Questo maggio, puntuale come ogni anno, è uscito il Rapporto del SIPRI (l’autorevole e indipendente Istituto svedese di ricerca per la pace) sulle spese militari globali, che registra – puntualmente – un nuovo aumento record delle spese militari: i governi del mondo sono arrivati a spendere nel 2017 in armamenti ed eserciti 1.739 miliardi di dollari. Un enorme flusso di denaro che diventa doppiamente distruttivo: quando le armi sparano e uccidono e quando le risorse per produrle e acquistarle sono sottratte agli investimenti per la cura dell’umanità dalla fame, dalle malattie, dall’ignoranza, dai cambiamenti climatici… In questo delirio bellicista, anche il nostro Paese risulta in pieno riarmo, arrivando a toccare i 29 miliardi di dollari in un anno di spesa pubblica militare, pari a 26 miliardi di euro, con un incremento del + 2,1% rispetto all’anno precedente. Una corsa agli armamenti senza sosta, che è sfociata da tempo in innumerevoli guerre “locali” e nell’insicurezza globale. Aggravata dal rischio nucleare con 15.000 testate nucleari puntate sulla nostra testa, nella disponibilità di personaggi come Trump e Putin, che hanno boicottato – come il governo italiano – la ratifica del Trattato ONU per la messa al bando delle armi nucleari. Un delirio bellicista, una situazione da allarme rosso, rispetto alla quale non c’è consapevolezza diffusa del pericolo in corso.
Uno scenario nel quale stanno perdendo i popoli ma stanno guadagnando, come mai prima d’ora, i produttori e i commercianti di armi: + 10% – ci dice ancora il SIPRI – di commercio globale negli ultimi cinque anni, con addirittura un vero boom – + 13% nello stesso periodo – per l’export dell’industria bellica italiana. Commercio osceno che diventa combustibile per la rapida trasformazione di tutti i conflitti in guerre e terrorismi. Di fronte a questo scenario – sostanzialmente ignorato in campagna elettorale – la politica nostrana, anche nella sua versione populista, continua ad essere supina al complesso militare-industriale. Come la grande stampa, che si guarda bene dal porre il tema nell’agenda dell’informazione.
Non a caso, nelle varie analisi critiche alle quali è stato sottoposto il “contratto di governo” di Movimento 5 Stelle e Lega, nessuno si è soffermato sul capitolo “Difesa” dove – salvo un generico impegno a “rivalutare” la presenza italiana nelle missioni internazionali e a “razionalizzare lo spreco nelle spese militari”, in particolare rispetto al patrimonio immobiliare – si afferma che “è imprescindibile la tutela dell’industria italiana del comparto difesa”, come se non fosse già ampiamente tutelata, anche in violazione palese della legge 185/90, che vieta il commercio di armi nei confronti delle dittature e dei paesi in guerra, come accade per le armi prodotte in Sardegna e vendute all’Arabia Saudita che le scarica sullo Yemen. Nessun cenno – come nella legislatura precedente – alle urgenti politiche attive di pace e civiltà: riconversione sociale delle spese militari, riconversione civile dell’industria bellica, ratifica del trattato per la messa al bando delle armi nucleari, costruzione della difesa civile non armata e nonviolenta.
La guerra e la sua preparazione sono ormai ritornate ad essere un implicito culturale, un dato di fatto, un destino inevitabile – addirittura un gioco, come avvenuto recentemente a Trento dove, durante l’adunata degli alpini, sono state predisposte aree dove i bambini potessero maneggiare e familiarizzare oscenamente con fucili e mitragliatrici, accompagnati dalle maestre! – che nessuno si sogna di mettere più in discussione, neanche chi si presenta sulla scena politica con la pretesa di essere alternativo al sistema. Ma, come scriveva Aldo Capitini nel 1968, “il rifiuto della guerra e della sua preparazione è la condizione preliminare per parlare di un orientamento diverso”. Nessun vero cambiamento è possibile senza passare da questo varco della storia. Come sapevano bene i costituenti e come noi abbiamo – da tempo – colpevolmente rimosso.