazione consiste nel divenire una cosa sola con essa. Ciò che si richiede per arrivare a questa liberazione è la conoscenza dell’unità del Sé con il Brahman. Per cui le devozioni e le pratiche, i riti e altre espressioni religiose esteriori non hanno valore intrinseco, anche se possono aiutare a risvegliare il desiderio di conoscere il Brahman.
D’altra parte, nella sua vita privata, egli fu un fervido devoto di Vishnu e Shiva. Il fatto è ampiamente attestato dai suoi numerosi inni devozionali. (pp. 57-58)
Il Prof. Mario Piantelli ha pubblicato una monografia sul nostro filosofo: Sankara, Editrice Esperienze, Fossano, 1974.
Chaiwat Satha-Anand, Islam e nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1997, pp. 84, L. 12.000.
Gli amici della nonviolenza guardano sovente con preoccupazione a quanto succede nel mondo islamico: vengono subito in mente i tragici avvenimenti dell’Algeria e la condizione delle donne afghane. Ma Islam non è sinonimo di violenza: nel passato la civiltà musulmana, che si estendeva dalla Spagna all’India, ha favorito la convivenza di popoli diversi e una straordinaria fioritura culturale, nella quale fu presente un’intensa ricerca di perfezione spirituale (si veda: Vite e detti di santi musulmani, ed. TEA, Milano, 1988).
Giunge ora da un intellettuale thailandese di fede musulmana questo volumetto che contiene la traduzione italiana dall’inglese di tre brevi saggi: I) Islam e nonviolenza; II) La politica del perdono: l’insegnamento islamico e il pensiero di Gandhi; III) “Nonviolenza pragmatica” e “Nonviolenza per principio”: una contrapposizione illusoria.
L’autore nel primo saggio, dopo aver esaminato un’azione nonviolenta avvenuta nel 1975 nella Thailandia meridionale e la dottrina coranica sulla violenza e la guerra, giunge alla formulazione di otto tesi sull’azione nonviolenta nell’Islam, che riportiamo integralmente.
I. Per l’Islam, il problema della violenza è parte integrante dell’etica islamica.
II. La violenza eventualmente usata dai musulmani deve essere regolata secondo le norme contenute nel Corano e negli Hadith.
III. Se gli strumenti di violenza utilizzati non consentono di discriminare tra combattenti e non combattenti, allora il loro uso non è ammissibile secondo l’Islam.
IV. Le tecnologie di distruzione offerte dal mondo moderno rendono oggi tale discriminazione virtualmente impossibile.
V. Nell’era contemporanea, per un musulmano, non ci sono le condizioni per il ricorso alla violenza.
VI. L’Islam insegna ai credenti a combattere per la giustizia, nella convinzione che ogni vita umana – parte della creazione – è ordinata ad una finalità divina.
VII. Per essere un vero credente dell’Islam, ogni musulmano deve ricorrere alla nonviolenza come nuovo strumento di lotta.
VIII. L’Islam è di per se stesso un terreno fecondo per la nonviolenza, poiché favorisce potenzialmente la disobbedienza, la forte disciplina, il senso di condivisione delle responsabilità sociali, la fermezza e il sacrificio di sé, oltre ad alimentare la fede nell’unità della comunità musulmana e nell’unicità del genere umano (pp. 32-33).
Ci auguriamo che le tesi del professore thailandese abbiano un’ampia risonanza nel mondo islamico e possano agevolare l’incontro tra i musulmani e i credenti delle altre religioni: cristiani, ebrei, buddhisti, induisti.
Chaiwat Satha-Anand è professore presso la Thammassat University di Bangkok e presidente dell’Asociazione thailandese di scienze sociali. È inoltre membro del Comitato scientifico della International University of People’s Institution for Peace (IUPIP), sede a Rovereto.
Claudio Cardell
SULLA LEGGE 8 LUGLIO 1998, N. 230
“Nuove norme in materia di obiezione di coscienza”
Un buona Legge, ma…
di Mao Valpiana*
Il diritto soggettivo
E’ una legge importante, un momento di svolta per l’obiezione in Italia. Viene finalmente sancito il principio del diritto soggettivo all’obiezione. Non ci sono più commissioni o tribunali delle coscienze che vagliano i motivi addotti, ma ogni giovane che lo desidera è da considerarsi obiettore perché egli stesso così si definisce. In un certo senso con questa Legge andiamo anche oltre l’obiezione. Il cittadino chiamato alla leva si trova cioè di fronte ad una possibile opzione: o sceglie il servizio militare o sceglie il servizio civile; tecnicamente non si dovrebbe quindi nemmeno parlare più di obiezione di coscienza, in quanto non c’è alcun rifiuto ma semplicemente una scelta. L’obiezione sussiste quando si dice “no” ad un obbligo di legge (ed infatti con la nuova legge il servizio si chiama semplicemente civile, e non più servizio sostitutivo civile, come era prima).
Parleremo quindi ancora di obiettori solo per comodità e semplicità espositiva.
Questo “diritto”, questa crescita della democrazia italiana (che ci mette finalmente al pari con la maggioranza dei paesi europei), lo si è raggiunto grazie solo al movimento degli obiettori e degli enti di servizio civile, a tante battaglie, digiuni, manifestazioni, denunce. Insomma non è stato un regalo del Parlamento, anzi lo si è raggiunto nonostante la contrarietà della maggioranza dei partiti e l’ostilità manifesta delle gerarchie militari.
La difesa nonviolenta
Viene istituito l’Ufficio nazionale per il servizio civile, non più dipendente dal Ministero della Difesa, ma direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Compiti importanti di questo Ufficio saranno quelli di predisporre la formazione e l’addestramento degli obiettori ed anche “forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta”. Per la prima volta, e per noi è un fatto di straordinaria importanza, in una Legge dello Stato italiano entra a chiare lettere il concetto di difesa nonviolenta. Ciò significa che gli obiettori in servizio civile potranno lavorare espressamente per la cultura di pace e per la ricerca di alternative reali alla preparazione alla guerra, insomma per quella difesa popolare nonviolenta su cui i nostri movimenti nonviolenti sono impegnati da tanti anni. Il ruolo specifico degli obiettori di coscienza, a mio modo di vedere, è proprio quello di lavorare per il superamento degli eserciti e per l’alternativa alla guerra. Un obiettore deve in questo modo poter esprimere il proprio antimilitarismo e la propria scelta nonviolenta. Oggi, finalmente, un Legge lo riconosce.
Altro dato positivo di questa Legge è la possibilità per gli obiettori di svolgere il servizio civile all’estero (superando quindi il concetto di “confine” della nazione e aprendosi alla comunità europea) ed in particolare nelle missioni umanitarie nei luoghi di conflitto. Anche questa “vittoria” la si deve esclusivamente a quegli obiettori che, sfidando la precedente normativa ed andando incontro a processi per diserzione, hanno portato il loro aiuto alle popolazioni della ex Jugoslavia partecipando a molti progetti di solidarietà e riconciliazione. Da oggi gli obiettori potranno essere al fianco delle forze di interposizione, potranno anzi costituire i Caschi Bianchi nelle azioni di peace keeping e partecipare istituzionalmente al Corpo Civile Europeo di Pace che da tempo chiediamo venga istituito ed organizzato.
Verso il 2000
Naturalmente nella Legge vi sono anche alcuni aspetti negativi, che peggiorano la situazione preesistente ma a mio parere si tratta di elementi secondari. Molto importanti, invece, saranno i regolamenti di attuazione pratica del servizio civile e la scelta dei settori nei quali gli obiettori verranno utilizzati, con l’alto rischio di sostituzione di mano d’opera. La Legge sarà operativa a tutti gli effetti dal 1 gennaio 1999. Per i nonviolenti è perciò questo il momento di riempire di contenuti una Legge che non è ancora la nostra legge ma potrebbe diventarlo. I militari sono pronti nel tentativo di svuotarla, facendola diventare la Legge degli “esuberi”, tenendo per loro il giocattolino dell’esercito di professionisti.
Da oggi quindi andiamo verso una situazione che vedrà due possibili tipi di “obiettori” e di enti di servizio civile: coloro che semplicemente sceglieranno il servizio civile per assolvere l’obbligo di legge, che chiameremo i servizio civilisti, e coloro che invece vorranno essere impiegati per la preparazione della difesa nonviolenta: saranno i veri e propri obiettori di coscienza.
Finalmente un po’ di chiarezza.
*Direttore di Azione nonviolenta
A TORINO NEI GIORNI 11, 12, 13 DICEMBRE 1998
Il Congresso della Lega Obiettori di Coscienza
Per cominciare a discutere
In vista del prossimo Congresso della LOC, che si terrà a Torino nei giorni 11, 12 e 13 Dicembre, abbiamo ritenuto interessante aprire il dibattito pubblicando un sunto del documento preparatorio, elaborato dal Coordinamento Nazionale della LOC.
