• 23 Dicembre 2024 18:42

Azione nonviolenta – Settembre 2000

DiFabio

Feb 6, 2000

Azione nonviolenta settembre 2000

– Incontro con Aldo Capitini maestro della nonviolenza e della vita civile italiana
– In occasione della Marcia Perugia – Assisi del 2000, intervista impossibile ad Aldo Capitini
– Le esperienze di interposizione civile in zone di conflitto: nuove opportunità per una nuova cultura di Pace.

Rubriche

– Islam
– Cinema
– Musica
– Libri
– Campagne
– Lettere
– Una proposta di legge per un istituto di ricerca per la Pace

Incontro con Aldo Capitini
Maestro della nonviolenza e della vita civile italiana

A cura di Mario Martini

Aldo Capitini è un protagonista anomalo della cultura italiana e della scena politica del secolo XX, uno di quei personaggi di cui si trova traccia un po’ dappertutto, dagli scritti di filosofi, storici e uomini di cultura, alla stampa quotidiana di estrazione più varia, ma di cui i più sanno ben poco. La conoscenza di questo Autore si può dire sia inversamente proporzionale alla sua stima e notorietà. Quindi nulla può essere più utile che diffonderne il pensiero attraverso le opere, ma anche attraverso ogni mezzo che serva a farne conoscere i tratti salienti della personalità.
Quali sono i motivi per cui vale la pena di interessarsi all’Autore? La prima ragione è la singolarità e la linearità della figura di Capitini, e la seconda è la sua attualità. Un uomo che ha rifiutato per tutta la vita di sottomettersi al potere, a costo dell’isolamento; che tuttavia non ha mai rinunciato alla più ampia dedizione al sociale, e si è battuto per la libertà (intellettuale e pratica) e l’accesso al potere di tutti. Che ha messo in discussione “non solo le ingiustizie ma anche i modi ingiusti di combatterle”, appunto iniqui e violenti. Che ha proposto la persuasione religiosa come modo di vedere le cose nella loro possibilità di essere diverse, e la nonviolenza come metodo di risoluzione dei conflitti.
Come è stato notato, “uomo di molte eresie Capitini: religioso senza chiesa, sostenitore dell’apertura davanti alle chiusure del totalitarismo e poi delle ideologie, pacifista integrale contro militarismi, imperialismi, ma anche guerriglierismi, filosofo kantiano-leopardiano in tempi di neohegelismo trionfante, politico militante senza partito, teorico di una partecipazione popolare che sforava ogni limite democratico per propugnare l’omnicrazia, il potere di tutti” (M. Sinibalbi).
La prassi di liberazione non soltanto dell’umano che Capitini vuole far assumere, passa attraverso la nonviolenza, la cui pratica prepara una “tramutazione” di tutta la realtà. Questa, che si specifica nella nonmenzogna e nella noncollaborazione col male, è irrinunciabile criterio di convivenza. Sul fondamento del “tu più dell’io” si arriva alla concezione della “realtà di tutti” che attua una società più che democratica, base di una “civiltà della compresenza”.
Per la tenacia con cui proponeva e perseguiva le sue tesi, il filosofo umbro non è stato bene accolto nella comunità politica e nella cultura sua e dei nostri giorni. Di questa politica e di questa cultura egli è il segno della crisi, non però nel senso della mera negazione, bensì in direzione di un annuncio del nuovo. Capitini si situa al centro della crisi della modernità, di cui il suo pensiero denuncia le presunte conquiste, quasi tutte installate con la violenza. Lo sfruttamento della natura (oggi il problema ecologico); la non considerazione dei subumani (oggi l’etica animalista); l’oppressione degli insufficienti e dei deboli (oggi il problema degli emarginati, degli immigrati, dei popoli e dei paesi impoveriti, oppressi dalla conquista tecnologica e dal debito estero); la subordinazione delle donne; l’esaltazione dell’edonismo, della vitalità e della potenza. Tutti questi sono altrettanti punti sui quali si è incentrata la riflessione capitiniana, e costituiscono i motivi della sua attualità.

Scheda bio-bibliografica di Aldo Capitini

Capitini nasce a Perugia il 23 dicembre 1899 da modesta famiglia che lo avvia agli studi tecnici. Col diploma di ragioniere, studia da autodidatta il latino e il greco e consegue il diploma di maturità classica. I suoi primi interessi sono per la letteratura e per le vicende della vita pubblica; si distacca ben presto dall'”ingenuo nazionalismo” per avvicinarsi alla Bibbia, a Dante, Manzoni, Leopardi, e a moderni scrittori moralisti. Vinta una borsa di studio per il collegio universitario della Scuola Normale Superiore di Pisa, si iscrive in quella Università nella Facoltà di Lettere, dove si laurea in letteratura italiana. Si fa presto apprezzare nell’ambiente normalista, tanto che Attilio Momigliano lo nomina suo assistente volontario, e, sotto la direzione di Gentile, diviene segretario della Normale. Il successivo passaggio agli studi di filosofia è segnato dal discepolato con i maestri del neoidealismo italiano, da una parte Giovanni Gentile e dall’altra Benedetto Croce.
Ben presto però le sue discussioni con Claudio Baglietto ed altri normalisti gli fanno porre le basi di un’opposizione morale, interiore e religiosa, al regime che si sta affermando. Il Concordato del 1929 è vissuto in quell’ambiente e da Capitini come un tradimento del Vangelo. Subito dopo Gentile lo invita a prendere la tessera del Partito Fascista; Capitini rifiuta e, licenziato in tronco, ritorna nella sua Perugia. Gli anni dal 1933 al 1943 sono un periodo di maturazione intellettuale e di intensa attività contro il regime. Capitini sa costruire una fitta rete tra i suoi amici, gli studenti e i maestri universitari, di cui costituisce il punto di maggior riferimento. Tra questi amici circolava un fascio di dattiloscritti del Nostro che, venuti tramite Luigi Russo nelle mani di Benedetto Croce, questi fa pubblicare presso l’editore Laterza con il titolo Elementi di un’esperienza religiosa (1937). Seguono Vita religiosa (1942), Atti della presenza aperta (1943), La realtà di tutti (1944-1948), Saggio sul soggetto della storia (1947, La Nuova Italia).
Nella costruzione del movimento del Liberalsocialismo (con Guido Calogero, Capitini ne stenderà il manifesto), il filosofo finisce in prigione alle Murate di Firenze, da dove viene liberato dopo qualche mese, e successivamente nel carcere di Perugia, dal quale esce con la caduta del regime. Subito dopo la liberazione, intensa è l’attività pubblica del Nostro, cui è affidata la direzione del giornale del Comitato di Liberazione “Il Corriere di Perugia” e la reggenza commissariale dell’Università per Stranieri. In questa e in altre città Capitini organizza i C.O.S., Centri di Orientamento Sociale, assemblee alle quali la gente accorreva per dibattere, prendere parte alla vita pubblica, “parlare e ascoltare” come diceva Capitini, di cui si sentiva tanto il bisogno dopo vent’anni di dittatura. L’esperienza dei C.O.S. fu ben presto oscurata per l’avversione dei partiti, con il loro riorganizzarsi e diventare protagonisti esclusivi della vita politica.
Un altro ambito di attività è quello della “riforma religiosa”. Capitini dà vita ad un “Movimento di religione” con i convegni a Perugia nel 1946 e a Roma nel 1948. A Perugia Capitini fonda i Centri di Orientamento Religioso (C.O.R.); a partire da questa esperienza, scriverà un considerevole numero di “Lettere di religione”. La battaglia per la riforma, negli anni ’50 e ’60, vede l’opposizione di Capitini alla religione come istituzione. La Chiesa cattolica di Pio XII mette all’indice il volume capitiniano Religione aperta (1955), edito da Guanda e poi da Neri-Pozza. Capitini, che ha rivolto all’arcivescovo di Perugia la richiesta di essere cancellato dall’elenco dei battezzati, scrive Discuto la religione di Pio XII. E’ attento osservatore delle novità del Concilio Ecumenico Vaticano II, cui rimprovera la non chiara condanna della guerra, con il libro Severità religiosa per il Concilio.
Oltre che per queste sue posizioni, minoritarie ed ereticali in Italia, e per le quali egli stesso si richiama alle figure di San Francesco e di Mazzini, Capitini è noto al più vasto pubblico come il “Gandhi italiano”. La figura di Gandhi e il suo messaggio della nonviolenza sono già presenti al filosofo fin dall’epoca della pubblicazione in Italia dell’autobiografia gandhiana. Tale elemento è presente in tutto il suo pensiero, ne determina fortemente l’azione e l’intervento sociale. La nonviolenza è trattata negli scritti: Il problema religioso attuale (1948), La nonviolenza oggi (1962, Edizioni di Comunità), Religione aperta, già citato, Le tecniche della nonviolenza (1967, Libreria Feltrinelli).
Nel settembre del 1961 Capitini organizza per la prima volta in Italia la Marcia “per la pace e la fratellanza fra i popoli” da Perugia ad Assisi, su un percorso di 24 Km. Nonostante l’ostilità del governo e degli ambienti ecclesiastici, vede un notevole afflusso di partecipanti (tra i quali intellettuali come Norberto Bobbio, Guido Piovene, Walter Binni, Giovanni Arpino); l’avvenimento è documentato nel libro In cammino per la pace (1962, Einaudi). Nel 1962 Capitini fonda, con il primo obiettore di coscienza in Italia, Pietro Pinna, il Movimento Nonviolento, e nel 1964 la rivista “Azione Nonviolenta”.
L’attività nella quale Capitini fu impegnato anche professionalmente fu quella educativa, come docente universitario di Filosofia morale e Storia delle religioni a Pisa, e poi di Pedagogia nelle Università di Cagliari e di Perugia. Le pubblicazioni più importanti in merito sono L’atto di educare (1951), Il fanciullo nella liberazione dell’uomo (1953), i due volumi di Educazione aperta (1967-68, La Nuova Italia). L’interesse e l’attività educativa di Capitini si svolge in una costante attenzione ai giovani (Antifascismo tra i giovani, 1966) e soprattutto in un continuo impegno di educazione civile e politica, documentata nei volumi Nuova socialità e riforma religiosa (1950, Einaudi), Aggiunta religiosa all’opposizione (1958, Parenti). Tale impegno è rivolto anche alla riforma della scuola e alla difesa di una scuola pubblica, ambito di formazione del senso della cittadinanza e presidio di democrazia, negli scritti Scuola secondo costituzione (1959, Lacaita), L’educazione civica nella scuola e nella vita sociale (1964, Laterza).
Il pensiero e l’attività di Capitini si basano su una approfondita riflessione in un ininterrotto dialogo con il pensiero filosofico contemporaneo, sulla cui base Capitini elabora una propria visione della realtà che si enuclea nei concetti di “persuasione religiosa”, “apertura”, “realtà di tutti”, “compresenza”, “potere di tutti” (omnicrazia). Questo itinerario di pensiero trova espressione nei libri La realtà di tutti, già citato, Colloquio corale (1956, Pacini Mariotti), La compresenza dei morti e dei viventi (1966, Il Saggiatore, Premio speciale Viareggio 1967), Il potere di tutti (1969, La Nuova Italia), postumo.
A tutto ciò può essere affiancata la vasta attività pubblicistica su riviste specifiche e la fitta corrispondenza intrattenuta da Capitini con un ragguardevole numero di componenti dell’intellettualità italiana, tra i quali possiamo citare: Lelio Basso, Alessandro Bausani, Walter Binni, Norberto Bobbio, Guido Calogero, Delio Cantimori, Guido Ceronetti, Gianfranco Contini, Benedetto Croce, Ernesto De Martino, Danilo Dolci, Enzo Enriques Agnoletti, Lucio Lombardo Radice, don Lorenzo Milani, Attilio Momigliano, Adolfo Omodeo.
Dopo essere ritornato a Perugia nel 1965 come ordinario di pedagogia in questa Università, Capitini muore nella città nella quale era nato, il 19 ottobre 1968.

a) Bibliografia essenziale di Aldo Capitini

Elementi di un’esperienza religiosa, Laterza, Bari 1937, 19472; Cappelli, Bologna 1990.
Vita religiosa, Cappelli, Bologna 1942, 19852 .
Atti della presenza aperta, Sansoni, Firenze 1943.
Saggio sul soggetto della storia, La Nuova Italia, Firenze 1947.
La realtà di tutti, Tornar, Pisa 1944, 19482.
Il problema religioso attuale, Guanda, Parma 1948.
Italia nonviolenta, Libreria Internazionale di Avanguardia, Bologna 1949.
Nuova socialità e riforma religiosa, Einaudi, Torino 1950.
L’atto di educare, La Nuova Italia, Firenze 1951.
Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, Nistri Lischi, Pisa 1953.
Religione aperta, Guanda, Parma 1955.
Rivoluzione aperta, Parenti, Firenze 1956.
Colloquio corale, Pacini Mariotti, Pisa 1956.
Discuto la religione di Pio XII, Parenti, Firenze 1957.
Aggiunta religiosa all’opposizione, Parenti, Firenze 1958.
L’obbiezione di coscienza in Italia, Lacaita, Manduria 1959.
Battezzati non credenti, Parenti, Firenze 1961.
In cammino per la pace, Einaudi, Torino 1962.
La nonviolenza oggi, Edizioni di Comunità, Milano 1962.
L’educazione civica nella scuola e nella vita sociale, Laterza, Bari 1964.
La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano 1966.
Severità religiosa per il Concilio, De Donato, Bari 1966.
Antifascismo tra i giovani, Célèbes, Trapani 1966.
Educazione aperta, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1967-1968.
Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano 1967.
Il potere di tutti (con Lettere di religione ed estratti dal periodico “Il potere è di tutti”), postumo, La Nuova Italia, Firenze 1969.

b) Gli scritti di Capitini editi o riediti nel periodo 1988-1998

Lettere agli amici 1947-1968, Linea d’ombra, Milano 1989.
Le tecniche della nonviolenza, a cura di G. Fofi, Linea d’ombra, Milano 1989.
Opposizione e liberazione. Scritti autobiografici, a cura di P. Giacchè, Linea d’ombra, Milano 1991.
Scritti sulla nonviolenza, a cura di L. Schippa, Protagon, Perugia 1992.
Liberalsocialismo, a cura di P. Giacchè, Edizioni e/o, Roma 1996 (art. di G. Vattimo in “L’Espresso”, 11 luglio 1996).
Aldo Capitini-Tristano Codignola: Lettere 1940-1968, a cura di T. Borgogni Migani, La Nuova Italia, Firenze 1997.
Scritti filosofici e religiosi, a cura di M. Martini, Fondazione Centro Studi Aldo Capitini (già Protagon 1994), Perugia 19982 (comprende: Elementi di un’esperienza religiosa; Vita religiosa; Atti della presenza aperta; La realtà di tutti; Saggio sul soggetto della storia; La compresenza dei morti e dei viventi; Religione aperta).

c) Quanto è stato pubblicato su Capitini negli ultimi dieci anni.

