Secondo il rapporto del segretario generale dell’Onu su infanzia e conflitti armati, nel 2019 sono stati arruolati circa 7.750 bambini, alcuni persino di 6 anni. La composizione è soprattutto maschile ma comprende una minoranza significativa e crescente di bambine e ragazze usate come strumenti per la soddisfazione sessuale dei soldati, quando non imbracciano le armi a loro volta.
Il dato è in calo rispetto al 2018 ma ancora preoccupante, tanto più che si tratta di una stima e potrebbe essere al ribasso. Quel contingente va ad aggiungersi ai coetanei già presenti nelle forze o nei gruppi armati. “Si stima che siano 250mila i bambini coinvolti in conflitti in tutto il mondo”, riporta Repubblica.
Nel 2017 le Nazioni Unite hanno identificato 13 paesi dove è ancora presente un massiccio arruolamento di bambini soldato: Afghanistan, Colombia, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Iraq, Mali, Myanmar, Nigeria, Filippine, Somalia, Sud Sudan, Siria e Yemen. Sono usati come combattenti, messaggeri, spie, facchini, cuochi, trastulli. La droga è un mezzo comune per controllarli, e per spingerli a perdere il controllo fino a fare l’inimmaginabile.
Alcuni vengono rapiti mentre sono a casa, a scuola, in campagna, e condotti con la forza in un campo di addestramento. È l’esperienza di Sara, riportata da Huffington Post. Aveva 13 anni. “Una mattina stavo andando al mercato con mio nipote, per vendere delle arance. Siamo stati fermati da tre uomini, senza uniformi, che ci hanno detto di seguirli nella boscaglia. Non sapevo chi fossero. Ci hanno legato le mani dietro la schiena e messo in fila. C’erano già sei bambini: abbiamo camminato così, legati, per tutto il giorno. È stato l’inizio di un lungo anno da incubo. La parte peggiore è stata quando hanno mandato noi, i bambini, davanti e gli adulti dietro. Saremmo stati uccisi per primi”. È riuscita a fuggire e ora, a 15 anni, è in famiglia, e inserita in un programma Unicef.
Non per tutti è così. Una rapida carrellata sull’entrata in guerra è presente nel sito Unicef. Ne dà conto anche World Vision con uno studio sul reclutamento, che non è sempre imposto. “I fattori sono vari, possono includere uno spostamento forzato, una separazione o la demolizione della famiglia, la mancata occupazione, la distruzione o la chiusura o la diminuzione della funzionalità delle scuole, problemi di sicurezza generale o di protezione fisica, assenza di opportunità lavorative, povertà. Uno dei fattori scatenanti potrebbe essere che i gruppi armati danno al bambino un senso di appartenenza e uno scopo che spesso, come risultato del conflitto stesso, vengono a mancare a casa, a scuola, nella comunità e nelle stesse istituzioni”. E i genitori? Qualche volta proteggono, ma in altri casi spingono all’arruolamento.
L’esperienza della guerra è inimmaginabile. “I bambini sono costretti a eseguire e assistere ad atrocità. Vengono uccisi, feriti, mutilati, abusati mentalmente e sessualmente. Tutto questo è una minaccia alla vita ed estremamente dannoso per i bambini e il loro sviluppo. Deve finire adesso”, scrive ancora Unicef. E le conseguenze, per chi sopravvive, sono terribili e si protraggono per anni. Le conoscono già i piccoli che crescono in zone di guerra senza esserne coinvolti in prima persona (i report di Save the Children parlano di un disagio mentale che trova scarsissime risposte terapeutiche nei programmi di intervento) ma sono ancora più profonde per chi combatte. “Le ferite fisiche, se non curate, possono diventare disabilità per la vita, e quelle mentali possono causare conseguenze psicologiche di lungo periodo come disturbi post traumatici da stress”, prosegue Unicef.
Conosciamo storie di ragazzi e ragazze che sono riusciti a scappare ma non è semplice, per i rischi che si corrono e per la difficoltà di riprendere una vita “normale”. Lo spiega in modo molto sincero Mike, arruolato a 11 anni. Un buon soldato. “Violentare, saccheggiare, uccidere: questo ci veniva insegnato. Eravamo costretti a combattere, non avevamo alternativa e ci convincevano che il nostro posto fosse in guerra. Successivamente ho aderito ad altri due gruppi ribelli, che mi hanno nominato comandante di zona, per la mia esperienza e il mio coraggio. In questi gruppi armati ho commesso ogni forma di violenza e crimine che potete immaginare”. Cambiare vita non è stato semplice. “La prima volta che ho lasciato i ribelli sono stato aiutato, ma dopo poco sono tornato a combattere perché la mia comunità non mi ha accolto. Sentivo che il mio posto era in guerra, a combattere come bambino soldato. La seconda volta ho lasciato i ribelli per tornare con la mia famiglia, ma siamo stati minacciati a causa dei miei crimini, così sono tornato nuovamente a combattere. Mio padre è fuggito in Uganda e ora vive lì in un campo profughi. La terza volta mia madre mi ha supplicato di non tornare in guerra e sono riuscito a rimanere con lei. Oggi frequento un Centro di Riabilitazione per gli ex bambini soldato di World Vision, grazie al quale sto superando le atrocità che ho vissuto. Ora sento che la mia vita è qui e mi appartiene”.
Come World Vision, diverse organizzazioni hanno programmi per sottrarre i minorenni dalla guerra guerreggiata e – per citare ancora qualche dato – nel 2019 sono stati rilasciati dalle forze armate o dai gruppi armati 13.200 minorenni. L’Unicef tenta di ricongiungerli alla famiglia – non sempre questo è possibile, può comportare rischi gravissimi per i familiari o essere dagli stessi sgradito – e di sostenerli in un percorso di studio e lavoro per reinserirli nella società. Per ognuno viene stabilito un programma di accompagnamento di tre anni. Intersos, impegnato nello stesso settore, descrive una prima fase di assistenza soprattutto psicologica e un secondo momento orientato al reinserimento sociale, scolastico e lavorativo (a seconda dell’età), con il coinvolgimento dei familiari ogni volta che è possibile.
Grazie a questo lavoro, sono ormai diverse le testimonianze di giovani che hanno vissuto una parte della loro infanzia o adolescenza in combattimento. Una di esse è stata riportata dettagliatamente, nel 2009, davanti alla Corte penale internazionale dell’Aia. Con la garanzia dell’anonimato un giovane, dopo dieci anni, ha testimoniato nel processo contro Thomas Lubanga, leader dell’Union des patriotes congolaise dal 1999 al 2003, narrando come lui e tanti altri bambini erano stati usati nella guerra. La testimonianza è stata definita storica contro questo crimine, rimasto quasi sempre impunito proprio per la difficoltà di trovare prove soddisfacenti.