Vengono, magari dal cuore dell’Africa, costretti alla fuga, in cerca di un rifugio e forse di una nuova casa. Trovano, se va bene, navi enormi, già da crociera, ora luoghi di quarantena, anche se il tempone li dichiara sani. Due anni fa la cosa poteva avere un senso, ma è continuata. Riguarda solo loro, sopravvissuti alla Libia e alla traversata in gommone. Mica sono ucraini.
Di questa realtà apprendo qualcosa di più grazie a un incontro nella mia città, accompagnato da una mostra fotografica da poco conclusa. Mi ha invitato una ragazza.
Ascolto la testimonianza dell’infermiere e fotografo italiano, di un maliano che ha lavorato sulle navi da mediatore culturale, le considerazioni sul tema di un avvocato. Sono tutti giovani. A occhio potrebbero essermi più nipoti che figli. Prendo un libretto del mediatore: Soumaila Diawara “Le cicatrici del porto sicuro”. Me lo firma con dedica: “Non abbiamo muri nei cuori”. L’acquisto perché i proventi hanno una buona destinazione. Ora lo leggo e mi rammarico di uno avere scambiato una parola con Soumaila.
Viene dal Mali – quattro volte l’Italia con un terzo degli abitanti – del quale non so nulla, pur essendomene occupato in un precedente post. In esso cito pure la crisi politico-militare all’origine dell’emigrazione forzata di Soumaila.
È militante del SADI (Solidarité africaine pour la démocratie et l’indépendance), responsabile del movimento giovanile e poi della comunicazione del partito. Viaggia in Africa, America Latina, Europa, Canada. Nell’ottobre del 2013 è nel vicino Burkina Faso per un incontro della sinistra africana. Apprende di essere ricercato per un attentato al Presidente ad interim in attesa delle imminenti elezioni. Per il suo orientamento politico non si sente sicuro nel paese e decide il passaggio in Algeria. Ci resta un anno. È laureato in legge e trova lavoro presso l’ambasciata turca. Anche ad Algeri la vita non è facile: i neri sono sospettati dalla popolazione di essere portatori di ebola, minacciati, respinti. Apprende della morte di una compagna incarcerata nella retata alla quale si è sottratto. Acquista un biglietto aereo per la Svezia, dove ha conoscenza e contatti. Un controllo della polizia, conclusosi favorevolmente, gli fa perdere però aereo e denaro versato. Non gli resta che il passaggio in Libia. Qui trova “l’inferno in terra”, una situazione ben diversa da quella conosciuta con Gheddafi al potere. È un periodo atroce attentamente documentato. Infine, dopo un fallito tentativo il 24 dicembre del 2014 – il gommone naufraga subito – il 25 si imbarca e il 26 è salvato da un mercantile maltese e poi trasbordato su una nave dalla Marina italiana.
Lo ferisce, nel primo periodo italiano, non essere chiamato per nome, ma con lettera e numero, B49. Conosce tutta la trafila che lo porta, dopo mesi, al riconoscimento delle qualità di rifugiato. Mentre studia e bene apprende l’italiano vede le criticità e le incongruenze del nostro sistema di accoglienza e sperimenta assieme l’impegno e l’attenzione di molti volontari. Sono questi gli elementi decisivi nel motivarlo nella sua attuale attività. Può esserci pure il ricordo della nonna. Apprende della sua tragica fine dalla madre, quando già si trova in Italia. I militari ne invadono la casa. Cercano Soumaila, sequestrano computer e documenti. Danno fuoco alla casa con la nonna dentro. Dall’età di tre anni questa donna coraggiosa lo alleva, avvia agli studi e all’impegno. Kankou Keita, questo il suo nome, è tra le promotrici del movimento femminista in Mali fin dagli anni ’50.
Ho pensato a Soumaila come a uno dei 15 milioni di afroeuropei presenti nel nostro continente. “Incontriamo ogni giorno donne e uomini neri per la strada, sugli autobus e sui treni, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, ma è come se fossero invisibili. Sono genericamente e solo ‘migranti’, ‘seconde generazioni’ o ‘rifugiati’, categorie riduttive e spesso improprie, come se accanto a noi non ci fossero invece individui complessi, portatori di storie e appartenenze plurali”, leggo su “il Mulino” nella segnalazione di un libro di Olivette Otele Africani europei. Una storia mai raccontata. Ho pensato al contributo che può venire, per la costruzione di un’uguaglianza vera e profonda, da chi sperimenta sulla propria pelle, e in ragione della propria pelle, ogni forma di discriminazione. Di uguaglianza abbiamo estremo bisogno. Nessuna libertà è possibile tra diseguali. Quella che ci è concessa – sempre ricordando che c’è chi sta peggio di noi – consiste nell’amare/ invidiare i nostri ultraricchi, filantropi e mecenati, garanti della democrazia, e aborrire quelli degli altri, oligarchi, buzzurri, criminali, complici degli autocrati.
Oltre a rinverdire principi di uguaglianza e libertà che sono stati – e dovrebbero essere – nostri, potrebbero darci di fraternità un’idea che non richiami subito Caino e Abele, Romolo e Remo. Soumaila lo fa con libri di poesie, che non mancano anche in questo che leggo. Sa, come Capitini, che “la casa o mezzo a ospitare”: “Ho chiamato i mie fratelli in Mali// Ho chiesto loro di essere garante/ dei diritti dei migranti lì a casa mia…”. Per noi tutti scrive: “La mia casa è così piccola/ Che oltre a me, / potrà contenere solo i tuo oro / il tuo diamante, le tue banane / e il tuo caffè. / Oltre che al tuo gas / per i miei riscaldamenti. / E il tuo petrolio per la mia macchina, / ma non c’è più nemmeno / un buco per te…/ (Disse l’Europa all’Africa)”.