Alcune parti (valutazione sulla legge, aspetti organizzativi) sono state omesse per motivi editoriali; chi intendesse conoscere la versione integrale può richiederla alla Sede Nazionale di Milano.
PremessaLa nostra associazione, per quanto poco consistente sul piano numerico, rappresenta una variegata gamma di esperienze e provenienze politiche (cattolica, comunista, radicale, verde, centri sociali, anarchica, etc.) convergenti, però, su alcune tematiche che potremmo definire “trasversali” e, per certi aspetti, “eretiche” a queste stesse correnti di pensiero.
Risulterebbe ardua, dispersiva e foriera di divisioni, la ricerca di un preciso orizzonte politico comune; si è pertanto ritenuto molto più produttivo e agile il riconoscersi come parzialità di un più ampio movimento antiliberista, pacifista, ecologista, antirazzista, attento alle dinamiche sociali ed alla difesa degli ultimi, dei più deboli, a livello sia nazionale, sia internazionale.
La partecipazione a questo movimento, composito, in divenire e tutt’altro che monolitico, è dialogante, improntata a trovare momenti di confronto e crescita reciproca, nella convinzione che i soggetti politici che, nel futuro, terranno a porsi come antagonisti, di opposizione, di progresso e di trasformazione, non abbiano ancora trovato forma, metodi e riferimenti ideali stabili.
In questo contesto la LOC, sebbene minoritaria e deficitaria sul piano numerico ed organizzativo, ha sviluppato interessanti elaborazioni, esperienze e prassi politiche, con cui pensiamo possano trovare interessante confrontarsi anche altri soggetti ed altri percorsi politici e culturali.
Oltre a ciò si decide di definire alcuni idee forti, specifiche, centrali, per quanto riguarda l’operato, la storia, l’agire quotidiano della nostra associazione.
PacifismoQuali legami tra un pacifismo nonviolento ed antimilitarista e la LOC?
Il Nuovo Modello di Difesa è, oggi, uno degli strumenti prioritari con cui il potere economico e finanziario cerca di rafforzare ed imporre al mondo il proprio modello neoliberista.
In questo contesto internazionale, anche il Governo di Centro-sinistra italiano tende ad appiattirsi su di una azione politica completamente dettata da scelte economiche.
A fronte di questo modello-mondo, di questo “pensiero unico”, il ruolo della LOC non può certo esaurirsi in quello associazione erogatrice di servizi (informativi, tecnici, legali).
Vi è l’esigenza di una associazione che sappia contrastare il militarismo (spese militari, Nuovo Modello di Difesa, militarizzazione del territorio) e, nel contempo, progettare, proporre e perseguire la costruzione di modelli di difesa, di rapporti sociali ed internazionali nonviolenti, solidali, cooperanti.
La promozione e diffusione dell’obiezione di coscienza, è ancora valore centrale per l’agire politico della LOC, avendo ben chiaro che non ci si può più limitare a perseguire la sottrazione del singolo al servizio militare.
Centralità dell’obiezione significa che dobbiamo facilitare ed aiutare il singolo a valorizzare la scelta effettuata nel rifiutare l’uso delle armi e l’incorporazione nelle FFAA.
L’obiezione “cosciente” diventa portatrice di un messaggio e di una proposta politica più ampia; sottolinea l’esigenza di pervenire alla riduzione delle spese militari, al disarmo, alla smilitarizzazione del territorio, alla costruzione di una difesa non armata e nonviolenta.
E’ partendo da questi presupposti che la nostra associazione può e deve confrontarsi prioritariamente con quei soggetti politici che promuovono campagne ed iniziative finalizzate a questi temi.
In particolare si sottolineano: la Campagna per l’Obiezione di Coscienza alle spese militari, la Campagna Venti di Pace, l’opposizione al Nuovo Modello di Difesa ed alle basi straniere, l’istituzione dei Caschi Bianchi.
In questi anni la LOC si è contraddistinta per una metodologia politica finalizzata a ricercare ed unire quanti, nel mondo pacifista, si rendessero disponibili a collaborare su obiettivi concreti condivisibili.
Il nostro tentativo è stato quello di abbattere divisioni puramente ideologiche e trovare possibilità di collaborazioni anche con quei soggetti politici che, pur non avendo una posizione politica complessivamente conforme alla nostra, su aspetti singoli, prospettavano la possibilità di sviluppare iniziative comune.
Questa modalità ha portato a risultati interessanti, si veda, per esempio, il ruolo positivo assunto dalla LOC in seno alla Campagna OSM o per la riforma delle 772.
In poche parole un sano pragmatismo che, pur non rinunciando ad un’identità chiara e definita, sapesse dialogare a tutto campo.
La LOC è una piccola associazione e, pertanto, non può né sostituirsi ad un movimento pacifista, attualmente estremamente debole e disorganizzato, né inventarsi nuove campagne o iniziative.
La LOC può e deve, invece, essere lievito e stimolo, affinché riprenda e si sviluppi la collaborazione intorno a ciò che il movimento pacifista, nel suo complesso, promuove.
E’ importante, per perseguire e sostanziare questi obiettivi, che tutto il corpo associativo (dalla Segreteria ai gruppi locali) si impegni nella promozione della Campagna OSM (se possibile con la creazione di Coordinamenti provinciali), della Campagna Venti di Pace, dei Caschi Bianchi, delle iniziative contro le basi straniere.
Sempre più, in futuro, sarà opportuno che i punti territoriali LOC non si limitino alla erogazione di servizi informativi, ma diventino soggetti politici, referenti per chi è interessato a svolgere iniziativa pacifista, attivando così l’aggregazione di singoli o gruppi, anche distanti dal servizio civile, ma comunque interessati all’impegno pacifista.
L’idea, insomma, vuole essere quella di una LOC che stimoli la crescita di una rete pacifista cui ogni gruppo porti in dote la propria esperienza, la propria specificità, le proprie competenze.
Solo mettendo in comune energie, risorse, intelligenze ed esperienze, sarà possibile ridare visibilità ed incisività al movimento pacifista.
Caschi BianchiL’esperienza dei cosiddetti Caschi Bianchi, attivata principalmente dall’Associazione Papa Giovanni XXIII, di Rimini, con l’invio in Bosnia di obiettori di coscienza in servizio, ha posto concretamente il problema di quale ruolo possono avere gli obiettori in una difesa alternativa a quella armata.
Importanti sono le suggestioni, forse per il momento più simboliche che concrete, stimolate da queste esperienze.
La DPN non è più un’ipotesi teorico-utopistica del futuro; nel migliore stile della nonviolenza l’utopia, il sogno, cominciano a realizzarsi nel momento in cui si praticano, si sperimentano.
Seppur in forme parziali, difettose, sperimentali, questi tentativi lanciano un messaggio positivo, concreto, indicano un percorso da perseguire con sempre maggiore convinzione, aprono un dibattito e pongono le istituzione di fronte a contraddizioni crescenti (pensiamo alle aperture ottenute nella nuova legge grazie alla disobbedienza esercitata dai primi Caschi Bianchi).
Dobbiamo premettere che, almeno per ora, il nostro compito non può essere quello di entrare nella disputa tecnica teorica sulle modalità di questo tipo di intervento (riservato a professionisti della pace o aperto a tutti? praticabile solo dopo lunghi periodi di formazione o fondato sulla formazione sul campo? limitare l’intervento alle zone di massima sicurezza o sperimentare l’interposizione?).
Possiamo però, ancora una volta, stimolare al confronto le differenti esperienze, informare ed indirizzare i giovani obiettori che si rivolgono alle nostre sedi, cercare collegamenti tra esperienze pratiche e possibili evoluzioni legislative.
L’esperienza dei Caschi Bianchi sta a significare che l’esclusiva della difesa non spetta più ai militari e, in questo senso, si deve cominciare a ragione per cercare di aprire spazi nel Ministero della Difesa.
Certo, rimangono dei nodi ancora non risolti (intervento umanitario o vera difesa nonviolenta? collaborazione e complementarietà con i militari o intervento ad essi totalmente alternativo ed antagonista?); esiste, a nostro avviso, la possibilità di legare la promozione dell’obiezione di coscienza con l’esperienza dei Caschi Bianchi.
Intendiamo dire che sarebbe interessante cominciare a pensare a gruppi che, intervenendo all’estero, si facciano promotori dall’obiezione di coscienza presso i giovani stranieri; che avviino contatti per la creazione di gruppi di obiettori/disertori, che operino per radicare e diffondere l’obiezione di coscienza, non solo in Italia ma anche in Bosnia, Jugoslavia, Croazia, Albania etc.
