Presidi, professori, i loro compagni venivano esclusi dalla scuola per andare incontro, in molti casi, allo sterminio. Ottanta anni dopo – ancora con legge – si aggrava la difficile condizione di persone giunte nel nostro paese spinte da guerra, disperazione e speranza. Li si etichetta – non con la stella gialla di David – come “clandestini”. Non avverto un particolare contrasto a questa criminalizzazione.
Da un giorno all’altro nostri concittadini divennero persone senza diritti. Dopo le stragi e la guerra venne la stagione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, delle Costituzioni, che proclamano diritti inviolabili per tutti. Ma persone senza diritti ci sono ancora, tra noi: i migranti. Lo dice bene Ferrajoli, parlando di “razzismo istituzionale”, che stimola “sadismo legislativo e burocratico”. Non sembra che la maggior parte delle persone – come in passato del resto – sia turbata dalla criminalizzazione non di un comportamento, ma di una condizione. Neppure appare preoccupata dei sicuri effetti, per tutti negativi, di una politica di esclusione.
Di ragazzi di una volta parlo lunedì 3 dicembre, compleanno del Liceo classico Ariosto, da me frequentato tanti anni fa. In particolare parlo agli studenti di uno: Silvano Balboni. Il Liceo perse allora il preside, ebreo, e Silvano due compagni e una compagna di classe. Marcella e Vittorio li ritroviamo, con i familiari, nella lapide in via Mazzini, a ricordo degli ebrei ferraresi non tornati dai campi di sterminio. Il terzo compagno, Giuseppe, con il padre e i fratelli, fu nascosto e salvato da persone generose e coraggiose.
Silvano, allora sedicenne, si impegnò nella lotta clandestina in condizioni di crescente difficoltà. Attirò in quell’attività altri ragazzi, anche più giovani di lui. Questo fece prima e durante la guerra, dal 1938 al novembre del 1943, quando fu indotto a fuggire in Svizzera, divenuta la sua situazione insostenibile. La Svizzera offrì, a lui come ad altri in pericolo di vita, rifugio. Tornato in Italia nel 1945 contribuì alla costruzione della democrazia, a Ferrara e in Italia, in una prospettiva di “comunità aperta” ispirata alla nonviolenza. Concluse la sua breve, intensa vita nel novembre del 1948, a 26 anni.
Ora noi, contro la nostra Costituzione, l’asilo lo centelliniamo e sempre più lo rifiutiamo. Così fan quasi tutti in Europa, in una ignobile gara. Oggi i rischi per chi si oppone sono di gran lunga minori. Il compagno di classe di Silvano, Francino, partito per la guerra volontario, sarà poi partigiano e fucilato. Così pure lo sarà, a diciassette anni, il liceale Ludovico, figlio di un generale. I rischi oggi non sono quelli. Trovare modi efficaci di accoglienza e integrazione non è però semplice. Se si trovano vengono boicottati in ogni modo, come mostra il caso di Riace.
Aule del Liceo sono intitolate a Silvano, e ad altri che ho ricordato e ad altri ancora, che non sto qui a citare. Mi piace pensare che in quelle aule ci siano giovani che non condividono un messaggio pieno di odio e paura. C’erano una volta, ci sono ancora. Silvano Balboni aveva ascoltato Aldo Capitini e tradotto in concreta esperienza l’indicazione della nonviolenza. Altri erano i problemi allora urgenti rispetto agli attuali. Altri erano anche nel ’68 i temi all’ordine del giorno.
Capitini però profeticamente scriveva – in quello che era per lui l’ultimo anno di vita – il metodo nonviolento…rende presenti moltitudini di donne, giovinetti, folle del Terzo Mondo, che entrano nel meglio della civiltà, che è l’apertura amorevole alla liberazione di tutti. E allora perché essere così esclusivi (razzisti) verso altre genti? Ormai non è meglio insegnare, sì, l’affetto per la propria terra dove si nasce, ma anche tener pronte strutture e mezzi per accogliere fraternamente altri, se si presenta questo fatto? La nonviolenza è un’altra atmosfera per tutte le cose e un’altra attenzione per le persone e per ciò che possono diventare. Cinquanta anni dopo sta ai giovani riprendere l’impegno, tradito e abbandonato da chi li ha preceduti, alla liberazione di tutti.