Uno schedato politico: Aldo Capitini, a cura di C. Cutini, Editoriale Umbra, Perugia 1988.
G. ZANGA, Aldo Capitini. La sua vita il suo pensiero, Bresci, Torino 1988.
G. FOFI, Aldo Capitini e la nonviolenza, in AA.VV., Nonviolenza e pacifismo, Franco
Angeli, Milano 1988: poi in ID., Pasqua di maggio, Marietti, Genova 1988.
F. TRUINI, Aldo Capitini, Cultura della Pace, Firenze 1989.
F. ATZENI, Aldo Capitini un laico religioso non violento, SIPIEL, Milano 1989.
N. BOBBIO, G. FOFI, M. GRIFFO, L. MERLO PICH, P. POLITO, Per Aldo Capitini (estratto da “Il Poliedro”), Torino 1990.
O. POMPEO FARACOVI, Critica del totalitarismo e nuova socialità nel pensiero di Capitini, in “Dimensioni”, dicembre 1990.
C. CESA, M. MIEGGE, S. MORAVIA, S. QUINZIO ed altri, Elementi dell’esperienza religiosa contemporanea, La Nuova Italia, Firenze 1991.
T. PIRONI, La pedagogia del nuovo di Aldo Capitini, CLUEB, Bologna 1991.
N. MARTELLI, Aldo Capitini. Profilo di un intellettuale militante, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 1993.
G.B. FURIOZZI, Aldo Capitini e il liberalsocialismo, in ID., Socialismo e socialisti in Umbria tra ‘800 e ‘900, E.S.I., Napoli 1995.
A cura del Movimento Nonviolento, Nonviolenza in cammino. Storia del M.N. dal 1962 al 1992, Verona 1998.
P. SIMONCELLI, La Normale di Pisa. Tensioni e consenso (1928-1938), Franco Angeli, Milano 1998.
AA.VV., Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, numero speciale de “Il Ponte”, anno LIV, n. 10 (ott. 1998).
R. ALTIERI, La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Edizioni B.F.S, Pisa 1998.
S. ALBESANO, B. SEGRE, M. VALPIANA (a cura di), Le periferie della memoria. Profili di testimoni di pace, Movimento nonviolento, Verona 1999.
A. VIGILANTE, La realtà liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Edizioni del Rosone, Foggia 1999.
Oltre a numerosi articoli e recensioni apparsi su Riviste e Quotidiani.

d) Persone, luoghi e convegni che attestano la presenza di Capitini alle soglie del 2000

· Il 1° marzo 1996 nel Palazzo dei Priori di Perugia è stato presentato il volume Scritti filosofici e religiosi di Capitini da M. Cavicchi, M. Martini, C. Sereni.
· Il 22 maggio 1996 lo stesso volume è stato presentato nella sede dell’Istituto Italiano per gli studi filosofici di Napoli, da V. Dini, A. Drago, M. Martini, P. Polito.
· Nelle giornate di ricordo del musicista Valentino Bucchi, il 9 maggio 1996 a Palazzo dei Priori di Perugia M. Martini ha letto una memoria dal titolo Capitini ispiratore di Bucchi. La sintesi di pensiero del “Colloquio corale” (ora in “Esercizi musica e spettacolo” 16-17, nuova serie 7-8, 1997-98).
· Il 18 e 19 aprile 1997 l’Università degli Studi e la Scuola normale superiore di Pisa hanno organizzato un Convegno di studi su Capitini (i cui Atti sono stati pubblicati in “Il Ponte”, n.10 del 1998).
· Il 10 ottobre 1998 presso la Domus Mazziniana, organizzata dalla Biblioteca Serantini, c’è stata a Pisa una giornata su “Il pensiero e l’azione di Aldo Capitini nel trentennale della morte”, con interventi di T. Mattei, R. Altieri, A. Drago, M. Soccio, A. L’Abate, G. Mangini.
· Scritti su Capitini di P. Baldelli, W. Binni, M. Martini, L. Mencaroni, G. Moretti, un “Micropolis”, maggio 1998.
· Il 19 ottobre 1998 si è tenuto nel Palazzo dei Priori di Perugia a cura dell’Amministrazione Comunale e della Fondazione Capitini un Convegno per il trentesimo della scomparsa con interventi di G. Maddoli, A. De Sanctis, M. Fantin, L. De Luca, D. Cruicchi, L. Schippa, M. Martini, O. Pompeo Faracovi, M. Valpiana.
· Il 26 febbraio 1999 si è tenuta a Roma, presso la Libreria internazionale il manifesto, una Tavola Rotonda sulla validità dei temi capitiniani con interventi di L. De Luca, R. Altieri, M. Martini (vedi “Il Manifesto” del 25.2 con intervista di I. Di Cerbo a E. Santarelli).
· Il 16 ottobre 1999 nell’Aula Magna dell’Università degli Studi di Pisa Claudio Cesa ha commemorato la figura di Aldo Capitini.
· In occasione del Centenario della nascita, si sono tenuti in Italia due Convegni di carattere nazionale. Il primo a Perugia nella Sala Brugnoli della sede della Giunta regionale dell’Umbria, organizzato dalla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Perugia, il 18 e 19 ottobre 1999 su “Aldo Capitini e il socialismo liberale”, con relazioni di G.B. Furiozzi, S. Mastellone, V. Spini, L. D’Angelo, A. De Sanctis, L. Battaglia, M. Martini, A. Granese, A. Di Carlo, F. Bozzi, P. Polito.
· Il secondo a Torino presso il Dipartimento di Studi Politici per iniziativa del “Centro Studi Sereno Regis”, del “Centro Studi Piero Gobetti” (Torino), dell'”Associazione Nazionale Amici di A. Capitini” (Perugia), della Facoltà di Scienze Politiche di quella Università, il 15 e 16 dicembre 1999 su “Aldo Capitini filosofo della nonviolenza nel centenerario della nascita”, con relazioni di P. Pinna, A. D’Orsi, G. Fofi, G. Salio, M. Martini, R. Mancini, E. Peyretti, P. Polito, R. Altieri, M. Revelli.
· Capitini è presente nella Rivista internazionale “The Philosopher’s Index” (vol. 33, n.2, 1999).
· Per l’attiva presenza di Luciano Capitini, nipote di Aldo, opera a Pesaro un Coordinamento di Educazione alla Pace.
· Tra le varie realtà che rappresentano oggi la nonviolenza in Italia, sono espressione dell’eredità ideale e pratica di Capitini: a Perugia, la “Fondazione Centro Studi A. Capitini”, diretta da L. Schippa; l’Associazione Nazionale “Amici di Aldo Capitini”, diretta da M. Cavicchi; la Tavola della Pace, diretta da F. Lotti. A Vicenza, la “Casa della nonviolenza”, diretta da M. Soccio. A Verona, Il Movimento Nonviolento che pubblica la rivista fondata nel 1964 da Capitini “Azione Nonviolenta”, diretta da M. Valpiana.
· L. Mencaroni ha immesso Capitini nella realtà telematica, con il Sito Capitini e il COS in rete.
· Di schietta, anche se indiretta, derivazione gandhiano-capitiniana si può considerare l’Appello lanciato nel 1997 dai Premi Nobel per la pace, poi fatto proprio dall’ONU, di dichiarare l’anno 2000 “Anno per l’educazione alla nonviolenza”, e gli anni dal 2000 al 2010 “Decennio per la cultura della nonviolenza”.

· Siti Internet dedicati a Capitini:

Web con testi di e su Aldo Capitini
Il “C.O.S. IN RETE” mensile per il libero dibattito e l’informazione critica sulla costruzione nonviolenta del potere di tutti
Associazione Nazionale “Amici di Aldo Capitini”

IN OCCASIONE DELLA MARCIA PERUGIA-ASSISI DEL 2000
Intervista impossibile ad Aldo Capitini

A cura di Elena Buccoliero

Era il 24 gennaio 1961…

“Accompagnai la Marcia per i primi sei chilometri ed era soltanto festosa; alle porte di Assisi la ritrovai calda, energica, pulsante; movendosi aveva acquistato entusiasmo e forza”.
Dalla grande terrazza della sua casa gli occhi di Aldo Capitini si posano lontano. Le grosse lenti non servono, per seguire l’immagine che si snoda dinanzi ai suoi occhi.
“Eh, sì”, rievoca, “la prima fu da Perugia ad Assisi, il 24 settembre 1961, promossa dal Centro di Perugia per la nonviolenza che invitò a prender parte persone e associazioni politiche e religiose di ogni tendenza, e pose come condizione non la propria ideologia, ma l’assenza di ogni fatto o accenno violento in quelle ore. Ed effettivamente la marcia, oltremodo varia, fu oltremodo composta, pur festante”.
Che cos’è una marcia della pace?
“Un’ampia comunità momentanea e in movimento. La marcia è una manifestazione dal basso, al livello minimo, che tende a comprendere tutti. E’ assolutamente nonviolenta, cioè priva di armi; è il simbolo della moltitudine povera, che sa di essere nel giusto, che accomuna volentieri tutti. Queste manifestazioni uniscono persone diversissime e hanno una certa serenità anche per collocarsi nei paesaggi. Sono un esercizio fisico nel quale il popolo si sente a suo agio perché è più forte e non ci sono discorsi difficili”.
Come è nata quella prima marcia del 1961?
“Avevo visto, nei dopoguerra della mia vita, frotte di donne vestite a lutto per causa delle guerre, sapevo di tanti giovani ignoranti ed ignari mandati a uccidere e a morire, e volevo fare in modo che questo più non avvenisse. Come avrei potuto diffondere la notizia che la pace è in pericolo, se non ricorrendo all’aiuto di altri e impostando una manifestazione elementare come è una marcia?”
Ma come essere certi che fosse seguita da nonviolenti?
“Sapevo bene che gli aiutanti e i partecipanti – anche se d’accordo su certe condizioni – non sarebbero stati in gran parte persuasi di idee nonviolente; lo sapevo benissimo, ma si presentava un’occasione di parlare di “nonviolenza” ai “violenti”, di mostrare che la nonviolenza è attiva e in avanti”.
E perché proprio da Perugia ad Assisi?
“Dato anche che nell’Umbria non vi sono basi o fabbriche di guerra, quale meta migliore di Assisi? Assisi è cara al cuore degli umbri, e lo resta anche se essi non sono credenti cattolici, per la centralità, la bellezza rara, il carattere entusiasta, amorevole, sereno, popolare del santo”.
Allora ci furono polemiche su questo legame, tra San Francesco e una marcia che, sulle prime, venne considerata “comunista”.
“Collegare San Francesco e Gandhi voleva dire sceverare l’orientamento nonviolento e popolare dei due dalle circostanze e dagli atteggiamenti particolari; ed era anche uno stimolo a far penetrare nella religione tradizionale italiana l’idea che la “santità” è anche fuori dal crisma dell’autorità confessionale. Quando si arrivasse a mettere il ritratto di Gandhi in chiesa tra i santi, avremmo quella riforma religiosa che l’Italia aspetta dal Millecento, da Gioacchino da Fiore”.
Come vi siete rapportati con i partiti politici?
“Le condizioni erano chiare: la Marcia non avrebbe avuto nessun segno di partito, avrei stabilito io gli oratori della conclusione della Marcia, il partito doveva curare la diffusione della notizia presso i non iscritti, avrei esaminato io l’elenco delle scritte dei cartelli consigliate dai partiti”.
Dev’esser stato un lavoro immane, controllare la coerenza dei gesti… perfino i cartelli!
“Eh, non si poteva fare a meno dei cartelli, davano espressione e vivacità; era, in fondo, un lavoro e una soddisfazione che si dava ai partecipanti, e specialmente ai più originali, ai più creativi; ne venivano aspetti significativi e divertenti. Mi parve, dunque, che fossero da chiarire soltanto dei limiti: nessun cartello di tono violento, nessuna scritta contro la Chiesa e contro correnti ideologiche partecipanti alla Marcia, controllo dei cartelli stessi. Noi del Centro della nonviolenza ne facemmo un buon gruppo”.
E la polizia?
“La polizia, che si era presentata, pienamente armata, con centinaia di uomini, era stupita e piuttosto imbarazzata per il fatto che la dimostrazione era assolutamente pacifica, e deve essersi sentita inutile. Uno dei capi disse che questa era probabilmente la prima volta nella storia moderna italiana che non c’era affatto bisogno della polizia…”
A ripensarci, si può dire che quella Marcia abbia raggiunto gli obiettivi?
“Aver mostrato che il pacifismo, che la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta nella solidarietà che suscita e nelle noncollaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte, è un grande risultato della Marcia. Inoltre la Marcia, accolta con tanto entusiasmo dai partecipanti e da tanti altri aderenti, ha provato che non bastano gli attuali organi di informazione e di espressione, che la gente voleva e vuol dire qualche cosa direttamente. Non dico che dopo di allora tutto sia chiaro e acquisito, ma è certo che ora larghi gruppi di italiani sentono che la nonviolenza ha una sua parola da dire”.