Quale migliore prevenzione della guerra, se non la creazione di gruppi di resistenti alla guerra in ogni stato? quale migliore strada se non quella dell’aiuto a chi si trova in situazioni di guerra da parte di chi, vivendo in stati dove esiste la pace, ha l’opportunità di opporsi al militare?
Un brutta Legge, ma…
di Roberto Minervino*
Finalmente il 16 giugno 1998 il Senato della Repubblica ha definitivamente approvato la tanto attesa legge di riforma della 772/72 non modificando in nessuna parte il testo approvato alla Camera il 14 aprile.
Una brutta legge che favorisce l’idea di servizio civile cara a Prodi e che, attraverso l’imposizione di limiti nell’accesso al diritto d’obiezione e l’aumento della durata del servizio civile, favorisce ancora una volta la scelta militare e le esigenze del Nuovo Modello di Difesa.
Ma è con questa legge che dovremo fare i conti nei prossimi anni; perciò, senza nemmeno poterci fermare un attimo a festeggiare, dobbiamo metterci subito al lavoro.
I prossimi mesi saranno decisivi per impedire che i peggiori timori sollevati da questo brutto testo diventino realtà: la costituzione dell’ufficio nazionale e della consulta, il varo dei regolamenti organizzativi e disciplinari, l’approvazione del testo base per le nuove convenzioni (che definirà formalmente la quantità in più di servizio civile da fare per la formazione), i primi progetti informativi e formativi, la nascita delle consulte regionali e le pressioni politiche perché tutte le regioni si dotino di leggi ad hoc sul servizio civile seguendo l’esempio di Toscana e Liguria, saranno tutti momenti importanti per indicare i possibili sviluppi del futuro servizio civile.
La LOC non può mancare nessuno di questi appuntamenti: saremo attivi da subito per presenziare, collaborare, coordinare, stimolare, progettare, vigilare su tutto quello che accadrà. La battaglia persa sul piano legislativo può ancora essere vinta nei fatti: non dimentichiamo le importanti strade che si aprono per il servizio civile di pace all’estero e per l’avvio di forme sperimentali di Difesa popolare nonviolenta.
Ma nessuno ci regalerà niente: sia per il mondo pacifista, per il mondo del no profit e del terzo settore, la legge di riforma apre strade nuove e importanti, che vanno percorse con estrema chiarezza su obiettivi, metodi e strumenti organizzativi, soprattutto ora, che l’intervento del Governo sul testo, ha confermato dubbi e preoccupazioni sulla vera natura di questa riforma.
Da subito, inoltre, bisognerà attivare tutte le forme possibili di assistenza legale, agli obiettori che si vedranno negare questo diritto soggettivo, dalle norme peggiorative sui tempi e sulle cause ostative.
E’ bene che non ci si limiti a coltivare il proprio orticello, ma che si lavori insieme perché servizio civile e obiezione di coscienza non si tramutino nella negazione di tutto quello per cui abbiamo lottato in questi anni.
*Segreteria Nazionale LOC
Via gli orrori dal Monte Grappa
Al Sig. Sindaco del Comune di Paderno del Grappa (Tv), alla Commissione Paritetica Civile sulle Servitù Militari in Regione Veneto, al Comando Militare Region Nord-Est di Padova.
Ogni anno, in questo periodo, anche noi risaliamo la cima del Monte Grappa insieme a varie associazioni. Non manchiamo mai di andare a rivedere le foto dei caduti della grande guerra. Il nostro è un devoto omaggio, sempre con nuove emozioni, così come per la notizia giuntaci in questi giorni sul ritrovamento sull’Ortigara, dei resti mortali di un giovane militare austriaco.
Quest’anno, lassù sul Grappa, abbiamo sentito anche duri commenti da parte di alcuni visitatori a riguardo del fatiscente edificio militare e in disuso che si trova a 300 metri circa a nord-est dal rifugio del Grappa (ex base rilevamento aviazione militare costruita circa 25 anni fa senza rispetto del contesto storico ed ambientale di cui è impregnata Cima Grappa).
Questo errore umano ed architettonico è di competenza del Comune di Paderno del Grappa e del Comando Militare Regione nord-est di Padova.
Il Grappa fu sconvolto irrimediabilmente in ogni suo centimetro. Oggi è ancora desolato ed esprime ancora muta sofferenza. Su di esso la storia ha voluto un sacrario per italiani ed un altro per austriaci. Questa è stata volontà di fratellanza! Però tra i due sacrari persiste l’offesa: la base militare abbandonata e in degrado, bel segno di amor di Patria!
Bisogna mantenere vivo il rispetto per i nostri padri caduti, in ogni caso, ma non bisogna averne affatto per coloro che abbandonano le loro responsabilità e che fanno del Grappa una discarica: tale è quel casermone!
Circolo Arcobaleno e Coordinamento OSM-DPN – Bassano
Michel Chossudovsky, La globalizzazione della povertà, Edizioni Gruppo Abele, Collana Altrisaggi, pp. 280, L. 26.000.
Globalizzazione è un termine che viene ormai usato come chiave interpretativa della realtà e applicato ai più diversi ambiti del sapere.
La ricerca di Chossudovsky ne analizza uno degli aspetti più tragici e allarmanti: il continuo e crescente impoverimento della popolazione mondiale, nel Sud del mondo, nell’Est, ma anche all’interno dei paesi cosiddetti “ricchi”.
In particolare la ricerca segue passo passo il processo di ristrutturazione economica che i grandi creditori internazionali hanno imposto sui paesi in via di sviluppo dall’inizio degli anni Ottanta, e che hanno determinato una crisi del debito senza precedenti.
Ruolo chiave in questo “programma di aggiustamento strutturale” è stato giocato dalle istituzioni di Bretton Woods, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, insieme all’Organizzazione per il Commercio Mondiale, le più potenti espressioni di burocrazia internazionale che attualmente sovrintendono le economie nazionali.
Attraverso l’analisi di situazioni concrete in diversi paesi, il volume porta avanti una critica durissima alle fondamentali direzioni verso cui il mondo si sta muovendo, politicamente e finanziariamente.
Rimane la questione se questo sistema economico globale, basato sull’inesorabile accumulazione di ricchezza privata, possa essere soggetto a un processo di riforma significativo, vale a dire se le modifiche al commercio e alla finanza mondiali (che implichino la riorganizzazione dell’OCM e delle istituzioni di Bretton Woods) siano affatto realizzabili nell’attuale assetto politico.
La risposta di Chossudovsky non è rassicurante: di fatto è da escludere che vengano realizzate delle riforme significative, come una conseguente trasformazione dei meccanismi finanziari, senza una tenace lotta sociale.
Occorre rivedere il ruolo delle istituzioni di Bretton Woods, assicurare la remissione del debito estero dei paesi in via di sviluppo e la svalutazione contabile dei titoli di stato di quelli industrializzati. Ma senza una vera e propria opera di riappropriazione della politica monetaria da parte della società, tutte queste possibili alternative da percorrere rischiano di non ricevere la spinta necessaria per una loro piena realizzazione.
In questa direzione diventa fondamentale allargare le forme di collaborazione fra stati attraverso i movimenti sociali, per isolare quegli interessi finanziari che stano continuando ad alimentare un modello economico che ha portato all’impoverimento di milioni di persone e che sembra avviato verso un processo irreversibile.
Michel Chossudovsky è professore di Economia all’Università di Ottawa (Canada). Ha al suo attivo diverse pubblicazioni tradotte in tutto il mondo nell’ambito dell’economia e delle scienze politiche.
SARA’ CONSEGNATO IN OTTOBRE
Premio internazionale Alexander Langer
Domenica 5 luglio, nel corso del Festival Euromediterranea che si è tenuto a Bolzano, è stato assegnato il Premio Alex Langer 1998. La giuria consegnerà ufficialmente il premio a Città di Castello il prossimo mese di ottobre durante la Fiera delle Utopie Concrete. Pubblichiamo le schede biografiche delle due vincitrici.
Yolande Mukagasana, ha 43 anni ed è nata a Butare da una famiglia tutsi. È consapevole delle divisioni e tensioni etniche che lacerano il paese dall’età di 5 anni, quando nel 1959 viene ferita nel corso della “rivoluzione hutu” e avvengono i primi massacri di tutsi.
Il padre è scultore d’argilla e confeziona statue anche per le chiese cattoliche. Studia come infermiera e si diploma nel 1972, ma ha difficoltà di lavoro perché esistono quote hutu e quote tutsi anche nel conferimento dei diplomi. Riesce infatti a farsi riconoscere ufficialmente infermiera anestetista solo nel 1988 dopo aver lavorato precariamente in dispensari di campagna e infine a Kigali, dove si trasferisce per raggiungere il marito nel 1977. Ha seguito un corso di specializzazione di sei mesi in Belgio. Dopo il 1990 quando, mentre gli esiliati tutsi rifugiati in Uganda e organizzati nel fronte patriottico rwandese tentano con le armi di rientrare in patria inizia la guerra, la situazione si fa per lei più difficile anche nell’ospedale dove lavora.
