Associare ai volti una storia perché quei volti non ci siano estranei, perché la loro storia ci riguardi. È stata questa la scommessa del laboratorio nato dalla mostra “Elin e gli altri”, che raccoglie venticinque ritratti di bambini migranti dipinti da Miriam Cariani, pittrice, arteterapeuta e referente dell’Ufficio Stranieri della Cgil di Ferrara.
La mostra, esposta più volte a Ferrara e già presente sulle nostre pagine, in questi giorni è a Bologna e presto approderà a Roma. Torno a parlarne perché dall’inaugurazione in Biblioteca Niccolini mi è nata l’idea per un laboratorio di narrazione che insieme a Miriam abbiamo realizzato davvero. L’8 aprile ci siamo incontrati per un primo momento di condivisione con una lettura e il percorso andrà avanti nelle prossime settimane.
Nella prima fase chi visitava la mostra era invitato a estrarre da tre cappelli altrettanti elementi. Il primo cappello conteneva i nomi dei bambini ritratti da Miriam; al giocatore veniva donata l’immagine in dimensione ridotta in modo che potesse tenerla con sé. Nel secondo cappello erano contenuti biglietti che riportavano nomi di oggetti (l’autore avrebbe stabilito se magici o quotidiani), nel terzo l’indicazione di personaggi da mettere in relazione con il protagonista come compagni di viaggio, aiutanti, antagonisti… Nell’infinita libertà della scrittura, ciascun giocatore si impegnava a cucire una trama che comprendesse quel bambino, associato all’oggetto e al personaggio estratti.
In tanti si sono avvicinati a questa proposta, incluse alcune classi – dalla scuola primaria alla secondaria di secondo grado – nelle quali bambini e ragazzi hanno scritto, separatamente o insieme. Alla lettura di sabato scorso eravamo tutti adulti, diversi tra di noi per età ed esperienza, tanti che si vedevano lì per la prima volta, ma con lo stesso desiderio di ascoltare e di raccontare, senza giudizio, accogliendo la bellezza delle storie.
Abbiamo raccolto fin qui racconti, poesie, filastrocche, favole. I temi e i toni sono molteplici, dall’avventura, al gioco, al racconto di viaggio. È stato bello ascoltarne alcuni. Uno in particolare lo riporto qui, perché è bello e perché ci riguarda anche come associazione. È di Daniele Lugli, il nostro presidente emerito. Gli elementi da cui è partito erano un bimbo di nome Cai, un calzolaio e un tigrotto.
Si chiama Bortolo, come il nonno, il calzolaio Battisti, del piccolo paese ai piedi della Mendola, noto per il vino che ne porta in giro il nome. Il mestiere l’ha imparato dal padre, Luigi, che l’ha appreso dal nonno. Sono nati a distanza di quaranta anni l’uno dall’altro: 1900, 1940, 1980. Del nonno conserva una grande foto esposta nella bottega. È ritratto accanto a lui, mano nella mano. Il padre è tornato a curarsi delle mele nel paese d’origine, appena al di là della Mendola. Sono della Val di Non. Il nonno di politica, nonostante il cognome, non si sarebbe curato. Due incontri sono decisivi. Così in casa non si ripete il motto sem nones, noi no geren e se geren dormiven. A fine guerra scende appena di là dal passo, nel sud Tirolo, che Cesare Battisti, mai pensa di annettere all’Italia. Sabato di Pentecoste del 1920, invitato da un amico tedesco, è nella Casa del sindacato a Bolzano/Bozen dove ascolta Giacomo Matteotti, che parla in tedesco. Ne resta conquistato. Vent’anni dopo – un’altra guerra è cominciata – è con Gigino, figlio di Cesare Battisti, a condurre in salvo in Svizzera ebrei e antifascisti, nel mirino del regime. Da questa frequentazione viene il nome dato al figlio. Assieme al mestiere, una grande passione e competenza per la montagna si trasmette in famiglia. Nonno Bortolo è il più giovane tra i fondatori del CAI di Bolzano nel 1931. Luigi (Gigi) conosce bene Messner e gli è compagno nelle ascensioni in zona. Sostiene le battaglie di Langer. Alla domanda tedesco, italiano, ladino ? risponde calzolaio. La morte di Alex è un lutto per la famiglia.