La marcia del 2000

Il 24 settembre prossimo si riprende il cammino. Sul manifesto di convocazione è scritto: ‘Mai più eserciti e guerre’.
“Non posso accettare come veramente mio il mondo dove le persone cadono come oggetti, ma quello dove tutti sono soggetti, vivono, si svolgono. Perciò è inutile che io raccolga armi vicino a me e mi addestri ad usarle, se so già quale sarebbe la mia posizione domani”.
Quando si può dire che una marcia è riuscita bene?
“Una marcia non è fine a sé stessa; continua negli animi, produce onde che vanno lontano, fa sorgere problemi, orientamenti, affinità. Il principale lavoro a cui ora siamo intenti è quello di raccogliere associazioni, gruppi, periodici, persone, che lavorano per la pace”.
Molta gente è d’accordo sulla pace. Diverso è quando si parla di disarmo unilaterale. Questo dice il manifesto di convocazione.
“La nonviolenza non sta in un individuo astratto, ma è da individui a individui in situazioni, strutture, grandi problematiche e urgenti realizzazioni. Un modo in cui si fa presente è quello del pacifismo integrale. Il che vuol dire non solo il rifiuto di collaborare alla guerra e alla guerriglia, ma anche la scelta del disarmo unilaterale, unito all’addestramento all’azione del metodo nonviolento. Perciò la nonviolenza indica il pericolo dell’equilibrio del terrore, durante il quale eserciti e industria alimentano di armi tutto il mondo, da cui conflitti grandi e piccoli; indica gli spegnimenti della democrazia che vengono fatti per allinearsi in grandi blocchi politico-militari; mostra l’immenso consumo di denari nelle spese militari invece che nello sviluppo civile”.
E’ giusto appellarsi alle Nazioni Unite?
“Le Nazioni Unite, come insieme di sforzi per dominare razionalmente le situazioni difficili e per provocare continuamente la cooperazione, sono sostenibili, anche perché tutte le trasformazioni rivoluzionarie che la nonviolenza porta, sono sempre il fondamento e l’integrazione di quelle decisioni razionali e giuridiche che gli uomini prendono, quando esse sono un bene per tutti. Certo, il nonviolento non si scalda per il governo mondiale, che potrebbe diventare arbitrario e oppressivo, ma per il suscitamento di consapevoli e bene orientate moltitudini nonviolente dal basso”.
La guerra è sempre orribile; può accadere che non si possa fare altrimenti?
“L’uso della violenza è sollecitato dal successo che essa procura a più breve scadenza che non gli altri mezzi; resta da vedere a che cosa si riduce la mia vita dopo e se non sorgeranno prima o poi cinquanta al posto di quello che ho ucciso”.
E la nonviolenza?
“La nonviolenza guarisce la politica dalla sua fretta e impazienza. Sembra che faccia perdere tempo; e invece questo “tempo perduto” è tempo preziosamente guadagnato, perché consumato per fedeltà all’intima realtà che vale, l’unica che ha la capacità di veramente migliorare il mondo dal di dentro; mentre i politici lo trasformano in apparenza, e lo fanno continuare con i suoi difetti e gravissime colpe”.
Lo scorso anno l’Italia ha partecipato alla guerra in Kosovo, insieme alla Nato, per un intervento che è stato definito ‘giusto’, anzi: ‘umanitario’, contro la pulizia etnica a danno degli albanesi.
“Potrò, a parte il ripudio dell’uccisione, ricorrere a dei mezzi che diminuiscano l’effetto della violenza dell’altro, specialmente se in uno stato di furia; ma sempre tali che non lo mettano in uno stato di tortura né in uno stravolgimento della sua possibilità di razionalità”.
E quando ci è stato detto che si limitavano al massimo i danni ai civili? Queste almeno erano le intenzioni…
“E’ utopia non la sintesi tra innovazione e nonviolenza, ma piuttosto il credere di poter usare la violenza in piccolo. Con i potenti mezzi di armi chimiche e militari, concepire la violenza in piccolo è veramente antiquato, assurdo. Se si scelgono i mezzi violenti, bisogna arrivare ad usarli possibilmente tutti, non usare il fucile e rifiutare il mitra, usare il cannone e non l’aereo che bombarda, la bomba piccola e non la bomba H, e il napalm, e i gas… E’ una catena di violenze conseguenti, e una volta preso il primo anello della catena, si prendono gli altri; oppure… si butta tutta la catena, e si scelgono le tecniche nonviolente”.
Il problema è la scelta dei mezzi.
“I mezzi sono azioni vere e proprie; si avverte che chi usa certi modi nell’affermarsi, fa suoi quei modi, li approva, li propugna, li diffonde. Non è vero che basti calcolare il mezzo più adatto, più politico per ottenere l’intento; si vuol prendere in esame questo mezzo in sé, vederlo se è accettabile o se sostituibile con un altro che soddisfi di più la coscienza: si mette un ideale pur nello scegliere i mezzi”.
Mentre parliamo, migliaia di giovani visitano Roma per il ‘loro’ Giubileo. Un segno forte, che potrebbe dire qualcosa rispetto ai mezzi per cercare la pace.
“E’ una vergogna per noi che i governi abbiano paura dei rivoluzionari politici e non dei religiosi. Ed è una vergogna che avvengano queste guerre senza che i religiosi contrappongano e dispieghino il metodo nonviolento. Accanto ad una società che usa la guerra come via alla pace, la violenza come via all’amore, la dittatura come via alla libertà, la religione mi porta ad anticipare di colpo il fine nel mezzo; e ad attuare comunque, qui e subito, pace, amore, libertà”.
Che dire invece degli interventi di polizia, interna ed esterna agli Stati?
“L’azione dell’organo di “polizia” è lontana da quegli eccessi di distruzione e di eccitazione psichica e di impersonalità che ci sono per gli eserciti e le guerre: quell’azione è circoscritta, diretta specificamente contro chi porta violenza, e con lo scopo più di distogliere dalla tentazione che altro. Naturalmente il nnviolento tende ad altro, a smobilitare polizia e prigioni, ed ha fiducia che questo sia possibile, perché crede alla superabilità del male e alla attuabilità di migliori rapporti umani. Ma si rende anche conto che quello della polizia e della coercizione giudiziaria è l’ultimo strumento a cui una comunità rinuncia, e solo quando ci sia un ampio sviluppo di modi nonviolenti di convivenza”.

Il tu-tutti, l’inizio di una apertura religiosa.

Professore, lei poco fa ha parlato…
“Non “lei”: tu. Vedi, mi possono mancare tante cose, ma il tu, no. E’ una possibilità dentro la mia vita, unita ad essa”.
Grazie, ma…
“Si può dire che la prima tenica nonviolenta è quella del tu,, del rivolgersi con l’animo e con l’azione ad un singolo individuo, in modo da interiorizzarlo, da sentirlo come prossimo, come sé stesso. L’orizzonte generale della nonviolenza si intravvede quando il tu resta non singolare, ma è la disposizione a rivolgerlo anche ad altri, e molti, possibilmente e progressivamente a tutti. E’ un tu non di scelta e di preferenza, ma un tu-tutti”.
Non mi ero mai accorta che fosse così importante.
“Per me c’è un atto religioso che è incancellabile, che non ha bisogno di puntelli né di chiudere gli occhi a tutto il resto della vita, non è mito nel senso immaginoso, è realtà: è l’uomo – io o gli altri – col suo dramma, a cui la presenza interviene e dice tu. Scusa, ti ho interrotta”.
Ma no, siamo in tema… Parli di apertura e di rivoluzione religiosa; mi rendo conto che il discorso è complesso ma, puoi dirci qualcosa di più?
“La religione è apertura appassionata ad una realtà liberata; è riconoscimento del primato che spetta all’unità amore con tutti; è fondazione di una prospettiva superiore a quella che si osserva nel mondo e che è secondo potenza; è risoluta non accettazione della realtà come ci si presenta, accettazione che facciamo, ora per inerzia e viltà, non osando avere “speranza”, di protestare, di vegliare per l’insonnia del rifiutare il mondo; ed ora per una male spesa sobrietà, che non vuole illudersi e illudere. Ma la religione è servizio dell’impossibile, rifiuto di accettare i modi attuali di realizzarsi della vita e del mondo come se fossero assoluti e gli unici possibili: e chi l’ha detto? chi l’ha detto che ci debba essere sempre il peccato, il dolore, la morte? la prostituzione, il furto, l’odio? la vittoria della potenza, lo sfruttamento sociale, l’inaccettabile decoratività dei potenti assoluti? Non è chiusura accettare che la realtà, la società, l’umanità, continui e ripeta sempre sé stessa nei suoi modi fisici, sociali, politici, biologici?”
Allora la religione è solo un atteggiamento umano, una speranza umana? Dio dov’è?
“Teniamo fermo innanzitutto questo punto: non si comincia da Dio perché, se ne parliamo e lo pensiamo, realmente non muoviamo da lui fuori del pensiero, ma da una nostra idea; né si comincia dall’io, perché prendere l’io separato dagli altri, per noi non è la vera realtà, ma chiusura e realtà finiente. Moviamo dai tutti, che religiosamente è la realtà aperta all’eterno. Cominciamo dai cittadini tutti, e non dal re, o dal singolo suddito”.

La scelta tra Dio e mammona

Mi parlavi di disarmo. La nonviolenza comprende l’antimilitarismo, ma è molto di più.
“La nonviolenza promuove azioni per la pace sia sotto la forma di manifestazioni, sia come rifiuto di cooperare alla preparazione e all’esecuzione della guerra (obiezione di coscienza), e costituisce perciò la punta più avanzata del pacifismo, perché con la massima coerenza propugna il disarmo, la resistenza nonviolenta, le trattative, la sostituzione di una tensione etico-sociale come equivalente alla guerra. La nonviolenza preme crescentemente sulle religIoni tradizionali, investe in pieno il campo dell’educazione, della ricerca psicologica, della fondazione pedagogica…”
Non pensi che a volte si scelga la nonviolenza perché è più comoda? Voglio dire, è difficile confrontarsi con la violenza. Anche con la propria.
“E’ un errore credere che la nonviolenza sia pace, ordine, lavoro e sonno tranquillo, matrimonio e figli in grande abbondanza, nulla di spezzato nelle case, nessuna ammaccatura nel proprio corpo. La nonviolenza non è l’antitesi letterale e simmetrica della guerra: qui tutto infranto, lì tutto intatto. La nonviolenza è guerra anch’essa, o, per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di violenza disperata.
Per intendere la nonviolenza bisogna lasciar di guardare l’ordine, la compostezza, la pace: bisogna, invece, prender su risolutamente una responsabilità, che può essere anche in mezzo all’avversione e al biasimo”.
Mi viene in mente un passo del Vangelo, press’a poco: “sono venuto a portare la divisione”; e anche: “non si può servire a Dio e a mammona”.
“La nonviolenza non è per conservare alcuna cosa di questo mondo, sia dell’individuo o della società: non il piacere, il comodo, la casa, il letto, la roba, la vita, le cose fatte, costruite, l’ordine sociale, la regolarità dei servizi pubblici, l’esistenza dei cari, degli innocenti. Non è un accrescimento di sicurezza che tutte queste cose permangano; anzi, è una rinuncia interiore a questa sicurezza; è in potenza la morte di tutto questo. Perché nello stesso tempo la nonviolenza afferma un valore; ed è dunque atto, resurrezione”.
Il bisogno di ordine e di sicurezza è molto forte e sempre più diffuso. In Italia, negli ultimi anni, è un tema costantemente in prima pagina.
“Molti uomini, disfatti o disorientati, preferirebbero ritagliarsi una parte anonima della vita con uno stipendio immancabile, e frequenti “bicchierini” per tirare avanti”.
… “bicchierini”?
“Ma sì. Gli uomini, la civiltà infine del “bicchierino” per reggere; e il bicchierino può essere liquore, fumo, vincita di lotteria, vita sensuale, un appoggio insomma che ci sia realmente, un qualche cosa di sensibile, che dica all’uomo attraverso un piacere: tu sei.
Questi uomini furono ingannati perfettamente dal fascismo, il quale di rado era scomodo, ma nell’insieme ordinato e piacevole. Per scoprirne l’inganno bisognava non prendere l’ordine per cosa assoluta; e per reagire, non prendere per cosa assoluta il comodo proprio e circostante. I regimi che assicurano comunque un ordine trovano sempre moltissimi che li accettano, senza badare se l’ordine esterno non è tradito potenzialmente da una mentalità sopraffattrice e avventuriera”.
Tu ed altri avete lottato contro la violenza di quel regime.
“Una volta c’è stato un pacifismo molto blando, tanto è vero che davanti alla prima guerra mondiale e alla seconda vacillò. Credeva di arrivare alla pace molto facilmente attraverso la cultura, la scienza, l’interesse al benessere, il cosmopolitismo delle classi dirigenti. Si è visto poi che non bastavano, e si capisce perché. Non era stato affrontato il lato religioso del rifiuto della violenza, che cioè la violenza si rifiuta in nome dell’amore – e non dello star bene -, di una realtà liberata dagli attuali limiti – e non della continuazione di una realtà insufficiente -, e con una disposizione al sacrificio, ad essere come il seme del Vangelo che muore per far sorgere la nuova pianta. Il vecchio pacifismo era ottimista e di corta vista, il nuovo è drammatico e di fede nella liberazione dell’uomo-società-realtà dagli attuali limiti”.
Molto spesso la voglia di sicurezza si traduce in una lettura semplificata della realtà. Che è già una violenza.
“La nonviolenza tende ad eliminare gli schemi generici e impersonali. Noi viviamo troppo di questi schemi, e molte volte non ci curiamo d’altro; ma non esistono gli amici, i nemici, i malati, gl’italiani, i religiosi, gli autisti, ecc.; esistono i singoli individui, e la vita fondamentale è quella che li considera nella loro singolarità insostituibile. La guerra invece è il mostro più immane, che divora le singole individualità: non ci sono che i nostri e i nemici; è perciò sommamente diseducatrice”.
So che è contrario a quanto hai appena detto, ma… cosa ne dici se ci riposiamo un istante ammirando questo splendido paesaggio?
“Certe volte, anche a Perugia, il cielo è così ampio che non ci si sente più geograficamente in alto, ma in una posizione di umiltà ma non oppressa e quasi di familiare devozione all’infinito. In confronto ad altre regioni d’Italia, l’Umbria può apparire troppo raccolta in sé, ravvolta nel silenzio, troppo pura o “contemplativa”. Ma c’è una forza dentro”.