Nel 1992 apre a Kigali un piccolo dispensario privato, dove le cure costano relativamente poco e dove assiste gratis i non abbienti. Questa posizione di autonomia la mette in vista e le procura probabilmente invidie e inimicizie di cui la radio estremista Mille collie si fa portavoce. Tuttavia non ha sentore di questa minaccia fino a quando, il 6 aprile 1994, inizia il genocidio dei tutsi ad opera delle milizie hutu e di almeno una parte della popolazione. Non si occupa di politica ma fa parte di un’associazione rwandese per i diritti dell’uomo “Volontaires de la paix” che è in contatto con organismi internazionali. Durante il genocidio, da cui si salva con l’aiuto di Jaqueline Mukansonera dopo molte peripezie, perde i suoi tre figli e il marito che si sacrifica per favorire la loro fuga.
Si trasferisce quindi a Bruxelles per testimoniare con pubblicazioni, conferenze e deposizioni le realtà e le responsabilità del genocidio. Le edizioni Fixot di Parigi hanno pubblicato nel 1997 il suo racconto/testimonianza in lingua francese, scritto in collaborazione con Patrick May, dal titolo “La mort ne veut pas de moi”.
Jaqueline Mukansonera, la Emmanuelle del libro che salva Jolande a rischio della propria vita, ha poco più di 30 anni. Nata a Butare, nel sud del Ruanda, in una famiglia di contadini hutu, ottiene il diploma di scuola elementare e quidi segue dei corsi supplementari cosicchè può insegnare per alcuni anni nelle campagne attorno alla città. Si trasferisce in seguito a Kigali. Anche due sue sorelle lasciano i campi, una per lavorare nella radio nazionale, l’altra per entrare nell’esercito. Anche quest’ultima la aiuterà a salvare Yolande dal genocidio.
È vicina di casa di Yolande, anche se le due donne si conoscono solo per il fatto che Jaqueline si è fatta curare una volta nel centro sanitario di Yolande. Essa dunque si prodiga per salvarla, come ha cercato di fare per altre persone, non per effetto di un rapporto di amicizia, ma unicamente per solidarietà e coerenza morale.
Collabora con organizzazioni cattoliche, essendo molto credente e praticante.
Oggi lavora a Kigali con l’ONG “Catholic Relief Service” ed è rimasta in contatto con Yolande per lettera e per telefono.
SEMINARIO DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Economia e Nonviolenza: dal pensiero al progetto
La splendida abbazia di Maguzzano (Lonato, Brescia), affacciata sul Garda, ha ospitato per due giorni, il 13 e 14 giugno, la riflessione del Movimento Nonviolento su Economia e Nonviolenza. Due giorni intensi di pensiero, discussione, progetto e convivialità, tra vecchi e nuovi amici della Nonviolenza
di Pasquale Pugliese
I partecipanti, stimolati dalle relazioni di Nanni Salio, Cristoph Baker e Maurizio Meloni, hanno apportato un prezioso e corale contributo ad un confronto serrato e costruttivo. Unica nota stonata l’assenza di Marco Revelli che, stracarico di impegni, ha dato forfait.
Le due giornate sono state strutturate con un’alternanza d’interventi tra relatori “ufficiali” e partecipanti, in un proficuo intrecciarsi di ruoli che ha consentito, tra l’altro, a Paolo Macina di presentare la costituenda Associazione Consumatori Etici ed a Renato Moschetti di far conoscere l’esperienza della MAG 6 di Reggio Emilia.
Il seminario si è articolato in due filoni di approfondimento. Da un lato vi è stato un approccio teorico teso a prospettare i principi guida di un’economia nonviolenta e sostenibile; dall’altro una ricerca pratica volta ad indicare le strade percorribili dal Movimento Nonviolento, nel duplice impegno di opposizione alla violenza strutturale del modello economico dominante e di costruzione dal basso di esperienze sociali alternative. Proviamo a ricordare alcuni elementi degli interventi dei relatori ed a precisare le proposte emerse.
Nanni Salio
la semplicità volontaria
Con un’argomentazione di carattere scientifico N. Salio ha indicato le motivazioni energetiche, ancor prima che etiche e sociali, che impongono un cambiamento strutturale del sistema di sviluppo. Rifacendosi ad una serie di studi globali (tra i quali quello dell’Istituto di Wuppertal), Salio ha mostrato l’insostenibilità dello stile di vita occidentale – “sovraconsumatore”, caratterizzato dall’automobile, dall’”usa e getta” e da un’alimentazione a base di carne – in particolare dal punto di vista ecologico ed energetico, dimostrando la necessità di ridurre almeno di un “fattore 4” (cioè ad un quarto) il consumo pro capite di energia.
Applicando il 2° principio della termodinamica alle questioni energetiche ed economiche, ha infatti mostrato come l’attuale sistema produttivo usa e dissipa una enorme quantità di energia rendendola indisponibile. E poiché l’energia fossile va rapidamente esaurendosi, s’impone una conversione dell’intero sistema economico all’energia solare.
Il sole ha una grande quantità di energia disponibile ma a bassa potenza e distribuita sul territorio. Si tratta pertanto di un’energia compatibile con una società decentrata sia in termini produttivi che abitativi: con l’energia solare non si possono alimentare grandi fabbriche che producono migliaia di automobili al giorno nei grandi sistemi urbani. Dunque l’intero sistema economico e sociale dev’essere riconvertito.
I criteri di riconversione formulati da Salio sono due: uno è il principio di “efficienza ecologica”, cioè produrre gli stessi beni con una quantità minima di energia; l’altro è il principio di “sufficienza o del limite”, cioè la definizione di quanto basta a ciascuno per sentirsi appagato dal punto di vista quantitativo.
Questo secondo principio, tradotto in termini etici, può essere definito come la scelta della “semplicità volontaria”. Ossia la scelta dell’autorealizzazione individuale attraverso la riduzione dei beni materiali. Tale principio individuale nella visione gandhiana si è fatto proposta generale di riforma per la costruzione di una società nonviolenta e sostenibile. La semplicità volontaria, come proposta di economia nonviolenta, si articola in una serie di principi che possiamo velocemente elencare:
self-reliance: produrre con le risorse locali su scala locale. Principio esattamente opposta alla logica della globalizzazione che segue invece il criterio di produrre dove costa meno e vendere dove costa di più;
“lavoro per il pane”: ricomposizione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale;
non attaccamento e non possesso: il primo indica un atteggiamento interiore e, dando senso alle cose che facciamo, vede l’impermanenza di ciò che è materiale; e secondo indica la disposizione a mettere i beni in comune;
amministrazione fiduciaria: risposta gandhiana al dilemma tra economia capitalista e capitalismo di stato: creare una capacità di gestione dei mezzi di produzione che non possono essere privati, perché costruiti collettivamente e perché, quelli essenziali, attengono ai diritti fondamentali dell’uomo;
non sfruttamento e uguaglianza: questi due principi fanno parte del patrimonio culturale della sinistra, oggi tendenzialmente abbandonati, mentre la destra teorizza esattamente il contrario;
satyagraha: non vedere il potere economico come un mostro perché ciò provoca l’apatia e l’indifferenza oppure la lotta violenta. Si tratta invece di affrontare e gestire il conflitto economico e sociale in modo non distruttivo, appunto con il metodo di lotta satyagraha.
Cristoph Baker
disarmo culturale ed economico
In modo coinvolgente Cristoph Baker ha condotto i partecipanti in una serie di riflessioni volte a mostrare l’assurdità del sistema sociale nel quale viviamo e la necessità di un disarmo culturale ed economico. Possiamo raggruppare in quattro nuclei gli elementi centrali del suo ragionamento:
necessità di liberarsi dalla visione lineare del progresso, e dunque dall’illusione che oggi si stia meglio di ieri, attraverso il coraggio del “ritorno indietro”: “non si torna forse indietro quando si è in un vicolo cieco?”;
bisogno di rinunciare ai miti della velocità e dell’accelerazione, sperimentando un “rallentamento” anche nella vita di tutti i giorni. Ciò permette di gustare tutti quegli elementi del quotidiano che sono andati persi: per esempio nel viaggio (“oggi non si viaggia più ma ci si sposta”);
cercare di vivere più sobriamente. Sostituire, dove possibile, la professione con il mestiere, l’attività o la vocazione. Riscoprire l’economia del dono e della reciprocità anche come scelta unilaterale;
ed infine, riscoperta dei piaceri di vivere nella convivialità come stile di vita e come scelta politica, riconducendo il denaro alla sua natura di semplice oggetto di scambio.