Bortolo, adolescente, ascolta il Tentativo di decalogo per una convivenza interetnica. Bambini figli dell’immigrazione sono in un centro a Bolzano. Un’amica operatrice lo invita. Ce n’è uno, rimasto orfano nella traversata e fortunosamente salvato. Si chiama Cai, pare. Non parla quasi e neppure sorride. Bortolo ha il permesso di portarlo a casa. Si vedrà se ci sono le condizioni per un affido. Per un’adozione magari. La moglie di Bortolo si chiama Lene. Ha dieci anni di meno. Cinque anni fa è morto, a tre anni, Rino (Cesare, Cesarino) di quelle malattie che non si sa come curare. Non vogliono provare ad averne un altro. L’accoglienza della moglie è gentile e fredda. Lene, da allora, è gentile e fredda. Bortolo non le dice che il nome, CAI, lo ha sentito subito familiare. Dire che fa il calzolaio è riduttivo. Calzolai, ottimi artigiani, sono nonno e padre. Già il padre allarga e qualifica l’attività, dopo gli studi al Politecnico calzaturiero. Le sue scarpe sono opere d’arte, ricercate. La bottega è un laboratorio, arricchito di sempre nuovi strumenti in aggiunta a quelli ereditati. Al politecnico il padre insegna e così il figlio. Ha ancora una mano felice, ma il suo lavoro, apprezzato e richiesto, si affida a CAD (Computer-Aided Design) e CAM (Computer-Aided Manufacturing). Così può lavorare da casa, ricevere visite alla bottega, divenuta una sorta di museo della calzoleria. CAD, CAM e CAI occupano le sue giornate. Lene continua ad accompagnarlo in montagna, contribuisce – disegna splendidamente – alla creazione di nuovi modelli, ma l’entusiasmo è finito.
Nella bottega Cai si guarda attorno. Bortolo ricorda all’età del piccolo – dev’essere quella che Rino non ha superato – l’entrata nella stanza delle meraviglie. Annusa gli odori, tocca tutto – il cuoio, la gomma, le pelli, le colle, le forme – fermato se prende attrezzi pericolosi. Il nonno ne mostra l’uso. Rino mostra lo stesso entusiasmo. Cai non pare attratto da nulla. Mangia quel che gli danno. Sembra, come Rino, apprezzare il riso al latte. Passano tre giorni. Lene, silenziosa, lo considera. L’accudisce con attenzione. Dal grande baule estrae la sterminata collezione di peluche di Rino. La distende sul tavolo, sulle panche, sul coperchio del baule, sul pavimento di legno. Tutte le settimane è pulita, delicatamente spazzolata. L’interesse di Cai si risveglia. Diventa entusiasmo alla vista di un tigrotto bianco, un tigrotto delle nevi. Lo stringe al petto, gli parla. Ride e parla, incomprensibile, anche a Lene e Bortolo. Accenna un abbraccio. I tre si stringono.
Domani vado a prendere il perfido Ming, dice Bortolo. Già è passato da lui, con Cai in braccio, prima di tornare al paese. Uno sguardo appena e una parola uigui (uiguri). È in Italia da sempre, ma la erre non esce. Un mio antenato era qui quando, mille anni fa, un lato del mercato (adesso la chiamano via Portici) era occupato dai mercanti italiani e l’altro da quelli tedeschi. Un po’ stava da una parte un po’ dall’altra. Proprio dove sto io coi due negozi di fronte. In un negozio ci sono le cose dure, nell’altro quelle tenere. Dal negozio delle tenere è uscito – dono di nozze per Lene e Bortolo, nel 2010 anno della tigre – il peluche, di fibre naturali, prezioso e resistente. Il perfido Ming, detto anche semplicemente Ming, è un amico di famiglia. Mingo-Mongo, lo chiama Rino, che lo ricerca nelle immagini del fumetto di Flash Gordon. In attesa dell’aiuto di Ming i tre ripetono toccandosi: Cai, Lene, Bortolo, tigrotto e Ming, toccando la copertina del fumetto, accuratamente conservato. Ridono e piangono. Da tempo non succede. Forse pure a Cai.