Alcune obiezioni.

A volte, e anche in occasione di questa Marcia, i nonviolenti vengono accusati di presunzione, come se pretendessero di avere già capito tutto.
“Anzitutto è bene non presentarsi come “nonviolenti” ma come “amici della nonviolenza”. Perché se dite di essere nonviolenti, vi guarderanno scrutando ogni vostro atto, per cercar di trovare l’impossibilità di essere nonviolenti. E’ molto più semplice e modesto dire: io sono amico della nonviolenza, mi piace, cerco di metterla in pratica, ne parlo con gli altri, ma capisco anche che c’è molto da fare per cambiare se stessi”.
Qual è il ruolo del nonviolento?
“Il nonviolento deve essere attivissimo sia per conoscere le ragioni della violenza, per individuare la violenza implicita che si ammanta di legalità e smascherarla impavidamente; sia per supplire all’efficacia dei mezzi violenti con il moltiplicarsi dei mezzi nonviolenti; sia per vincere l’accusa e il pericolo intimo che la nonviolenza venga scelta perché meno faticosa e meno rischiosa: il nonviolento deve portarsi alla punta di ogni azione, di ogni causa giusta”.
Parlando con te è facile, ma tra la gente, fuori, sai come va. Si dice che la violenza c’è sempre stata, è impossibile che possa scomparire.
“E’ facile rispondere che nella storia si vede una lunga durata del furto, della prostituzione ecc., ma ciò non toglie che non si debba continuamente lottare contro di essi. Dato che siamo qui, in vita, e che possiamo dare un contributo, perché non darlo?
Si può anche rispondere che oggi questa aggiunta ci vuole, e conta, e avrà il suo peso, e bisogna avere la fermezza di darla, se si è persuasi. Si dice che la storia ha i suoi parti; noi siamo persuasi che il metodo nonviolento per tutte le lotte è un parto attuale della storia. E comunque, un affiorare di migliaia e milioni di centri nonviolenti e attivi in tutte le parti, che attacchino la società esistente, non c’è stato ancora”.
Parliamo tante volte di violenza non solo diretta, ma anche strutturale e culturale. Ai tuoi tempi si parlava forse di mondialismo, oggi si dice ‘globalizzazione’: dell’economia, della cultura e anche nella gestione dei conflitti.
“C’è sempre qualcosa di educativo in questo dirsi cittadini del mondo, tanto più in presenza di tanti persistenti nazionalismi, e alquanto torbidi: una prima purificazione può essere quella di dire, “conveniamo insieme tutti nel mondo”, vediamo di intenderci, ascoltiamo e parliamo. Là dove la nonviolenza interviene è nel primato da dare, la nonviolenza dice: persuadiamoci dell’interna ragione dell’unità umana, poi vedremo le forme sociali che ne conseguono. Il mondialismo sembra più concreto, ma corre il rischio di mantenere la violenza e di appoggiarsi ad un impero vincente, e tutto resta quasi come prima; diminuirà qualche guerra, perché il diritto di farla rimane al centro dell’impero, ma è grave l’inconveniente che se questo governo mondiale fa ingiustizie, non c’è scampo”.
Il problema però è complesso, perché si finisce con l’essere idealmente cittadini del mondo ma, in realtà, sottomessi alle decisioni di pochi.
“E’ l’enorme pericolo della concentrazione di tanto potere esecutivo in poche mani: poche persone decidono nel campo militare, politico, economico; gli attuali controlli sono apparenti ed insufficienti; l’individuo sente sempre più che poteri a lui estranei decidono su tutto, senza tenere minimamente conto di ciò che lui voglia, anzi ingannandolo mediante un enorme dispiego di mezzi di comunicazione di massa. Le discussioni circa le spese, i programmi culturali, la politica nazionale e internazionale e perfino circa la guerra, passano sul capo dei singoli individui”.
Che cosa fare?
“Non isolarsi, non cercare di affrontare e risolvere i problemi importanti da isolati; da isolati non si risolvono che problemi di igiene, di salute personale e, se mai, di benessere ad un livello angusto. Per il problema sommo che è il potere bisogna che l’individuo non resti solo, ma cerchi instancabilmente gli altri, e con gli altri crei modi di informazione, di controllo, di intervento. Ciò non può avvenire che con il metodo nonviolento, che è dell’apertura e del dialogo, senza la distruzione degli avversari, e influendo sulla società circostante per la progressiva sostituzione di strumenti di educazione a strumenti di coercizione”.
E chi ha il privilegio di nascere nella fetta più ricca del mondo…?
“Nella società com’è oggi non si può esser ricchi. Tutto il ‘resto’ deve essere incessantemente fatto affluire a coloro che hanno un cibo, un vestito, una casa, una salute, un’istruzione, molto inferiore a quelle possedute da noi”.
Sei molto netto.
“Deve diventare assurdo che ci sia un escluso, un mancante, un misero, mantenendo diversi livelli sociali e una limitazione di possibilità per alcuni. Se un religioso se la sente di continuare ad essere ricco, mentre c’è chi muore di fame, arrossisca di vergogna come se fosse nudo o sporco”.

La nonviolenza come “riduzione del danno”

Posso chiederti ancora qualcosa? Mi sto entusiasmando…
Anche lo Stato, anche il nostro stato italiano ricorre all’uso della violenza. Negli ultimi mesi è risultato evidente il problema delle carceri: si parla di indulto, di pene alternative alla detenzione. Che cosa ne pensi?
“La violenza dello Stato si presenterebbe come meno inaccettabile perché può esser fatta in nome di qualche cosa che modera l’espansione dell’egoismo individuale. Lo Stato può uccidere ragionandoci di più, sulla base di quell’esperienza tradizionale che è il diritto. Inoltre la violenza usata dallo Stato è eseguita secondo una legge, e questa legge è nota prima ai cittadini. Perciò posso preferire che le armi le tenga piuttosto la guardia di polizia che il mio vicino di casa. Contro queste ragioni, sta la cattiva educazione che essa produce, in quanto disabitua dalla iniziativa e responsabilità individuale, produce il conformismo, induce a tendere alla conquista dello Stato per poi imporre leggi”.
Qual è l’obiettivo a cui mirare?
“Perché si usa la giustizia con la forza della polizia e delle prigioni? per mantenere e promuovere il rispetto delle persone (fine che il nonviolento attua con la forza dell’anima): tutto ciò che va contro quel fine va corretto e tolto, nell’uso della polizia e delle prigioni. Perché viene esercitata la guerra? per difendere l’indipendenza della patria e l’uso dei suoi beni da parte dei cittadini (fine che il nonviolento attua mediante la noncollaborazione con l’invasore): tutto ciò che va contro quel fine va corretto e tolto, appunto in nome di un punto di vista che non assolutizzi la nazione e le renda lecito tutto”.
Vuoi dire che si tratta di ridurre la violenza, se non proprio di cancellarla?
“Sarebbe già molto se eliminato l’uso della violenza torbido, irrazionale, per gusto, restassero due elementi in gara di serietà e impegno, l’uso minimo della violenza per il bene sociale, e la nonviolenza per lo stimolo continuo ad un ulteriore sviluppo, a una ancor maggiore importanza data alle persone, sorgenti del nostro intimo, e non soltanto affidate alle garanzie del diritto”.
Perché resta il problema della giustizia; tu dici che la nonviolenza non è passività nemmeno verso il passato.
“Sì, la nonviolenza non è soltanto rifiuto della violenza attuale, ma è diffidenza contro il risultato ingiusto di una violenza passata. Di quanto più di violenza è carico un regime capitalistico o tirannico, tanto più il nonviolento entra in stato di diffidenza verso di esso”.
Quindi anche la riconciliazione o il rinnovamento dovranno seguire metodi nonviolenti?
“Sarebbe un errore mettere da canto la nonviolenza per portare avanti una qualsiasi trasformazione sociale e politica, per poi prendere la nonviolenza, come fosse una sigaretta da fumare dopo il pasto o una scampagnata domenicale. La nonviolenza è già e subito anima e metodo diverso, che procede insieme col lavoro sociale e lo vive e lo risolve a suo modo”.

Una facile profezia

Quando si oppone la nonviolenza alla logica del più forte, la gente chiede garanzie. Come dire: funziona davvero? dà dei risultati concreti, o sono soltanto belle parole?
“Anzitutto, l’uso della violenza non ci dà sufficiente garanzia che trionfino i buoni, perché richiede tanti compromessi e tanti addestramenti che si perde una parte di quella bontà, di quella elevatezza; e questo si vede dopo le guerre, quando c’è un diffuso trionfo di violenti, e ci vuole l’azione di nuclei puri per cercare di guarire.
Noi non possiamo garantire che il metodo nonviolento vincerà prima, e meglio di ogni altro metodo, e che possa essere assunto perché è uno strumento più adatto a conseguire il fine. Noi lo illustriamo, ne diciamo le qualità, perché sorga interesse ad esse, un innamoramento e una persuasione interiore; e per noi è strumento migliore in questo senso, per i valori che mette in movimento e che ne fanno ben più di un semplice mezzo. Ora, gli uomini non hanno bisogno soltanto di ordine nella società, ma che ci siano vette alte e pure. Se per tener testa ai cattivi, bisogna prendere tanti dei loro modi, all’ultimo è realmente la cattiveria che vince”.
Quale può essere, allora, la forza interna e l’obiettivo dei gruppi nonviolenti?
“I gruppi debbono sapere che non ce la fanno a mutare subito il sistema, e che la loro forza sta nello spaccarlo, nello smentire la sacralità, la provvidenzialità, l’autorità. Questa coscienza deve ispirare anche la strategia dei gruppi: la contestazione ha un significato più profondo di quanto sembrerebbe, si tratta di una squalifica di nobilità, di superiorità, di validità universale che deve cadere sul “sistema” attuale di potere e di potenza”.
Quale previsione è possibile per gli anni a venire?
“E’ facile la profezia che ancora gli imperi militari-industriali del mondo concentreranno forze immani. Ma la nonviolenza ha cominciato ad aprire in ogni paese un conto, in cui ognuno può depositare via via impegni e iniziative. Nessuna paura e nessuna fretta, nessuna gelosia e nessuna presunzione, per l’organizzazione: possono sorgere innumerevoli centri per l’addestramento alle tecniche del metodo nonviolento”.
Per concludere, ti chiedo un augurio per il 24 settembre. Siamo ormai alle porte della prossima marcia, chissà se sarà entusiasmante come quarant’anni fa…
“C’è stato chi ha detto che la I Marcia Perugia-Assisi era così bella che è irripetibile. Ma come si potrebbe non correre il rischio di farne di meno belle, se esse devono adempiere ad un compito importante?”

Per l’Intervista impossibile ad Aldo Capitini abbiamo utilizzato i seguenti testi:
A. Capitini, Perugia, La Nuova Italia, Firenze 1947, p. 8.
A. Capitini (a cura di), In cammino per la pace, Torino, Einaudi 1962, p. 6, 13, 14, 15, 16, 20, 21, 31, 35, 37, 38, 39.
A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Milano, Libreria Feltrinelli, p. 46, 47, 102, 103, 104.
A. Capitini, Religione Aperta, Vicenza, Neri Pozza Editore 1964, p. 20, 137, 138.
A. Capitini, Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 197, 199, 200.
AA.VV. (a cura di), Il messaggio di Aldo Capitini, Manduria, Lacaita Editore 1977, p. 39, 51, 54, 88, 218, 220, 221, 222, 223, 231, 232, 233, 235, 240, 241, 247, 248, 250, 252, 264, 268, 270, 271, 278, 288, 292, 363.
PER UNA “SMILITARIZZAZIONE” DEL PENSIERO

Le esperienze di interposizione civile in zone di conflitto:
nuove opportunità per una nuova cultura di Pace.

Di Carlo Gubitosa, Associazione PeaceLink

Il 18 maggio 2000 sono partito per la Cecenia assieme ai volontari dell'”Operazione Colomba” (www.geocities.com/opcol), una delle pochissime organizzazioni italiane che praticano con continuità l’interposizione nonviolenta e la condivisione diretta in zone di guerra, con lo slogan “abitare il conflitto”. Le mie due settimane di permanenza in Caucaso, documentate per esteso in un dossier presente in rete su <www.peacelink.it/cecenia>, sono state un’occasione per maturare anche delle considerazioni di carattere più generale.

La prima di queste considerazioni è che parlando di guerra e di alternative alla guerra il pessimismo non è sempre giustificato. L’aumento costante e incontrollato della spesa militare, l’assenza di una politica concreta di pace da parte dei nostri governanti, il rafforzamento dell’autorità NATO a spese dell’ONU, possono effettivamente indurre al pessimismo in una prospettiva di breve periodo, ma allargando l’orizzonte ai tempi lunghi della storia, che sono poi i tempi necessari alla società per cambiare in meglio, va riconosciuto che gli ultimi trent’anni di vita democratica del nostro paese hanno dato all’Italia delle leggi, una cultura e una mentalità che ci hanno avvicinato notevolmente a quei principi di ripudio della guerra e della violenza che fino all’immediato dopoguerra erano condivisi solo da alcuni “pionieri” come Aldo Capitini e Danilo Dolci.

Quando sono nato, nel 1971, l’obiezione di coscienza era ancora un reato, che non veniva estinto con la reclusione. Dopo ogni periodo di detenzione si riproponeva nuovamente all’obiettore di coscienza la scelta tra il carcere e la caserma, e questi cicli di carcerazione terminavano solo per problemi di salute o grazie a cavilli burocratici che consentivano il rilascio dell’obiettore. Il rifiuto del servizio militare armato era considerato dall’opinione pubblica un segno di viltà o di effeminatezza, e per un genitore era una vergogna avere un figlio che rifiutava di indossare la divisa.