Rallentare i tempi, vivere con sobrietà e ricercare il vero piacere sono dunque, per Baker, gli elementi del disarmo culturale ed economico.
Maurizio Meloni
dallo sviluppo alla globalizzaizone
Maurizio Meloni è partito dalla constatazione che l’economia è la forma più pervicace e strutturata di violenza nel mondo contenmporaneo, per mostrarne l’evoluzione dall’ideologia sviluppista alla globalizzazione.
Nel mondo uscito da due guerre mondiali gli uomini hanno cercato una teoria economica unificante. Truman teorizza il modello di sviluppo unico per tutti: il mondo si divide in paesi sviluppati e in paesi in via di sviluppo. Tutti sono sviluppati o meno rispetto al modello di riferimento: quello americano. Anche i paesi dell’Est cercano di sviluppare un’economia di Stato all’interno della prospettiva comune di sviluppo.
Nel trentennio ‘45-’75, la stagione dello sviluppo si fonda su due cardini:
la crescita economica è inclusiva, per cui, seguendo il modello indicato, tutti, prima o poi, raggiungeranno la propria parte di ricchezza;
lo Stato nazionale rappresenta il fondamento del sistema economico.
Ad un certo punto questo sistema collassa. La promessa dell’inclusione per tutti si dimostra irrealizzabile. Si svela che ciò che era stato promesso a tutti in realtà non è per tutti. Se fino agli anni ’80 la distanza tra nord e sud cresce perché il nord corre più del sud, dagli anni ’80 in poi le strade si divaricano perché il sud torna indietro: da un divario di 60 a 1 si è giunti ad 87 a 1.
La globalizzazione è l’ideologia del nuovo sistema; essa rappresenta un cambiamento d’epoca: non vi è più alcuna prospettiva comune di sviluppo per i popoli della terra, ma si teorizza lo sviluppo a macchia di leopardo (regioni ricche e sviluppate accanto ad altre povere e poverissime); viene man mano svuotandosi l’autonomia degli Stati nazionali rispetto ai soggetti sovranazionali (per esempio Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale); si assiste ad un straordinaria crescita della finanziarizzazione dell’economia (i profitti della finanza sono cinquanta volte maggiori di quelli economici).
La globalizzazione dell’economia proietta anche le associazioni alternative in un quadro radicalmente nuovo, per affrontare il quale c’è la necessità di un salto culturale ed organizzativo. La campagna Globalizzazione dei popoli, della quale Meloni è coordinatore, a questo proposito ha avviato, tra l’altro, progetti per creare “economisti a piedi scalzi” e per costruire strategie di rete sul territorio al fine di superare la frammentazione tra movimenti ed associazioni.
Conclusioni
Che fare? Questa la domanda che ha aleggiato sul Seminario pervadendo, più o meno, tutti gli interventi. Ed anche sul piano propositivo le idee non sono mancate.
Intanto, con Nanni Salio, si è constatato che attualmente in campo economico non si mettono in atto campagne ispirate alla strategia di lotta nonviolenta; ciò che si fa sono al più campagne di sensibilizzazione. Non si impostano campagne che impongono obiettivi precisi, raggiungibili ed intermedi, ottenuti i quali si passa a fasi nuove di lotta. Non si impostano forme di lotta progressive e via via più incisive, che prevedano la disobbedienza civile, per il raggiungimento dell’obiettivo stabilito. Manca infine, quasi sempre, il “programma costruttivo”, cioè l’impegno in quelle cose che si possono fare senza chiedere il permesso a nessuno fin da subito, e dipendono dalla capacità e dalla serietà di chi le mette in atto.
Il Movimento Nonviolento nella sua storia ha accumulato una certa esperienza sia rispetto ai metodi di lotta, sia come impegno costruttivo (per esempio la realizzazione delle case per la nonviolenza). Il punto sta quindi nel come spendere questa esperienza e questa peculiarità in campo economico.
Con la consapevolezza che non si può procedere da soli, la riflessione collettiva si è volta alla ricerca delle possibili “alleanze” e delle possibili campagne da appoggiare – che abbiano caratteristiche di serietà di premesse ed obiettivi – alle quali apportare un contributo di stile e conduzione nonviolenti. Elenchiamo le proposte emerse:
fare l’inventario delle campagne in atto per verificare quali abbiano le caratteristiche più idonee ad un nostro coinvolgimento;
tenere d’occhio ciò che si muove di positivo nelle chiese, nei sindacati e tra gli scienziati, ed entrare in sintonia con associazioni affini alla nostra;
appoggiare le campagne del Centro Nuovo Modello di Sviluppo e proporre un abbonamento cumulativo tra AN e la rivista Equonomia;
continuare gli interventi in tema economico e le schede bibliografiche su AN;
aderire alla campagna per la Tobin tax;
moltiplicare i campi estivi – sull’esempio di quelli organizzati dal MIR-MN del Piemonte – su tutto il territorio nazionale, facendo una mappa, ed eventualmente una rete, delle situazioni di vita alternative.
Infine una proposta condivisa un po’ da tutti, maturata grazie alla buona riuscita di questo seminario, è quella di mantenere un appuntamento annuale per riflettere assieme sulle tematiche affrontate. Perché, come ci ha ricordato Nanni Salio, oggi è necessario avere una visione il più possibile strategica, che passi dal “pensare globalmente ed agire localmente” al “pensare ed agire localmente e globalmente”.
4 Novembre 1998 Nell’80° della fine della guerra 1915-1918
Dov’e’, o guerra, la tua vittoria?
Note e pensieri contro la vittoria militare
a cura di Enrico Peyretti
“Dov’è, o morte, la tua vittoria?”
(San Paolo, Prima lettera ai Corinti, 15,55)
Questa piccola raccolta viene pubblicata nell’occasione dell’80° anniversario della conclusione della prima guerra mondiale, celebrata come “la Vittoria” nella storia italiana, ed è offerta a chi vuole meditare sulla vacuità e falsità del successo militare omicida, che è sempre una sconfitta umana. Non si vuole entrare nella discussione storica su quella guerra, nè sul “parecchio” che secondo Giolitti si sarebbe ottenuto con la neutralità, né sul giudizio di “inutile strage” dato da Benedetto XV, nè sull’uso dei fanti come carne da mitraglia fatto da Cadorna, né sui processi per disobbedienza e diserzione, nè sulle decimazioni dei soldati ordinate dagli ufficiali nei reparti indocili. Si vuole soltanto meditare sulla vittoria in guerra, in tutte le guerre.
Questa raccolta è stata inizialmente composta (e pubblicata su il foglio n. 178, anno XXI, febbraio 1991) nei giorni tragici e vergognosi del gennaio 91, nostra universale sconfitta nella guerra del Golfo, che spezzò le nuove speranze di pace, dopo il mirabile 1989, anno dei maggiori successi, nell’Europa dell’est, delle lotte nonviolente. Qui la raccolta viene rivista e molto ampliata. E’ dedicata a tutte le vittime delle “vittorie”, supplicandole di perdonare questa nostra miserabile umanità, che tuttavia è sempre di nuovo chiamata, anche proprio da quelli che calpesta ed uccide, a ritrovare una ragione e un cuore umani. L’ordine dei brani è del tutto casuale (e.p.).
1. Nel soffitto della sala del trono, nel palazzo reale di Torino, c’è un dipinto del Miel (“La Pace che tiene sottomesso il Furore guerriero e Marte addormentato”), nel quale un cartiglio porta la scritta Multis melior pax una triumphis (Una sola pace è migliore di molti trionfi), che ricorda un poco il concetto ripetuto da Erasmo (tanto nel Dulce bellum inexpertis quanto nella Querela pacis): “E’ meglio una pace ingiusta di una guerra giusta”. Infatti, nella prima si può ancora ottenere la giustizia, che nella seconda è perduta.
2. “Quante ignobili vittorie!”. Con queste parole Michel de Montaigne (1533-1592) salutava il trionfo in America della conquista europea.
3. “Non si può chiedere all’obiezione l’efficacia immediata, essa non è che la restaurazione della categoricità della nonviolenza di fronte alla realtà, con l’esito inevitabile della sconfitta. Per la nonviolenza la sconfitta è una vittoria”. (Ernesto Balducci, La rivoluzione nonviolenta, in Testimonianze, n. 328, settembre-ottobre 1990, p. 27).
4. “Non c’è nessuna vittoria, signor generale, ci sono solo bandiere e uomini che cadono, e alla fine non ci saranno né bandiere né uomini”. (ultima lettera al proprio padre, un generale, di un soldato tedesco andato in guerra volontario, che ora sa che non tornerà vivo, in Ultime lettere da Stalingrado, Einaudi, Torino 1963, p. 50).