Anche dopo il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza, avvenuto nel 1972, fino al 1998 la legge ha proibito agli obiettori di partecipare a missioni di Pace all’estero, e chi ha scelto ugualmente di espatriare, ad esempio durante la guerra in Bosnia, ha pagato la sua disobbedienza civile con un processo e con pesanti conseguenze penali e burocratiche. Grazie alla legge 230 del luglio ’98, la mia presenza in Cecenia come obiettore di coscienza non avrà ricadute sulla mia fedina penale.

Un altro passo avanti è stato fatto con l’approvazione da parte del Parlamento Europeo di una raccomandazione sulla creazione di un “Corpo di Pace Civile Europeo” (CPCE), frutto dell’instancabile volontà di Alex Langer, che nel corso del suo mandato come europarlamentare ha saputo trasformare un sogno in un impegno ufficiale dell’Europa.

Posso sicuramente dirmi fortunato per aver assistito a tutti questi cambiamenti nell’arco di una sola vita, e proprio alla luce di queste trasformazioni della società non posso che essere ottimista verso ciò che ci riserva il futuro. Oggi viviamo in un Paese dove, a differenza di trent’anni fa, l’obiezione di coscienza è diventata un fatto quotidiano e normale, motivo di orgoglio e non più di vergogna per i genitori degli obiettori. Alla luce di questa “rivoluzione nonviolenta” nelle nostre leggi, nel nostro modo di essere e nella nostra visione della vita, è ancora un’utopia immaginare una cultura e una società dove la difesa armata non sia più ritenuta insostituibile nè tantomeno indispensabile ?

Quello che manca per l’affermazione di una alternativa efficace alla “pace delle armi” è ormai solamente la volontà politica necessaria per recepire pienamente nel nostro Paese l’invito fatto dal Parlamento Europeo per la sperimentazione di un modello di intervento in zone di conflitto diverso da quello dell’ingerenza armata.

L’intervento civile nonviolento dimostra la sua forza proprio in quelle situazioni dove il principio dell’ingerenza armata rivela tutta la sua debolezza e le sue contraddizioni. La “pace” armata, infatti, è un modello basato su un’ipotesi fondamentale: i diritti umani possono essere fatti rispettare solamente se si dispone della forza militare sufficiente a sottomettere il Paese che li calpesta.

Le potenzialità dell’utilizzo di un corpo civile di pace in zone di conflitto sono ancora tutte da scoprire, e ritengo che i prossimi trent’anni ci riserveranno delle interessantissime sorprese. Solo il futuro può dirci che cosa succederà quando le diplomazie internazionali scopriranno che con qualche migliaio di civili disarmati si potrà intervenire anche in situazioni dove uno scontro militare sarebbe impensabile (ad esempio contro le violazioni dei diritti umani che avvengono in Russia o in Cina), quando si scoprirà la forza dell’interposizione disarmata e della presenza diretta sul territorio contro la debolezza dell’imposizione militare fatta a diecimila metri di quota, quando ci si renderà conto che la pace stabilita sulla convivialità delle differenze e l’integrazione delle culture è molto più redditizia, stabile e duratura della pacificazione basata sulle spartizioni territoriali e sulle divisioni delle etnie.

Andando in Cecenia ho fatto esperienza diretta di quello che può fare un piccolo gruppo di volontari determinato a non chiudere gli occhi davanti ad una tragedia, e se con i nostri poveri mezzi siamo comunque riusciti a sollevare un problema e a risvegliare delle coscienze, mi chiedo quale potrebbe essere la devastante forza pacifica che potrebbe essere scatenata da un gruppo di qualche migliaio di volontari organizzati in un corpo civile di pace europeo.

L’esperienza dell’Operazione Colomba, che dura ormai da più di sei anni, ha reso meno astratta l’idea di un piccolo gruppo di persone che decide di “mettersi in mezzo” alle guerre per stare vicino alle vittime di tutte le parti in conflitto. Alcune persone stanno abituandosi all’idea che ogni singolo cittadino abbia il diritto e la potenzialità di intervenire per dire “no” alla guerra, anche recandosi personalmente nel cuore di un conflitto a molte migliaia di chilometri da casa propria.

È su queste esperienze che bisogna costruire un nuovo “senso comune”, rendendo sempre più “normale”, quotidiana e naturale l’esperienza di un intervento civile in zone di conflitto, cosi’ come oggi è normale e naturale l’invio di centinaia di militari italiani in missione all’estero.

Trent’anni fa, secondo il “senso comune” delle cose, era illegale, assurdo e scandaloso che un giovane potesse rifiutarsi di servire la patria con il fucile in mano. Mi piace pensare che tra trent’anni quello stesso senso comune potrebbe ritenere illegale, assurda e scandalosa un’ingerenza armata per intervenire in una zona di guerra, e questo pensiero è più realistico di quanto non sembri.

L’unico ostacolo a questo processo di “smilitarizzazione del pensiero” sembra essere ormai il nostro “fronte interno”, la resistenza dei nostri governanti. Andando in Cecenia non mi ha fatto paura la guerra, mi ha fatto paura l’omertà e la connivenza dei nostri governanti e dei nostri imprenditori.

Molto onestamente e senza mezzi termini, un funzionario delle Nazioni Unite che abbiamo incontrato a Mosca ci ha messo in guardia sui rischi legati alla nostra presenza in Caucaso: “non aspettatevi aiuto dal governo italiano o dall’ambasciata. Se vi accade qualcosa è molto probabile che decidano di sacrificare la vita di tre o quattro italiani in nome di un quadro più grande”. Mentre diceva queste parole ci ha indicato la cartina della Federazione Russa, e abbiamo capito che i rapporti diplomatici, economici e politici che legano il mio Paese ad un governo che ordina bombardamenti a tappeto su colonne di profughi in fuga fanno davvero parte di “un quadro più grande”, un quadro in cui la vita di quattro volontari vale meno di zero.

In quella occasione, per la prima volta dal mio arrivo in Russia, la paura si è fatta strada dentro di me. Fino ad allora, soprattutto prima del mio ingresso a Grozny, avevo provato molta ansia, inquietudine e angoscia di fronte ai rischi che correvo e alla sofferenza dei profughi, ma la vera paura, un vuoto nero e orribile che ti riempie il petto, mi aspettava in un tranquillo ufficio di Mosca di una agenzia delle Nazioni Unite.

Fino a quando le testimonianze dirette degli operatori di pace potranno essere ignorate dai nostri governi e calpestate in nome della “ragion di stato” e di forti interessi economici? Fino a quando la mia vita varrà meno degli accordi economici che la Russia ha stipulato con Fiat e Mediobanca? Se i volontari italiani presenti in Cecenia per denunciare un massacro dimenticato non fossero stati solo quattro, ma quaranta, quattrocento, quattromila, i nostri governanti avrebbero potuto chiudere gli occhi cosi’ facilmente e ricevere Putin al Quirinale con tutti gli onori ?

Paradossalmente, molte risposte ai conflitti del pianeta non vanno cercate molto lontano, ma possono arrivare direttamente dal nostro paese, per bocca di chi ci rappresenta in Parlamento. L’ostacolo più grande per l’affermazione di una vera cultura di pace non è la violenza lontana, ma l’indifferenza vicina. Qui ed ora è possibile intervenire per fermare e prevenire le guerre di domani, a condizione che la vita di un gruppo di volontari venga ritenuta un valore superiore al “quadro più grande” delle strategie geopolitiche e degli scambi economici internazionali. La creazione di un corpo civile di pace europeo, nonviolento e disarmato è ormai uscita dal limbo dell’utopia, per diventare una realtà molto concreta, un’opportunità eccezionale che i nostri politici hanno a portata di mano. Credo che i prossimi trent’anni avranno grosse sorprese da riservarci, e che domani il pessimismo di chi oggi si scontra con l’insensatezza della guerra potrà lasciare il posto ad una nuova speranza e ad un futuro meno guerreggiato e più pacifico. Il bello deve ancora arrivare.
c.gubitosa@peacelink.it

ISLAM

A cura di Claudio Cardelli
Al-Ghazàli, teologo e filosofo musulmano

La filosofia araba nacque quando si verificò il contatto fra l’Islamismo e la cultura greca: lo stimolo più rilevante alla ricerca filosofica fu offerto dalla conoscenza delle opere di Aristotele e della tradizione neo-platonica. C’era tuttavia un orizzonte invalicabile, entro cui potevano muoversi i filosofi musulmani: le verità contenute nel sacro Corano, che costituivano il fondamento del sapere.
Al-Ghazàli volle rivendicare le istanze religiose contro le pretese della filosofia di ispirazione aristotelica, che era stata elaborata dal medico e filosofo Avicenna (IBN-SINA). In tal senso è orientata l’opera di Al-Ghazàli Distruzione dei filosofi, a cui in seguito si contrappose polemicamente l’aristotelico Averroè (IBN-RUSHD) scrivendo La distruzione della distruzione.

La vita
Al-Ghazàli nacque a Tus nel Khorosàn (Persia orientale) nel 1058 e studiò in un collegio (madrasa) di Nishapur. Terminati gli studi e con l’appoggio del visir selgiuchide Nizam-al-mulk, ottenne nel 1091 una prestigiosa cattedra a Baghdad, dalla quale impartì un acclamato insegnamento di teologia, filosofia e diritto a folle di discepoli. Colto da una profonda crisi religiosa, nel novembre del 1095 si dimise dalla carica di professore e abbracciò la vita ascetica dei sufi.
Si recò a Damasco, dove non si trattenne a lungo, poi fece il pellegrinaggio alla Mecca (1096). Negli anni successivi sembra sia tornato a Baghdad per illustrare le idee dei sufi. Lasciata Baghdad, si dedicò di nuovo all’insegnamento a Nishapur e a Tus, dove morì nel 1111.

L’insegnamento
In un opuscolo autobiografico, Liberazione dall’errore (1108), sostiene che il tipo di insegnamento impartito negli ultimi anni era diverso da quello tenuto a Baghdad prima della conversione al Sufismo:
Prima io trasmettevo quella conoscenza che serve a conseguire il successo mondano, ma adesso io chiamo gli uomini a quella conoscenza che esclude il successo mondano e ne mette in evidenza il grado infimo nella scala dei valori reali. Io non so se raggiungerò la mia meta, o se sarò portato via dalla morte prima di aver raggiunto il mio obiettivo. Ma questo io so, per fede certa e per intuizione, che non sono io che mi muovo, ma è Dio che mi muove, non sono io a lavorare, ma è Lui che mi usa. Io Gli chiedo prima di tutto di riformare me e poi di riformare attraverso di me, di guidare me e poi di guidare attraverso me, di mostrarmi la verità di ogni cosa vera e di farmi dono di seguirla, di mostrarmi la falsità di ogni cosa falsa e di farmi dono di potermene allontanare (p.181).

Tra le molte opere del filosofo, ricordiamo anche Il rinnovamento delle scienze religiose, vasto trattato di teologia e morale, diviso in quattro parti. In esso il Sufismo veniva riassorbito e inquadrato nell’ortodossia sunnita, restandone fuori solo gli eccessi panteistici e anti-ritualistici (si ricordi il tragico destino di al-Hallag).
Per merito di Al-Ghazàli l’Islamismo ritornava alle sue fonti, alla viva esperienza religiosa dei primi tempi, arricchita dai tesori dell’ascetico-mistica, su cui avevano agito anche esperienze cristiane. Un eminente islamista spagnolo, Miguel Asin Palacios, studioso pure delle fonti musulmane della Divina Commedia, ha analizzato diffusamente i rapporti tra il filosofo musulmano e il Critianesimo: La Esperitualidad de Algazel y su sentido cristiano, Madrid, 1934-1941, 5 volumi.
Per concludere, riporto il giudizio su al-Ghazàli di uno studioso contemporaneo, W. Montgomery Watt: “Sotto il profilo storico, la grande importanza di al-Ghazàli fu di aver determinato un’accoglienza molto più vasta del Sufismo tra i musulmani. A parte il caso di sufi che avevano espresso esagerate pretese di unione con Dio, ce n’erano molti i quali asserivano che i risultati conseguiti nel misticismo li liberavano dagli obblighi rituali dei musulmani ordinari, come il dovere delle cinque preghiere quotidiane. Per questa ragione la maggioranza dei maestri di religione era contraria al Sufismo, sebbene alcuni di loro lo praticassero.
L’insegnamento di al-Ghazàli metteva l’accento sull’esecuzione meticolosa di tutti i doveri rituali e morali del musulmano come via migliore per giungere allo stato di concentrazione e di estasi mistica. A questo scopo era necessario che il compimento degli atti esteriori fosse accompagnato da atteggiamenti interiori. Egli di tutto questo dava l’esempio nella sua vita e in questa linea plasmava la vita dei suoi discepoli.
A poco a poco la stragrande maggioranza dei maestri di religione giunse ad accettare come legittime gran parte delle forme del Sufismo. Ancora ai nostri giorni ci sono musulmani che traggono da al-Ghazàli la loro ispirazione” (pp.185-186).

Per il presente articolo ho usato il volume: Autori vari, Le grandi figure dell’Islam, Cittadella Ed., Assisi, 1989, da cui ho tratto le due citazioni. Testi tradotti : Al-Ghazàli, Scritti scelti, pp.712, UTET, Torino, Rist. 1986.

CINEMA

A cura di Flavia Rizzi
La violenza sotterranea del garage Olimpo…

Nell’estate dell’anno 1978 ero appena bambino; di quel periodo posseggo solo ricordi vaghi, flash, fantasmi di immagini. Alcune in particolare. Ricordo soprattutto l’attesa che si viveva qui in Italia per l’inizio dei Mondiali di Calcio in Argentina, il gol vincente di Bettega…
Quando una sera di Marzo dell’anno 2000 sono uscito dalla sala di un cinema milanese dopo aver assistito al film Garage Olimpo, ambientato nell’Argentina del 1978, il mio pensiero è ritornato improvvisamente su questi vaghi ricordi, riemersi dalle tenebre del passato; uniti ad una semplice, quasi banale nonché sgomenta e terribile considerazione: nell’anno 1978 mentre al di sopra della superficie della città di Buenos Aires il popolo argentino impazziva per i trionfi della nazionale bianco-celeste, e gli sportivi di tutto il mondo assistevano alle scene di festa (ecco un’immagine ritrovata!: il vorticoso andirivieni di coriandoli sospinti, nel catino dello stadio, dalle magie dell’idolo di casa: Mario Kempes!) legate alla “liturgia” degli incontri di pallone, al di sotto della superficie della città di Buenos Aires, in 365 campi di concentramento, il regime militare al potere recludeva e torturava clandestinamente centinaia di migliaia di esseri umani, che avevano come unica “colpa” quella di credere nella democrazia e di opporsi (anche solo ideologicamente) a quella dittatura militare che, tra il 1976 e il 1982, avrebbe tiranneggiato la nazione argentina con la complicità di molte potenze occidentali.
Sotto, la città reale, con le sue verità nascoste, e sopra, la città-spettacolo, vetrina di un’illusoria normalità da vendere al mercato globale della comunicazione.
Marco Bechis, nel suo bellissimo film, racconta la storia proprio di uno di questi desaparecidos, Maria, e la sua tragedia, vissuta in uno di questi sotterranei, il Garage Olimpo per l’appunto, e analizza con lucidità le pieghe del rapporto tra Maria e Felix, il suo carceriere-aguzzino.
Il regista riesce a far emergere attraverso le immagini il senso pieno della dimensione del sotto come “realtà”, attraverso l’uso della macchina da presa quasi sempre a spalla e grazie ad una illuminazione essenziale e rarefatta ottenuta con la sola lampadina che si vede nell’inquadratura, e del sopra come “finzione”, raccontando la superficie di Buenos Aires per mezzo della illuminazione artificiale, dei carrelli e di tutti gli altri dispositivi tecnici dei quali si serve solitamente il cinema di fiction.
Nella sua idea di partenza il regista italo-argentino voleva documentare, come afferma egli stesso nelle sue note di regia, il suo rapporto con quell’esperienza, e quindi ridare immagini a delle vicende che non ne hanno nemmeno una, con un impegno, un rigore e un senso di insopprimibile sofferenza che sono proprie di chi, quella stessa esperienza, l’ha vissuta sulla propria pelle ed è riuscito persino a riportarla sulla pagina scritta : “Alle 22.25 del 19 Aprile 1977…sono stato sequestrato da quattro militari in borghese. Mi hanno bendato, mi hanno trascinato dentro una macchina beige e trasportato in un luogo chiamato Club Atletico… Mi hanno applicato una catena attorno alla caviglia con due lucchetti numerati 190 e 191, numeri che dovevo ricordare… Una voce più autorevole delle altre ha acceso la Picana ( un pungolo elettrico a voltaggio regolabile che emette un ronzio unico) ed ha iniziato l’interrogatorio.” (da “Trentamila ragazzi in meno” di Marco Bechis/ Il Diario della Settimana, Luglio 1996)
E in quest’ottica Bechis non può non tenere conto che ogni immagine ha una sua etica, e che occorre operare con attenzione affinchè queste sue intenzioni non vengano tradite dall’immagine che si usa, perché l’immagine ha dei codici propri che non sono quelli della scrittura.
Ma l’obiettivo più generale che il regista si propone di raggiungere è quello di affrontare temi di importanza capitale quali l’umiliazione dell’uomo, la follia, la banalità del male, la dittatura militare e, soprattutto, la rappresentazione della violenza sull’uomo; con una certezza che lo accompagna costantemente, dalla scrittura al montaggio, come afferma egli stesso sempre nelle note di regia: la certezza che il Cinema non possa rappresentare pienamente la violenza perché quest’ultima è soggettiva. Non c’è alcuna oggettività nella violenza. E’ un sentimento del tutto intimo se è vero che una donna sopravvissuta a un lungo periodo di detenzione disse un giorno a qualcuno che le chiedeva cosa le avevano fatto: “Di certe cose parlo solo con le mie piante”
Il film di Bechis centra pienamente, a mio giudizio, gli obiettivi che si era prefissato, e si inserisce a pieno titolo tra le più significative pagine di cinema italiano scritte in quest’ultimo decennio.

Garage Olimpo
98’ , Istituto Luce
Regia: Marco Bechis
Con: Antonella Costa, Carlos Echeverria, Dominique Sanda

Gianluca Casadei
Cooperativa FuoriSchermo – Cinema & Dintorni

MUSICA

A cura di Paolo Predieri
Verso la Perugia-Assisi con sogni canzonettari di mezza estate

Di cose da dire ce n’erano, tutte interessanti e significative, accadute fra la primavera e l’estate: dal concerto a Genova per De Andrè coi posti riservati a 200 persone emarginate, al concerto del 1 maggio a Tor Vergata col Papa con 500 mila persone. Si erano registrate accentuazioni pacifiste e nonviolente negli ormai tradizionali appuntamenti del Pavarotti & Friends (“Music for Peace” per Cambogia e Tibet con la presenza del Dalai Lama) e della Partita del Cuore della nazionale cantanti (in campo per la pace di fronte a una squadra mista israelo-palestinese).
Non solo: Rostropovic stava tenendo concerti col “War Requiem” (scritto nel 1961 da Benjamin Britten contro le guerre di ogni tempo) e l’estate ancora in corso vedeva fra i protagonisti canori principali l’obiettore antimilitarista spagnolo Tonino Carotone.
Fu allora che arrivò IL SOGNO! Non aveva la presunzione di affiancarsi a quelli ben più illustri fatti da gente come Martin Luther King, Helder Camara, Leonard Bernstein o …Silvio Berlusconi, ma era IL MIO e mi ci lasciai trascinare dentro…
…Era già il 24 settembre e mi trovavo a Perugia…
Ma certo, perbacco! La marcia!!! C’era da preparare, ci sono le cinque stazioni, si poteva invitare Amodei che nel ’61 assieme a Fortini inventò la censuratissima “Marcia della pace”, c’era da organizzare qualcosa di bello…
Corro al punto di ritrovo e il colpo d’occhio è notevole: tantissima gente, cartelloni colorati, pupazzi, strumenti musicali e si sente anche cantare “E se la patria chiama lasciatela chiamare… “, guardo meglio e vedo un signore con barba bianca e chitarra che somiglia stranamente a Pete Seeger e a Shantidas… possibile ?! Ma non sarà mica… Si! Fausto Amodei in persona: benissimo!!! Ed è proprio lui ad inaugurare la marcia avviando un coro generale “e se la Nato chiama ditele che ripassi… se la ragazza chiama non fatela aspettare…”.
Ma non è finita: ecco Carotone che intona “Contro el sistema la mejore defensa è la resistenza noviolenta”. Non poteva esserci un inizio migliore! Il corteo variopinto si mette in marcia, musiche e canti echeggiano da tante parti, Capitini sarà certo contento!
Ed ecco le stazioni. A Ponte S.Giovanni Amodei attacca magistralmente “Perché una guerra” e gli subentra Goran Bregovic con “Mesecina” e “Silence of Balkans”; a Ospedalicchio di nuovo Amodei sempre più a suo agio tira fuori la “Ninna nanna del capitale” poi passa il microfono agli Africa Unite che offrono una versione fenomenale di “Sotto pressione nonviolenta” e poi a Giovanni Lindo Ferretti dei Csi che canta con decisione “quando la piazza urla pace, amore, fuggo lontano, trattengo a stento il furore, ritrovo la pazienza quando i afferma la nonviolenza”!; a Bastia Amodei giganteggia sempre di più presentando una nuova sorprendente versione della sua “Ballata autocritica” dove preferisce “gli obiettori ai caricatori” esaltando “la potenza della nonviolenza” e poi cede il palco a Patti Smith che canta per Madre Teresa (“One Voice”) e continua trionfalmente con “People have the nonviolent power”.
Ci avviciniamo alla conclusione e mi chiedo cosa accadrà. A Santa Maria degli Angeli Amodei sembra aumentato ancora di statura e attacca con “La mia chitarra” (“…allora si darà un po’ importanza e canterà soltanto la gioia e la speranza, quando le cose allegre saran più delle tristi, quando non ci saranno mai più poveri cristi”) ed eccolo lì, manco a farlo apposta Branduardi con “L’infinitamente piccolo”, non poteva mancare, ma c’è anche Antonio Infantino (quello dei Tarantolati di Tricarico!) con la sua interpretazione del “Cantico delle creature” ed è a questo punto che compare Baglioni supplicando di poter cantare “Fratello Sole” e “San Damiano”: viene accontentato e si trova uno spazio anche per lui.
Di nuovo Amodei invita tutti a cantare – ma sembra ancora più alto e imponente di prima !? – con una canzone antinucleare piemontese… sento qualcosa che mi sembra familiare: “La nostra voce si sentirà, la nostra vita li fermerà, la nostra festa li avvolgerà, la nostra forza li smonterà”. Mi trovo in mezzo al coro generale fra Piero Negroni, Sergio Salzano, Mao, Paolo Bergamaschi, don Mario col Grande Coro Insieme, Massimiliano Pilati, la Banda Roncati e tanti tanti altri. L’atmosfera è eccezionale e siamo tutti alle stelle!!!
… nell’aria aleggiano le ultime note quando fanno a tempo ad unirsi a noi Bob Geldof e Christoph Baker che arrivano insieme ciascuno con una bottiglia sottobraccio e un calice in mano alzato per brindare…
Mi sveglio di soprassalto: manca poco alla marcia nonviolenta! Come andrà ? Non c’è di sicuro tempo per organizzare un granché e chissà chi verrà davvero…
Beh, qualcuno per cantare insieme “Non tutti siam convinti” lo troverò, magari Beppe Marasso come alla marcia del ’78… ma forse Pietro (Pinna) direbbe che non è la canzone più indicata… allora potrei provare a far cantare “Un bimbo sul leone” a Gaia e Irene, le mie bimbe e Antonella la mia sposa (“un bimbo che invita anche me, a cavalcare tutti gli animali, che san parlare come noi e ridendo han ragione di pensare che le bestie siamo noi”).
Ci vedremo a Perugia il 24 settembre!

LIBRI

A cura di Silvia Nejrotti
La speranza del coccodrillo

Un piccolo libro di Alberto Melandri “TIMOR EST. Un coccodrillo pieno di speranza”, Edizioni Interculturali, Roma, descrive, con documentata partecipazione, la lunga e straordinaria lotta di un popolo verso l’indipendenza. L’intervento delle forze dell’Onu nell’autunno del ’99 ha impedito, sia pure tardivamente, che si consumasse un vero e proprio genocidio, ponendo termine ad una spietata occupazione durata un quarto di secolo, nella sostanziale accettazione della comunità internazionale.
Poco si è sentito parlare di Timor Est nei lunghi anni trascorsi tra l’invasione indonesiana, del dicembre 1975, ed i massacri e le deportazioni del settembree 1999. Giornali e televisioni hanno, al più, detto della visita di Giovanni Paolo II nell’89, riferito del massacro di centinaia di persone, che partecipavano alle esequie di un timorese ucciso da militari indonesiani nel 1991, annunciato, con sorpresa, il conferimento del premio Nobel per la pace ai timoresei Monsignor Belo e Ramos Horta. Tre squarci nel buio profondo in cui si è svolta una vicenda terribile. Un paese in via di decolonizzazione, dopo centinaia di anni di dipendenza dal Portogallo, ha subito un’occupazione feroce che ha provocato la morte di un terzo della popolazione e fatto sperimentare i campi di concentramento alla metà. Con tenacia e fantasia la popolazione di Timor Est ha lottato, per lo più, seppur non esclusivamente, con metodi non violenti e creativi, rompendo il muro del silenzio, ricercando e trovando solidarietà in varie parti del mondo. Alberto Melandri è stato, con altri pochi, nel nostro Paese, un costruttore di una rete di informazione e solidarietà che, con scarsissimi mezzi ma come i timoresi con tenacia e fantasia, ha portato l’attenzione su un pezzo di isola distante 10 mila chilometri da noi e sui suoi abitanti.
Melandri è un insegnante (un bravo insegnante) che parla a persone di vicende di altre persone e ti fa capire che la cosa ti riguarda. Timor Est ha cessato per me, come per tanti altri, di essere un’espressione geografica dopo che Alberto me ne aveva parlato. Il suo libro fornisce le coordinate storiche, culturali, economiche, politiche, sociali per comprendere quanto è avvenuto e sta avvenendo. Al centro sono però le concrete esistenze di donne ed uomini, di tanti bambini, con le loro sofferenze, speranze, impegni. Le loro storie si intrecciano ai grandi eventi, ai problemi generali conferendo al testo fascino e concretezza. Ne riporto una, intitolata Trasmigranti. La politica del governo indonesiano è stata quella, assieme all’oppressione della popolazione timorese spesso indotta ad andarsene, di portare a Timor Est dalle altre isole coloni poveri, con la promessa di terra e lavoro. Melandri lo dice anche così:
Quando siamo arrivati da Singosari – Gresik, Giava orientale,nel 1992, non ero contento. Avevo lasciato i nonni, gli amici; mio padre diceva: “Dadang, non essere triste; andremo nel paese del sole che nasce, avremo dei bei bufali grassi, coltiveremo caffè, staremo bene, potrai andare a scuola”.
Ma non è stato così. E’ stato brutto, camminare per le strade con addosso l’odore dell’invasore che era anche il mio odore, i loro sguardi mi vedevano complice di violenze di cui non sapevo nulla; solo gli occhi di Imaculada mi hanno guardato prima con amicizia, poi con affetto ed ora che devo tornare a Giava non so come farò a dimenticarli.

Daniele Lugli

La presentazione ufficiale del libro di Alberto Melandri, avverrà alla Biblioteca Ariostea di Ferrara il 29 settembre, alle ore 17, a cura di Daniele Lugli e dell’Autore.