5. Nell’ultimo brano della classica antologia di Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, curata da Giuliano Pontara, Einaudi, Torino 1996, pagina scritta il 7 luglio 1947, risaltano i quattro caratteri che il Mahatma vide subito nella vittïria americana sul Giappone ottenuta con la strage atomica, mentre il nemico già chiedeva la resa: una vittoria ignobile, vuota, avvelenata, ingiusta.
6. Testimonianza di Alvise, nonviolento, verso la metà degli anni 80: “In questi anni ho imparato una cosa semplice: non voler vincere”.
7. I cristiani credono in un vinto, credono che il giusto vinto vince. Essi cantano a Pasqua: “La morte e la vita si sono affrontate in un grandioso duello: il signore della vita morto regna vivo”.
8. La guerra, l’uccidere invece di discutere, è un vincolo di morte, un orrendo amplesso fisico che assimila l’uno all’altro. E’ l’immagine capovolta del vincolo d’amore, che il Cantico dice forte come la morte, cioè in grado di sfidare la morte. Infatti, se uccidi con la guerra il violento, diventi come lui, è lui che ti vince. Se uccidi il giusto, lui vinto ti vince: Abele redime Caino, Cristo redime l’umanità omicida. Vince sempre il vinto, che sia buono o cattivo. La vittoria della forza non esiste, è apparenza sulla breve scena del tempo. La verità è sempre nel contrario di questa vittoria. La forza che presume di distruggere il nemico distrugge se stessa, piomba nel proprio vuoto. Vince il vinto cattivo: Hitler vinto ha vinto, perché la distruttività che lui non ha raggiunto è stata perfezionata e raffinata nello sterminismo atomico dei vincitori, non importa se entro altre ideologie. E vince il vinto buono: Cristo vinto ha vinto, perché nessuna speranza resta davanti a noi come la sua, seppure tante volte smentita.
9. Gandhi vedeva bene l’inconsistenza della vittoria armata: “Non riuscirete mai a eliminare il nazismo usando i suoi stessi metodi” (messaggio agli inglesi sotto i bombardamenti tedeschi, 7 luglio 1940, in Teoria e pratica della nonviolenza, curata da Giuliano Pontara, Einaudi, Torino 1996, pp. 248-249). Unica vittoria è quella che dà vita, quella della verità disarmata.
10. Nel film Wargames di John Badham (1983), un supercomputer calcola le possibilità di vittoria nella guerra totale e risponde: “L’unica mossa vincente è non giocare”. La vittoria in guerra non esiste più. Le vittorie di ieri non erano vittorie, sembravano. La luce atomica illumina la guerra in ciò che è sempre stata: un’atroce stoltezza. Lo dimostrava già Bertrand Russell nel 1957 nella sua Lettera ai potenti della terra, facendo vedere che la vittoria è un’illusione (cit. in E. Balducci, L. Grassi, La pace, realismo di un’utopia, Principato, Milano 1985, p. 192).
11. “Una vittoria può dirsi tale soltanto se tutti in egual misura sono vincitori e nessuno è vinto”. E’ questa una massima buddista antica di più di due millenni, citata da Gorbaciov per la sua grande attualità, nel discorso in cui sottolineava l’importanza della Dichiarazione di Nuova Delhi del 26 novembre 1986, firmata da lui e dal primo ministro indiano Rajiv Gandhi. In questo documento, nel quale si affermava che “la nonviolenza deve essere alla base della vita della comunità mondiale”, Gorbaciov vedeva il punto di incontro dei “massimi genî” dei due paesi, alludendo a Tolstoj e al Mahatma Gandhi. (Cfr E. Balducci, Gandhi, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1988, pp. 7-8).
12. Altri aforismi di Buddha sulla vittoria in guerra: “Fra chi vince in battaglia mille volte mille nemici e chi soltanto vince se stesso, costui è il migliore dei vincitori di ogni battaglia” (Dhammapada, n. 103). “La vittoria alimenta inimicizia, perchè chi è vinto giace dolente. Chi ha abbandonato vittoria e sconfitta, costui ristà tranquillo e felice”. (Dhammapada, n. 201, in Aforismi e discorsi del Buddha, a cura di Mario Piantelli, TEA, Milano 1988).
13. “Obiettivo della strategia della pace deve essere, in antitesi con la strategia di guerra – ed è questa la cosa sostanziale, quello di impedire la sconfitta del nemico” (Erich Fromm, La disobbedienza e altri saggi, Mondadori, Milano 1988). Cioè, la pace non nasce mai dalla vittoria sul nemico, ma dalla vittoria sull’inimicizia. La vittoria della saggezza è impedire la sconfitta del nemico, sempre foriera di volontà di rivincita. La vera vittoria è quella comune alle parti, è l’attingere un risultato sovraordinato comune. Vincere è pericoloso. L’unica sicurezza è con-vincere, vincere insieme. E per questo è necessario con-vincer-si, cioè acquistare il potere su di sé, il più difficile e prezioso, la vera potenza.
14. Ascoltiamo Erasmo (1466-1536), il grande difensore della pace all’inizio del ‘500. Egli avvertì che lo Stato moderno si andava costituendo sul diritto di guerra, per il quale disponeva dei nuovi terribili armamenti da fuoco. Cioè, la guerra era il primo reale articolo delle costituzioni statali, ancora non scritte. Erasmo propose un’ alternativa storica che non fu seguita. Noi oggi, al termine della modernità, nell’era della distruggibilità atomica, abbiamo un compito uguale: superare gli Stati e i super-Stati costituiti sulla violenza e la guerra. Erasmo fu un grande cristiano, che oggi la chiesa fa molto male a non ricordare. Dovrebbe essere proclamato “dottore della chiesa”, Dottore Pacifico.
In guerra, “il trionfo di questi è il lutto di quelli… atroce e grondante di sangue è la felicità”. “Alla fine, anche se ottengo vittoria completa, è più lo scapito che il guadagno”. “Se vogliamo vincere con Cristo… vinceremo veramente allorquando saremo vinti”. “Il bello è che non ottengono mai proprio quello che vogliono, e mentre stupidamente cercano di evitare questo o quello scoglio, piombano in altri guai, o negli stessi ma molto peggiorati”. “Chi vince è un assassino. Chi è vinto muore, ma non è meno colpevole: muore solo per non essere riuscito a compiere lui l’assassinio che tentava”. “In guerra piange anche chi vince”. “Noi ti preferiamo pacifico piuttosto che vittorioso” (a Filippo di Borgogna). “La vittoria (in guerra) non rientra mai fra i beni che appagano”.
Sono parole tratte dal Dulce bellum inexpertis (la guerra piace a chi non la conosce), dalla Querela pacis, dalla Lettera ad Antonio di Bergen, e da altri testi, oggi accessibili a tutti nel libro curato da Garin nelle Edizioni Cultura della Pace (Fiesole, 1988). In Erasmo si coalizzano contro la guerra l’argomento del sano utilitarismo e quello morale, per cui l’uomo è fallito quando uccide l’uomo.
15. All’obiezione del realismo cinico che si ammanta di giustizia, Erasmo risponde: “Quanto meglio lasciare impunito il misfatto di pochi, che cercare di infliggere una problematica pena a un paio di furfanti a prezzo del rischio certo di amici e nemici (come li chiamiamo), che non hanno fatto nulla”. Leggevo queste parole nel gennaio 1991, durante le prime ore dell’orribile sacrificio umano in cui si celebrava, contro innocenti vite irachene, una sanguinaria “giustizia internazionale” nei confronti del dittatore e aggressore Saddam. Trovavo deboli le parole di Erasmo, per quella strage, ma vi riconoscevo lo stesso dolore che in quel momento ci schiacciava. Si dirà poi che avrà vinto la ragione e la giustizia… Quando “giustiziare” vuol dire uccidere – fosse anche il colpevole, con la pena di morte, e a maggior ragione migliaia di innocenti – la parola giustizia è del tutto falsata, tradita, sconfitta: ha vinto solo il mistero di male che oscura il mondo.