I cristiani e l’obiezione di coscienza al servizio militare
Questo libro raccoglie le relazioni di esperti (biblisti, storici della chiesa e teologi contemporanei) a una tre giorni di studio promossa da Dehoniani, Pax Christi e Caritas. La parte storica è corredata di brevi testi originali sui primi tre secoli; è un testo che si rivolge a studiosi e persone interessate ad approfondire la conoscenza storica sull’obiezione di coscienza.
INFO: Gavci, Bologna. T + f: 051.6344671. E-mail: gavci@iperbole.bologna.it

Dove va il volontariato?
Il volontariato è oggetto di una crescente, non sempre disinteressata, attenzione da parte del mondo economico e politico; contemporaneamente sembra sempre più appiattirsi in una dimensione esclusivamente gestionale, incapace di assumere un ruolo politico. L’identificazione del volontariato con il settore non-profit ha accresciuto la confusione facendo scolorire un connotato fondamentale dell’azione volontaria: la gratuità. Il quaderno raccoglie gli atti di un convegno e si propone quale occasione di riflessione e di approfondimento.
INFO: Gruppo di solidarietà, Via S. d’Acquisto 7, 60030 Moie di Maiolati (AN).
T + f: 0731.703327. E-mail: grusol@tin.it , www.comune.jesi.ancona.it/grusol.
CAMPAGNE

A cura della Redazione

“Rompere l’embargo all’Irak”
La Camera dei Deputati ha approvato, malgrado il parere negativo del Governo, una risoluzione proposta dal Presidente della Commissione Esteri, On. Achille Occhetto e sottoscritta da deputati di tutte le parti politiche, per la revoca immediata delle sanzioni all’Irak e atti unilaterali di rottura dell’embargo (p.e. lo sblocco immediato dei beni irakeni congelati nelle banche italiane e la riapertura dell’ambasciata). Tale risoluzione segue di sole due settimane un’analoga mozione, seppur con toni meno decisi, approvata dal Senato. Queste prese di posizione sono il frutto di una grande mobilitazione avviata da anni a vari livelli nella società italiana: appelli e dichiarazioni di esponenti della società civile, del mondo cattolico, di ambienti economici, ed atti istituzionali (p.e. l’appello dei Sindaci delle grandi città nel ‘97). Da questo variegato fronte di iniziative era scaturita la campagna “Rompere l’embargo”, con un appello “Per la dissociazione unilaterale dell’embargo all’Irak”, sulla cui base sono state raccolte ben 27.501 firme e le adesioni di centinaia di associazioni locali e nazionali. Nel caso in cui il Governo non dovesse applicare quanto indicato nella risoluzione approvata dal Parlamento, l’associazione Un Ponte per.., promotrice della Campagna, procederà ad atti di rottura unilaterale dell’embargo, attraverso la riapertura di rapporti commerciali con l’Irak. Il prossimo appuntamento è fissato per il 23 settembre, per una manifestazione nazionale a Roma, data in cui il Governo dovrebbe riferire alla Camera sui passi effettivamente adottati.
INFO: Un ponte per … – Roma. E-mail:

Prigionieri in Kosovo
Pax Christi informa che, contrariamente a quanto avviene solitamente al termine di una guerra, dopo il conflitto in Kosovo non è stato effettuato nessun rilascio di prigionieri. Si ritiene che, nelle carceri serbe, ve ne siano non meno di 2.000 (principalmente uomini albanesi che hanno partecipato al conflitto o che cercavano di varcare il confine come profughi) e sembra che siano sottoposti a maltrattamenti e violenze nelle carceri, nelle quali sono detenuti al termine di un processo sommario (condanne fino a 20 anni). A ciò si deve aggiungere che le famiglie non sono informate sulla sorte dei loro congiunti, non ne conoscono il luogo di detenzione e, spesso non sono in grado di sostenere le spese legali. Per istituire alcune borse di studio a favore dei figli dei detenuti e inviare pacchi viveri nelle pigioni serbe Pax Christi ha attivato una Campagna di solidarietà, raccogliendo fondi e firme che verranno inoltrate al Ministro degli Esteri italiano ed al Parlamento Europeo.
INFO: Pax Christi, Via Petronelli 6, 70052 Bisceglie (BA). T: 080.3953507, f: 080.3953450.
E-mail: paxchristi@tiscalinet.it , www.peacelink.it/users/paxchristi/

Vittime di Guerra
Emergency segnala la situazione dell’Africa occidentale e, in particolar modo, della Sierra Leone: a Freetown e dintorni si contano almeno 3.000 persone che hanno subito amputazioni di arti a colpi di machete ma non si hanno dati sul resto del paese; si tratta di giovani o giovanissimi, persino di bambini al di sotto dei due anni, il cui futuro dipenderà dalla disponibilità di cure adeguate e protesi.
Dopo il Kurdistan, la Cambogia e l’Afganistan, Emergency si pone l’obiettivo di aprire una nuova struttura sanitaria a Masiaka (nella diocesi di Makeni a 70 Km dalla capitale), crocevia delle più importanti arterie del paese e per questo chiede il sostegno economico a questo progetto, non disponendo attualmente dei fondi sufficienti.
INFO: Emergency, Via Bagutta 12, 20121 Milano. T: 02.76001104, f: 02.76003719.
E-mail: emergency@emergency.it  www.emergency.it

Cristiani ed eserciti
In occasione del Giubileo dei Militari, il GAVCI di Bologna segnala come contraddittoria, dal punto di vista della fede cristiana e della semplice civiltà umana, il sostegno dato dai cristiani, sotto ogni forma, al mantenimento dell’apparato militare. Nel sostenere la propria posizione il GAVCI cita svariate personalità e testi del mondo ecclesiastico (Padre Giorgio Zebelka, cappellano militare alla base da cui partirono, nel 45 gli aerei dotati delle bombe nucleari sganciate su Hiroschima e Nagasaki; Don Calabria; il Concilio Vaticano II; i Vescovi di Pax Christi USA) e ricorda come siano solo i cappellani militari ad ostinarsi a definire umanitari i nuovi compiti delle FFAA. L’appello termina, auspicando che il contenuto del messaggio del Papa, del 1° gennaio 2000, venga effettivamente letto come occasione per avviare un distacco generale della Chiesa dal sistema militare e di guerra, a favore della costruzione della Difesa Popolare Nonviolenta.
INFO: GAVCI, Via della Selva Pescarola 26, 40131 Bologna. T + f: 051.6344671
E-mail: gavci@iperbole.bologna.it  www.peacelink.it/users/gavci.

Mine
Con l’adesione della Mauritania, è salito a 100 il numero di Stati che hanno ratificato il Trattato Internazionale di Ottawa (entrato in vigore il 1 Marzo 99), che mette al bando le mine antipersona, ne proibisce l’uso, lo stoccaggio, la produzione ed il trasferimento e ne decreta, tra l’altro la completa distruzione. Purtroppo, però, all’appello mancano ancora 61 stati, tra cui USA, Russia, Cina, India, Pakistan, Egitto, Turchia, Finlandia. La pressione su questi governi non si deve allentare anche perché essi rappresentano alcuni degli stati più popolosi e maggiormente coinvolti nel commercio internazionale di armi.
INFO: Marcello Storgato, Missione Oggi, Brescia. E-mail: mineaction@saveriani.bs.i

Embarghi
Sono 30.211 le firme consegnate il 21 Luglio dalla Campagna “Rompere l’Embargo” al Presidente della Camera, On. Luciano Violante, per chiedere che l’Italia si dissoci unilateralmente dall’embargo all’Iraq. In occasione della consegna delle firme, una delegazione composta dai rappresentanti di alcune fra le centinaia di associazioni aderenti alla Campagna, ha incontrato il Presidente Violante, ricordandogli la tragedia del popolo irakeno e l’importanza che un paese come l’Italia compia un passo coraggioso di dissociazione dal genocidio che ha ucciso, in dieci anni, oltre un milione di civili innocenti, in maggioranza bambini sotto i 5 anni. Una richiesta, quella della dissociazione dall’embargo, condivisa dalla maggioranza della società civile italiana. L’On. Violante si è dimostrato sensibile alle ragioni della petizione e ne ha assicurato l’immediata trasmissione alla Commissione Affari Esteri perché venga messa in discussione al più presto, aggiungendo che intende recarsi in Iraq in autunno. La Campagna ha intanto annunciato, come prossima iniziativa, la convocazione di una Convenzione nazionale a Roma, per la metà di ottobre, per radunare tutti i firmatari e le associazioni che hanno sottoscritto la petizione, in occasione dello scadere dei tre mesi previsti nell’ultima risoluzione approvata dalla camera dei Deputati, che impegna il Governo ad operare in modo concreto ed esplicito nelle sedi internazionali per arrivare alla revoca delle sanzioni all’Iraq.
INFO: Campagna “Rompere l’embargo”, Roma. E-mail: rompere-lembargo@libero.it

Caschi Bianchi
Il 12 Luglio scorso una delegazione dell’Associazione Papa Giovanni XXIII° e del Gavci hanno incontrato il Dott. Bertolaso ed il Dott. Bastianini, rappresentanti della Direzione dell’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile (UNSC); nel corso dell’incontro si è parlato della situazione del Servizio Civile in Italia, dell’emanazione dei decreti attuativi e dei Caschi Bianchi. In sintesi si è stabilito di: dedicare una particolare attenzione ai progetti di OdC in missioni internazionali; concentrare le partenze in tre scaglioni annuali (Maggio, settembre e Dicembre), con l’impegno a rispettare le richieste nominative; convocare, da Settembre, un Tavolo sul tema dei Caschi Bianchi. Si rende importante, a questo punto, elaborare progetti di servizio standard, idee e proposte per i regolamenti.
INFO: Samuele Filippini, Associazione Papa Giovanni XXIII°, Rimini.
E-mail: samuele.apg23@libero.it

Anch’io a Bukavu
Il 10 Dicembre 2.000 sarà il 52° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. In vista di questa ricorrenza l’associazione “Société Civile” di Bukavo (Repubblica democratica del Congo) ha lanciato un appello a tutte le persone ed organizzazioni interessate alla pace, per la realizzazione di una Azione Internazionale Nonviolenta di Pace per l’Africa e la Regione dei Grandi Laghi. I promotori, nel denunciare il clima di guerra, insicurezza ed oppressione diffusa (1.700.000 vittime in 22 mesi, in maggioranza civili), informano che si stanno attivando per realizzare una serie di manifestazioni a Bukavu, a favore della pace e dei diritti umani, con incontri di preghiera ecumenici, conferenze e manifestazioni culturali, auspicando l’appoggio e la partecipazione delle organizzazioni internazionali non governative o dell’ONU. Rappresentanti di Beati i Costruttori di pace, Chiama l’Africa e dell’Associazione Papa Giovanni XXIII° si sono già recati a Bukavo per meglio conoscere le condizioni in cui la popolazione civile sta attuando una straordinaria, vitale e capillare resistenza nonviolenta alla guerra. In tutti gli incontri avuti dalla piccola delegazione italiana, è stata ribadita la responsabilità occidentale nella tragedia dell’Africa; come accogliere questa responsabilità? come sostenere una popolazione che grida aiuto ma non rinuncia alla lotta, resistendo in modo nonviolento? Il 10 Dicembre deve diventare l’occasione per una Azione Internazionale Nonviolenta di Pace ed è necessario portare a Bukavo il maggior numero di cittadini occidentali possibile.
INFO: Beati i costruttori di pace, Via A. da Tempo 2, 35131 Padova. T + f: 049.8070699.
E-mail: beati@libero.it, www.unimondo.org/bukavo.

SOS Combattimenti cani
Le sempre più frequenti cronache giudiziarie sui combattimenti clandestini tra cani, stanno facendo emergere l’immagine del cane killer, macchina da guerra al soldo della malavita organizzata. Non emergono, invece, i maltrattamenti e le sofferenze di cui sono vittime gli animali coinvolti in violentissimi scontri, organizzati per arricchire persone senza scrupoli. Invece che fornire strumenti legislativi adeguati per reprimere il fenomeno, così come richiesto con forza, sin dal 97, dalla LAV, il Governo italiano ha proposto un apposito Disegno di Legge che prevede la progressiva estinzione dei Pit Bull, recependo così una visione del problema che tende a criminalizzare gli animali. Allo scopo di ribadire il concetto che gli animali sono le vittime e non i carnefici, la LAV sta promuovendo una petizione per chiedere una legge giusta ed un futuro sereno per migliaia di cani (progetti di assistenza agli animali basati su donazioni).
INFO: LAV, Via Sommacampagna 29, 00185 Roma. T: 06.4461325, f: 06.4461326;
SOS Combattimenti: 06.4461206. E-mail: lav@mclink.it
LETTERE

La polizia internazionale: un indispensabile interludio?

Cara Gloria Gazzeri,
rispondo alla tua lettera (vedi AN n. 7/8 pag. 23), anzitutto ringraziandoti di aver posto il problema.
Venendo al problema della polizia (interna o internazionale), ti dirò il mio pensiero attuale, ben sapendo che nessun pensiero è definitivo, ma sempre in cammino. Il mio riferimento su questo punto non è Tolstoj ma Gandhi, in Teoria e pratica della nonviolenza. Gandhi, pensando al futuro stato indiano nonviolento, ammette la polizia, ed anche armata (mentre esclude l’esercito), perché ci saranno ancora ladri e banditi. Dice che questo è un difetto del suo pensiero, ma non ha il coraggio di affermare per ora la possibilità di farne a meno. Però, in quello stato, i poliziotti dovranno essere educati alla nonviolenza.
Ho insistito più volte sulla differenza non di parole, ma di sostanza (fini, etica, metodi) tra polizia ed esercito, polizia e guerra, forza e violenza. E’ forza (certo, di altro tipo) anche quella che usa un genitore nel correggere, anche con qualche castigo non schiacciante, non distruttivo, i propri figli; queste correzioni non sono violenza, ma possono avere un senso di amore.
Considero le tue obiezioni.
1) La polizia internazionale come fermerà gli eserciti se non con un massacro?
Provo a rispondere: questo sarebbe un super-esercito, non una polizia. E’ quello che pensano Usa e Nato. Non è quel che dice la Carta dell’Onu. Una vera polizia sarebbe rappresentativa di tutti i popoli in una Onu democratizzata; agirebbe preventivamente, con azioni ben prima civili che armate, non nell’interesse di una coalizione di stati, ma della comunità mondiale dei popoli. Anche una polizia democratica interna sembrava impossibile quando c’erano solo i bravi dell’Innominato.
2) come sarebbero motivati i poliziotti internazionali?
Provo a rispondere: naturalmente, tutto dipende dallo sviluppo di una cultura internazionalista, panumana, per la quale lavoriamo da piccole formiche attorno ad una grande impresa, che però è in corso, ed è un vero ideale, valido per impegnare in varie funzioni, tra cui anche quella del poliziotto. L’idea dei mercenari naturalmente è la peggiore, perché il mercenario combatte per chiunque, tutto il contrario di un poliziotto di cultura planetaria. Gli attuali Caschi Blu non mi risulta proprio che vengano preparati e soprattutto educati in questo ideale, che è la cultura cosmopolitica della Carta delle Nazioni Unite, il maggior frutto di civiltà giuridico-politica del ‘900.
3) Oppure verranno mandati solo aerei che bombardano dall’alto, senza rischio per i piloti?
Provo a rispondere: sappiamo fin troppo bene che questa è guerra, non polizia, ed anche la più vigliacca, perché è plotone di esecuzione, contro i popoli e non i tiranni, e neppure scontro ad armi pari. Il peggio del peggio. Però è anche interessante, perché chi pratica così la “ingerenza umanitaria” sa che i popoli non accettano di far morire i loro uomini in azioni non legittime e non disinteressate. Ed ecco allora la nuova retorica degli “eserciti di pace”, per vestire di nobiltà una cosa ignobile.
4) Se offendono la pace Usa, Russia, Cina, quale polizia li fermerà?
Provo a rispondere: una organizzazione delle Nazioni Unite più democratica, in cui i popoli si riconoscano, ridimensionerebbe moralmente e politicamente l’arroganza delle maggiori potenze. Che però potrebbero colpire a piacere. Questo pericolo dovrà essere prevenuto e ridotto dalla politica internazionale e dalla capacità di resistenza propria dei popoli (tutto il nostro discorso sulla DPN). Quali alternative ci sono allo sceriffo Usa-Nato se non la polizia internazionale secondo la Carta Onu?
Sono d’accordissimo sulla seconda parte della tua lettera: togliere la cause. All’inizio della lettera dici: “vincere la violenza per mezzo della verità e dell’amore”. E’ quello che cerchiamo dentro di noi, nell’azione personale e nel nostro agire insieme, ma la nonviolenza deve anche tradursi in proposte politiche accettabili da molti. L’ottica del Regno è nei nostri cuori, ma i nostri passi, sul terreno accidentato della storia, nella compagnia di tutti gli uomini e donne di tutti i popoli, devono procedere per piccoli miglioramenti. La meta di abolire la guerra e sostituirla (per ora) con una polizia internazionale pienamente legale, come il più basso dei tanti mezzi proposti, mi sembra una proposta necessaria. Temo che il vedere inaccettabili i passi transitori ci chiuderebbe in una purezza autosoddisfatta, ma non sarebbe quel servizio che dobbiamo al mondo. Per ora penso così.

Enrico Peyretti
Torino
Una Proposta di Legge per un Istituto di Ricerca per la Pace

Promossa e sostenuta dal MIR di Padova, da Azione nonviolenta,
Beati i Costruttori di Pace, rete telematica PeaceLink

Nel 1992 l’allora Segretario generale delle Nazioni Unite Boutros Ghali, nell’Agenda per la Pace, osservava che, dopo il crollo del muro di Berlino, siamo entrati in un’epoca caratterizzata da tendenze contraddittorie. Da un lato si assiste a livello planetario ad un continuo progresso civile in molteplici campi quali la democratizzazione, la collaborazione sovranazionale, il rispetto dei diritti umani, e dall’altro si susseguono brutali conflitti etnici, religiosi, sociali, culturali e linguistici.
“Il più auspicabile ed efficace impegno della diplomazia”, concludeva, “è quello volto ad attenuare le tensioni prima che sfocino in un conflitto o, se scoppia il conflitto, l’agire rapidamente per contenerlo e per risolverne le cause ” (B. Ghali, Agenda per la Pace, 1992).
Il ruolo fondamentale della prevenzione è stato ribadito anche dall’attuale Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan il quale rileva che “la più dispendiosa delle politiche di prevenzione è comunque più economica, in termini di vite e risorse, del meno costoso degli interventi” (K.Annan, Elogio della Prevenzione, in “The Economist”, traduz. in “Internazionale” N. 316-7 del 13.1.2000).

La conoscenza dei fatti

Una politica di prevenzione richiede “una conoscenza tempestiva e accurata dei fatti”. E dunque è essenziale la costituzione di “un sistema di preallarme fondato sulla raccolta di informazioni e su richieste informali o formali” (B.Ghali, Agenda per la Pace).
Anche quando le crisi sfociano in conflitti aperti esistono mezzi e strumenti di carattere giuridico, politico, economico e di intervento civile e militare che possono condurre ad una soluzione pacifica del conflitto. L’individuazione e il dispiegamento di tali risorse richiede tempo, proprio ciò che manca in tali situazioni. Più gli interventi sono tardivi e meno sono efficaci. Di qui l’importanza di analisi e proposte di intervento che permettano di bloccare l’escalation del conflitto e di risolverlo.
Il cessate il fuoco non produce automaticamente situazioni di pace. Sono necessarie molteplici misure volte a ristabilire la fiducia, il dialogo e a permettere la ricostruzione del tessuto economico e sociale per evitare la riproposizione delle dispute (prevenzione post-conflitto).
Prescindendo dalla forma più eclatante di violenza, ossia il conflitto armato, esistono forme di violenza strutturale che violano i diritti fondamentali delle persone e la stabilità delle comunità umane. Risulta pertanto necessario studiare le precondizioni per la pace, i processi e le politiche che favoriscono l’instaurazione di modelli politici, sociali ed economici più giusti e pacifici. Per questo diversi governi nazionali e locali hanno creato Istituti di ricerca per la pace, finanziati pubblicamente, per indagare in modo scientifico e con continuità.

Le finalità

Dan Smith, direttore dell’Istituto di Ricerca per la Pace di Oslo (PRIO) fondato nel 1959, afferma: “Credo che ora si abbia una migliore comprensione di come i conflitti evolvono, di come le loro diverse cause interagiscono l’una con l’altra, dei rapporti tra ingiustizia e conflitto violento (…) delle dinamiche della corsa agli armamenti e del funzionamento del complesso industriale militare. Ritengo che le ricerche per la pace abbiano reso anche notevoli contributi alla comprensione degli accordi che seguono ad un conflitto” (AA.VV., Gli Istituti e i Centri internazionali di Ricerca per la Pace, M.I.R.- Beati I Costruttori di Pace, Padova 1999).
E’ tempo che anche l’Italia costituisca un Istituto Internazionale di Ricerca per la Pace, che potrà fornire importanti contributi per la politica estera del nostro paese, la definizione di una Politica Estera di Sicurezza Comune (PESC) nell’ambito dell’Unione Europea e in generale per il continente europeo, e l’individuazione di risposte ai pressanti problemi della comunità internazionale. In questo modo inoltre, l’Italia ottempera agli impegni di promozione della pace assunti in diverse sedi internazionali e in particolare in sede ONU.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione 52/15 del 20.11.97 ha proclamato l’anno 2000 come Anno Internazionale per la Cultura di Pace e con la risoluzione 53/25 del 10.11.98 il periodo 2001–2010 come la Decade Internazionale per una Cultura di Pace e Nonviolenza per I Bambini del Mondo. Più recentemente con la risoluzione 53/243 del 13.09.99 ha adottato una Dichiarazione e un Programma di Azione sulla Cultura di Pace. Anche il dettato costituzionale, che afferma il ripudio della guerra come soluzione dei conflitti, attraverso l’attività di tale Istituto, troverà una sua concreta attuazione.
Pur godendo di stabili finanziamenti pubblici, l’Istituto avrà piena autonomia intellettuale e operativa, premessa indispensabile per una seria attività scientifica. Finalità prevalenti, ma non esaustive, sono: una ricerca di base sulle problematiche della guerra e della pace, e una ricerca finalizzata alla individuazione precoce e alla risoluzione nonviolenta dei conflitti.
L’Istituto inoltre si caratterizza per:
– un permanente collegamento internazionale, che si traduce in una composizione multinazionale del suo Comitato scientifico, degli altri organi operativi e dello staff dei ricercatori, e in un’ampia e fattiva collaborazione con analoghi istituti esteri;
– un impegno vòlto alla pubblicizzazione dell’attività di ricerca e di studio, alla divulgazione della cultura di pace e di risoluzione nonviolenta dei conflitti, alla formazione di giovani ricercatori e del personale civile e militare impegnato in missioni di pace promosse dalle Nazioni Unite alle quali il nostro paese con sempre maggiore frequenza è chiamato a partecipare;
– una convinta apertura alla società civile per sviluppare con le sue diverse componenti progetti comuni di ricerca ed educativi.

P.d.L. Costituzione dell’Istituto Internazionale di Ricerca per la Pace

TITOLO I (ISTITUZIONE)

Art. 1

La Repubblica italiana, in ottemperanza ai principi di pace sanciti nella sua Carta Costituzionale, in particolare all’ art. 11, nello Statuto delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, istituisce un Istituto Internazionale di Ricerca per la Pace.

TITOLO II (FINALITÀ)

Art. 2

L’Istituto persegue le seguenti finalità:
– indaga i fondamenti politici, culturali, economici, giuridici, spirituali della pace;
– studia i fattori e le cause strutturali di ostacolo alla pace nel mondo e in particolari regioni e paesi;
– individua precocemente e analizza le aree e le situazioni di potenziale crisi e conflitto;
– propone soluzioni e interventi per la costruzione della pace privilegiando le possibilità offerte dall’azione non armata e nonviolenta nella risoluzione dei conflitti.

TITOLO III (INTERVENTI)

Art. 3

L’Istituto:
a) opera attraverso progetti di ricerca finalizzati, definiti dal Consiglio direttivo dell’Istituto sulla base degli indirizzi approvati dal Comitato scientifico.
b) collabora con analoghi istituti in altri paesi e con le associazioni internazionali dei ricercatori per la pace; favorisce il coordinamento della ricerca per la pace in Italia, in collaborazione con istituzioni accademiche e culturali e con associazioni operanti nel settore;
c) promuove corsi e stage rivolti e studenti e ricercatori italiani e stranieri. Concede borse di studio privilegiando le persone provenienti da paesi in gravi situazioni di conflitto.
d) attraverso un’apposita sezione promuove iniziative destinate alla formazione del personale militare e civile, anche di tipo volontario, impegnato o di cui si prevede l’impiego in operazioni di pace in ambito internazionale;
e) diffonde i risultati delle proprie ricerche attraverso pubblicazioni, riviste, seminari, incontri ed ogni altra forma giudicata opportuna;
f) informa con rapporti periodici il Parlamento sui risultati delle sue ricerche;
g) promuove la conoscenza nelle scuole di studi, ricerche e altre iniziative volte alla diffusione di una cultura di pace.

TITOLO IV (STRUTTURE E RISORSE)

Art. 4

L’Istituto è indipendente. Gli indirizzi della attività di ricerca, definiti su base pluriennale, sono stabiliti dal Comitato scientifico.
Del Comitato scientifico fanno parte dieci esperti sui temi della pace, italiani e stranieri, compreso il Direttore dell’Istituto che è membro d’ufficio.
I componenti del Comitato scientifico, oltre al Direttore, sono così nominati:
2 dal Ministero della Ricerca scientifica;
2 dalla Conferenza permanente dei Rettori delle Università italiane;
5 dal Ministero della Ricerca scientifica su proposta delle associazioni e degli enti aventi più lunga storia e caratterizzazione accentuata di impegno riconosciuto a favore della pace e della nonviolenza.
Il Comitato scientifico dura in carica cinque anni. I suoi membri possono essere nominati per un massimo di due mandati. I componenti rimangono in carica fino alla nomina del nuovo Comitato.
Con l’eccezione del Direttore dell’Istituto, i componenti del Comitato scientifico non possono far parte del Consiglio direttivo.

Art. 5

I progetti di ricerca sono definiti dal Consiglio direttivo dell’Istituto sulla base degli indirizzi formulati dal Comitato scientifico. Oltre al direttore, che lo presiede, fanno parte del Consiglio direttivo 5 membri. Almeno due di essi sono stranieri.
I componenti del Consiglio direttivo, oltre al Direttore, sono così nominati:
4 dal Ministero della Ricerca scientifica;
1 dallo staff dei ricercatori.
Il Consiglio direttivo dura in carica sei anni. I suoi membri possono essere nominato per un massimo di due mandati. I componenti rimangono in carica fino alla nomina del nuovo Consiglio.
Art. 6
Il Direttore è nominato dal Ministero della Ricerca scientifica ed è responsabile dell’attività dell’Istituto.
In fase di prima applicazione e fino alla nomina dei componenti del Consiglio direttivo le funzioni dello stesso sono assunte ad interim dal Direttore dell’Istituto.
Art. 7
Il finanziamento delle attività di ricerca è assicurato da un apposito fondo del Ministero della ricerca scientifica con piani di spesa quinquennali. L’Istituto si avvale anche di risorse erogate da enti pubblici regionali e locali oltre che da associazioni, fondazioni e da altri soggetti privati anche stranieri.
Art 8
L’istituto ha sede……. Le Regioni possono costituire delle sezioni dell’Istituto che, collegate a livello nazionale, perseguono nel proprio ambito territoriale le finalità della presente Legge.

TITOLO V (DISPOSIZIONI ATTUATIVE)

Art. 9
Il Governo entro 3 mesi dall’approvazione delle presente legge emana una apposito regolamento per dare applicazione al dettato della stessa.

E’ possibile sottoscrivere un appello di sostegno alla proposta di Legge, scrivendo alla sede MIR di Padova, via Cornaro 1/a, 35128 PD (anche a mezzo fax 049 8075964), oppure con email mirsezpd@libero.it, o anche consultando il sito

Di Fabio