16. “Non sarebbe male che un popolo, a guerra finita e dopo aver concluso il trattato di pace, dopo la festa del ringraziamento decretasse un giorno di espiazione per chiedere perdono al Cielo, in nome dello Stato, per la grave colpa della quale il genere umano continua a macchiarsi, rifiutando di sottomettersi ad una costituzione legale che regoli i rapporti con gli altri popoli, e preferendo usare, fiero della sua indipendenza, il barbaro mezzo della guerra (per mezzo del quale tuttavia non si decide ciò che si cerca, vale a dire il diritto di ogni Stato). I festeggiamenti coi quali si rende grazie per una vittoria conseguita in guerra, gli inni cantati (alla maniera degli Ebrei) al Signore degli eserciti, non contrastano meno nettamente con l’idea morale del padre degli uomini; infatti, a parte la già abbastanza triste indifferenza a riguardo dei mezzi coi quali i popoli perseguono il proprio reciproco diritto, esprimono per di più la soddisfazione d’avere annientato un bel numero di uomini, o distrutto la loro felicità”. Così Kant, in una nota del suo grande scritto Per la pace perpetua. Progetto filosofico (pubblicato nel 1795; traduzione e cura di Alberto Bosi; Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1995, pp. 135-136). La guerra è dunque per lui la “grave colpa”, il “barbaro (e inutile) mezzo”, e ringraziare Dio per la vittoria è offesa all’idea morale di Dio, indifferenza alla crudeltà dei mezzi bellici, soddisfazione per aver dato morte e dolore.
17. Ma non è solo il grande nobile animo di Kant a parlare così. Ascoltiamo un altro autore, il quale dice che in guerra le potenze belligeranti sono “tutte d’accordo su un punto solo, fare il maggior male possibile. La cosa più strabiliante di questa impresa infernale è che ogni capo assassino fa benedire le sue bandiere e invoca solennemente Dio prima di andare a sterminare il prossimo. Se un capo ha avuto la fortuna di far sgozzare solo due o tremila uomini, non ne ringrazia Dio; ma quando ce ne sono almeno diecimila sterminati dal ferro e dal fuoco e, per colmo di grazia, è stata distrutta fino all’ultima pietra qualche città, allora si canta a quattro voci una canzone abbastanza lunga [il Te Deum laudamus, preghiera usata come bestemmia classica nelle feste per la vittoria; n.d.r.], composta in una lingua sconosciuta a tutti coloro che hanno combattuto… La medesima canzone serve per i matrimoni e per le nascite, e al tempo stesso per la strage: questo è imperdonabile” . E’ quell’arciscomunicato di Voltaire (nella voce Guerra del suo Dizionario filosofico), in questa occasione vero teologo, più cristiano di un papa e più pio di un monaco.
18. Tommaso Moro (1478-1535), il grande amico di Erasmo, non arriva ad escludere la guerra dalla sua isola di Utopia, eppure scrive: “La guerra è profondamente detestata in Utopia, come cosa veramente belluina [come dice il suo nome latino; n.d.r.], sebbene nessuna specie di belva la pratichi così spesso come l’uomo; e nulla si ritiene tanto inglorioso – al contrario di quasi tutti gli altri popoli – quanto la gloria acquistata con la guerra”. Se è la cosa più ingloriosa, la vittoria in guerra è dunque la cosa più vergognosa.
Ma questo, dirà il realista freddo, avviene nell’isola che non c’è. A parte il fatto che Utopia può significare anche il buon luogo, il solo criterio che dà respiro e futuro all’intelligenza e alla vita è quello che lo stesso Moro ci dice: “Ci interessa tutto quello che non conosciamo ancora”.
19. Ancora Kant cita un detto antico, nel fare il bilancio dei vantaggi e svantaggi della guerra: “La guerra è un male, perché fa più malvagi di quanti ne toglie di mezzo” (Per la pace perpetua, Primo supplemento). Dunque, chi vince nella guerra? Il male.
20. “Inutile strage, orrenda carneficina che disonora l’Europa”. Così definì la guerra in corso, nel 1917, papa Benedetto XV, e fu coperto di improperi come disfattista.
“La guerra sarebbe il declino dell’umanità intera”. “La pace ottenuta con le armi non potrebbe preparare che nuove violenze”. Così, il 12 gennaio 1991, inutilmente avvertì le potenze occidentali papa Giovanni Paolo II, delegittimando solennemente la guerra del Golfo e la volontà di potenza dell’Occidente. Declino, in luogo del progresso. Nuove violenze, in luogo del nuovo ordine internazionale. E’ questa la vittoria della legalità, della democrazia?
21. “La guerra è una sconfitta anche per coloro che pensano di esserne eventuali vincitori” (L’Osservatore Romano, 20 gennaio 1991). “Una guerra è sempre una sconfitta” disse una ragazza della 1ªE, quattordici anni, durante un’assemblea nel mio liceo contro la guerra del Golfo. Era più saggia di quei pazzi potenti, più capace di Andreotti, Demichelis e Cossiga, di governare l’Italia.
22. E ogni sconfitta camuffata
con sonanti peana
di vittoria. Poi
il rimorso inutile:
e lamenti e preghiere
a riempire i cieli, e sempre
un Salvatore atteso
e poi respinto.
David Maria Turoldo
Nel segno del Tau, Mondadori, Milano 1988, p. 109
23. “Le stesse potenze che hanno “vinto” l’ultima guerra mondiale a proprio danno (…) non sono riuscite a ricavarne altro insegnamento se non che bisogna armarsi più accanitamente che mai. (…) Nulla hanno imparato e nulla vogliono imparare, dopo la loro triste “vittoria” hanno fatto poco o nulla per la pace e molto invece per rendere possibili nuove guerre”. (Hermann Hesse, nel settembre 1950, in Non uccidere, Considerazioni politiche, Mondadori, Milano 1987, p. 178).
24. Tra i commenti americani immediatamente successivi alle bombe di Hiroshima e Nagasaki troviamo anche questo, del settimanale cattolico Commonwealth, in un editoriale intitolato Orrore e vergogna: “Non dovremo più affannarci per mantenere limpida la nostra vittoria. E’ disonorata. Il nome Hiroshima, il nome Nagasaki, sono i nomi della vergogna e della colpa americana”. (Dal libro di Gar Alperovitz, Atomic Diplomacy, 2a edizione 1985).
25. L’Onu è una preziosissima conquista del nostro secolo per il futuro dell’umanità, e deve sviluppare il suo significato e le sue potenzialità, al di là dei suoi limiti attuali. Infatti, il suo vizio costituzionale, diventato col tempo tragicamente evidente, è di essere una istituzione nata per “salvare le future generazioni dal flagello della guerra” (Preambolo dello Statuto), ma fondata sulla vittoria, sul diritto di guerra, sul privilegio dei vincitori, sul loro potere di veto. Nessuna pace può nascere dal diritto della forza, che è l’unico diritto sancito dalla vittoria in guerra, solo occasionalmente e casualmente coincidente con il diritto e la ragione.
26. “La lettera bagnata di lacrime con cui il duca di Wellington annunciava di avere vinto Napoleone a Waterloo, perdendo 50 mila soldati, è stata acquistata dalla British Library per 350 mila sterline (750 milioni di lire)” (da La Stampa, 23 gennaio 1990). Se ben ricordo una lontana lettura, Wellington disse allora che una vittoria è poco meno tragica di una sconfitta.
27. Un film di Peter Brook (1989) ha proposto agli europei il Mahabharata, antico poema sacro indiano di tre o quattro secoli precedente all’era cristiana, che contiene il famoso Bhagavadgita (il Canto del Beato). Questo testo sembra addirittura inculcare il dovere della guerra, contro le esitazioni della coscienza. Ecco uno dei punti (nemmeno il più importante) dell’interpretazione datane da Gandhi, che lo ha meditato per tutta la vita: “L’immortale autore (…) ha mostrato al mondo l’inutilità della guerra, dando ai vincitori una vuota gloria” (Teoria e pratica della nonviolenza, cit., p. 9).
28. “Il dolore inflitto a milioni di individui non è nemmeno per il presunto vincitore configurabile come il prezzo della vittoria, quanto l’indice della sconfitta che su ogni piano lo accomuna al nemico”. (Luciano Gallino, La Stampa, 12 settembre 1990).
29. “L’esito della guerra dimostrò ancora una volta quanto illusoria sia la convinzione popolare secondo cui “vittoria” significa pace. Valse, invece, a confermare che essa è solo un “miraggio nel deserto”: il deserto che una lunga guerra, tanto più se combattuta con armi moderne e metodi illimitati, si lascia inevitabilmente alle spalle”. (B.H. Liddell Hart, Storia militare della seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 1974, p. 6).
30. “L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è che ci si incoraggi a ricuperare la stima di noi stessi sui campi di battaglia… Il senso di fiducia in se stessi e di autostima che gli americani desiderano veder ripristinato sarebbe sentito in modo più appropriato, in una democrazia come la nostra, se si fondasse sulla prova di salute e forza anziché su riferite distanti glorie di battaglie”. (Paul Kennedy, storico statunitense, su L’Unità, 26 gennaio 1991).
31. “…Infatti la guerra, diventando sempre più stupida, più sporca, più tragica, non potrà non partorire che una vittoria stupida, sporca, tragica… Invece che il nuovo ordine mondiale sta preparando un nuovo disordine che solo i ciechi non vedono”. (Alberto Cavallari, che all’inizio riteneva necessaria la guerra del Golfo, su La Repubblica, 27 gennaio 1991).
32. “Ora, poiché le armi più eccellenti sono oggetti sfortunati, ognuno le detesta. Perciò colui che segue la via non se ne occupa. (…) Le armi sono strumenti di sventura, non sono strumenti del nobile. Questi le usa solo se non ha nessun’altra alternativa, e considera superiori la calma e l’indifferenza. Se vince, non lo trova bello. Colui che lo trova bello gioisce di uccidere degli uomini. Ora, chi gioisce di uccidere uomini non può realizzare i propri intenti sull’impero. (…) L’uccisione di una moltitudine di uomini è pianta con dolore e lamentazioni; vinta una battaglia, ci si dispone come nei riti funebri”. (Lao-tzu, Tao-teh-ching, Il libro del Tao, traduzioni diverse, n. 31).
33. Asoka, il grande re buddhista dell’India antica (3° sec. a.C.), si era dedicato in un primo tempo all’espansione dell’impero. Nel corso della conquista del Kalinga rimase profondamente scosso dall’orrore e dalla pietà provati di fronte alle stragi perpetrate dai suoi soldati. Allora – sappiamo dal suo XIII editto rupestre – espresse pubblicamente il suo rimorso e dichiarò solennemente che da quel momento solo la vittoria del Dhamma (dovere, precetto, pietà) sarebbe stata da lui considerata vera vittoria. (cfr Per un percorso etico tra culture, Testi antichi di tradizione scritta, a cura di Pier Cesare Bori e Saverio Marchignoli, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996, p. 123).
34. L’alternativa è questa: o vittoria, o giustizia. Scrive Norberto Bobbio: “Fra due contendenti la pace può essere ottenuta o con la vittoria e la supremazia dell’uno sull’altro, o con la interferenza determinante di un terzo super partes. Nel primo caso si ha la cosiddetta pace d’impero, nel secondo caso una pace di compromesso, che Raymond Aron ha chiamato la “pace di soddisfazione”” (Autobiografia, Laterza 1997, p. 234). Quindi, la vittoria in guerra fa finire la guerra, ma non ottiene la pace giusta, bensì un dominio, che è impero, offesa, ingiustizia, della stessa qualità della guerra, benché non così immediatamente cruenta. Ricordiamo Erasmo: meglio una pace ingiusta di una guerra giusta. Ma non accontentiamoci. O vittoria, o giustizia.
35. “Per quanto giusta sia la causa del vincitore, per quanto giusta sia la causa del vinto, il male prodotto dalla vittoria come dalla sconfitta non è meno inevitabile”. (Simone Weil, Quaderni, I, trad. di G. Gaeta, 3ª edizione, Adelphi, Milano 1991, p. 232).
36. “La Giustizia fugge dal campo dei vincitori”, scriveva Simone Weil (Quaderni, III, trad. di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1988, p. 158). Fugge per andare a pesare sull’altro piatto, a pareggiare la giusta bilancia. In questo brano la Weil dice che la società è forza, e che, se si è consapevoli dello squilibrio sociale, occorre “aggiungere peso sul piatto troppo leggero”, con ogni mezzo, ma “bisogna aver concepito l’equilibrio, ed essere sempre pronti a cambiare parte, come la Giustizia”. Ogni vittoria, per diventare giusta, deve essere riequilibrata, abbandonata in favore dei vinti.
37. Quando alla vittoria si aggiunge il piacere di trionfare e di umiliare il vinto (il che accade ben facilmente), la vittoria diventa più vergognosa. Dice ancora Simone Weil: “Avevo dieci anni al tempo del trattato di Versailles. Fino ad allora ero stata patriota con tutta l’esaltazione dei bambini in periodo di guerra. La volontà di umiliare il nemico vinto, che invase tutto in quel momento (e negli anni successivi) in maniera così repellente, mi guarì una volta per tutte da questo patriottismo ingenuo. Le umiliazioni inflitte dal mio paese mi sono più dolorose di quelle che può subire”. (Al termine della Lettera a Georges Bernanos, scritta presumibilmente nel 1938, si trova in G. Gaeta, Simone Weil, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1992, pp. 95-100).
38. La vittoria delle armi dimostra la maggior forza e ferocia delle armi, nient’altro. Non dimostra nulla riguardo al diritto e alla giustizia. Può anche darsi che vinca la parte più giusta. Ma accade pure che le armi indeboliscano e inquinino le ragioni giuste, fino a perderle.
39. Quando Davide ricevette la notizia della morte di Assalonne, che si era ribellato contro di lui, fu scosso da tremito e salì a piangere nella stanza di sopra, gridando: “Assalonne, figlio mio, figlio mio! Perchè non sono morto io al tuo posto? Figlio mio, figlio mio Assalonne!”. Davide, che pure fu un duro guerriero, qui profetizza la verità su ogni vittoria omicida: è sempre un figlio, un fratello, un consanguineo, che il vincitore ha ucciso. Ogni vittoria è sporca di sangue familiare. E’ lutto, tanto quanto la sconfitta. “La vittoria in quel giorno si trasformò in lutto per tutto il popolo. (…) I soldati entrarono in città quasi di nascosto, come quando un esercito torna vergognoso dopo essere fuggito in battaglia” (2° libro di Samuele, 19, 1-4).
40. Accanto alla foto di un bambino col braccio destro amputato compare la scritta in inglese: “E’ per questo che combattiamo? La guerra non vince la pace”. E’ un manifesto del National Peace Council, di Colombo, nello Sri Lanka (da Echoes, rivista del Consiglio Ecumenico delle Chiese sul programma Giustizia, Pace, Salvaguardia del creato, n. 13/1998, p. 23).
41. I calciatori che, fatto un gol, danno in furiose esultanze, tirano pugni nell’aria, esibiscono grinte più feroci che felici, come se stessero sbranando un odiato nemico, dimostrano una malsana cultura della vittoria sportiva. Il gioco, la prova di abilità e forza fisica rappresenta, nel corso del lungo faticoso processo di umanizzazione, la neutralizzazione della guerra, la trasformazione della vittoria da dolore ad allegria. Invece, quel brutto modo di giocare e di vincere fa il cammino inverso, è la regressione umana dal gioco alla guerra. La barbarie di quei calciatori, corrotti dai troppi soldi che guadagnano e dalla psicosi sportiva di massa, riflette le violenze collettive degli stadi, che tornano a somigliare all’arena dei gladiatori. In questo senso, Alex Langer denunciava il motto olimpico “citius, altius, fortius” (più veloce, più alto, più forte) come emblematico del “modello della gara” che informa fino all’esasperazione e alla follia il modo di vita dominante (cfr Alexander Langer, Il viaggiatore leggero, Scritti 1961-1995, Sellerio editore, Palermo 1996, p. 329). Se giocare vuol essere solo vincere, quel vincere non è più leggero come il giocare, ma pesante come il combattere. A questa civiltà della competizione che produce più vittime che successi umani, più rifiuti che prodotti, a questo “progresso” che (come dice Eduardo Galeano) è un viaggio con più naufraghi che passeggeri, Alex Langer opponeva un altro motto: “lentius, profundius, suavius” (con più calma, più profondità, più dolcezza).
42. Conosco questa storia familiare: il padre era tornato vincitore, nel 1918, e trovò disoccupazione, miseria, disordini, sofferenze, violenze, sfociate nella dittatura fascista. Passano più di vent’anni e Mussolini, dopo la vigliacca vittoria sull’Etiopia, butta l’Italia nella fornace della seconda guerra mondiale. Il figlio di quell’uomo viene mandato in guerra. Il padre gli dice: “Senti bene, figlio mio: io l’altra guerra l’ho vinta e non ho avuto che guai. Tu prova a perderla, chissà che non ti vada meglio”. Spedito in Africa, il ragazzo appena vede gli inglesi butta a terra il fucile e si arrende. Passa il resto della guerra da prigioniero. Tornato a casa, trova un lavoro come reduce e se la passa a sufficienza nell’Italia della ricostruzione. In quella famiglia non credono molto nella vittoria. Del resto, è vero in generale che all’Italia sconfitta nel 1945 è andata assai meglio che all’Italia vittoriosa nel 1918.
43. Le feste per la vittoria sono “danza sulle bare”. Così scrive Benjamin Constant in Dello spirito di conquista e dell’usurpazione, edizione BUR.
44. La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente
egualmente.
Bertolt Brecht
* * *Prego i lettori di voler continuare, con altri documenti e testimonianze, a disonorare la vittoria militare.
Enrico Peyretti