di Mao Valpiana*
Seguirono poi le Cop (Conference of Parties, gli incontri dei Paesi che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici). Dalla prima riunione a Berlino nel 1995 fino all’ultima di Glasgow del 2021, sono cresciuti gli impegni assunti, seguiti dalle delusioni per i risultati concreti non realizzati. Trent’anni di analisi e trent’anni di peggioramenti costanti, trent’anni di crisi climatica globale.
Per comprendere bene la posta in gioco, vale la pena di rileggere cosa scriveva Alex dopo Berlino, quali erano allora le aspettative per il futuro del 2020, che per noi oggi è un passato e dunque un’occasione persa. “Il rischio più grande– scriveva Langer – non sono solo le formulazioni spesso assai vaghe, ma che si continui a spostare il grosso della riduzione più in là“. E’ quello che uscirà da Glasgow? Comunque sia, non abbiamo alternative. Dobbiamo insistere per ridurre l’impatto dell’umanità sul pianeta. Senza dividerci in buoni e cattivi, in inquinatori e inquinati, in giovani e vecchi, perchè siamo tutti sulla stessa barca, anzi sullo stesso barcone da profughi che fa acqua, e ci sono già i primi uomini in mare. O ci si salva tutti insieme, o si muore.
Che tempo farà dopo Berlino?
di Alexander Langer, maggio 1995
Che cosa è venuto fuori dalla Conferenza di Berlino sul clima? “Un modesto successo”, dicono Lise Backer e Markus Kurdziel del Climate Network europeo, avvertendo che bisogna mettere l’accento su ognuna delle due parole. Vediamo più in dettaglio il loro giudizio, che riflette la delusione che di primo acchitto è stata manifestata a Berlino dai molti organismi non governativi (ONG) e dai Verdi europei che ne ospitavano la riunione nell’ex-parlamento prussiano, ma offre anche spunti positivi. Visto che il cambiamento del clima è dovuto al 60% alle emissioni di anidride carbonica causata da attività dell’uomo, l’oggetto principale dei negoziati di Berlino era proprio la riduzione di queste emissioni ed il loro bilanciamento attraverso attività di conservazione delle foreste e di riforestazione.
Si è formato – a livello governativo – un fronte interessante contro le emissioni nocive ed a tutela del clima: in prima linea i governi dei 36 piccoli stati insulari (AOSIS), primi candidati a subire disastrose conseguenze dell’effetto serra e del riscaldamento dell’atmosfera; anche gran parte degli Stati del Sud del mondo si sono impegnati, salvo quelli petroliferi (così il G 77 – il gruppo dei 77 paesi meno sviluppati è diventato un G 72). Questo gruppo di paesi – insieme alla pressione degli ambientalisti, di cui è stato definito “il migliore alleato” – è riuscito a premere affinchè gli stati industrializzati firmassero l’impegno di ridurre di almeno il 20% (paragonato al 1990) le emissioni di anidride carbonica entro il 2005 – dando corpo in modo più concreto al generico impegno di Rio 1992 e pretendendo di rovesciare l’andamento degli ultimi anni: dal 1990 al 1994 negli USA vi è stato, al contrario, un aumento del 5%, in Europa del 3%! Se si lasciasse andare avanti la tendenza attuale, si arriverebbe nel giro di 20 anni al raddoppio delle emissioni! Tuttavia la firma apposta a Berlino riguarda per ora solo un mandato per un protocollo di misure, non l’elenco delle misure stesse, con le rispettive scadenze. Ma il fatto che il Sud sia riuscito a formulare una posizione comune, è importante: saprà impedire che il Nord si comporti come quegli aristocratici dei secoli passati, che quando si trattava di andare in guerra, pagavano un contadino per andare al fronte al posto loro. Oggi gli Stati industrializzati del Nord tenderebbero a vedere la riduzione delle emissioni nocive come un obiettivo che si può indifferentemente realizzare dove si vuole: se il Nord “paga” perché il Sud inquini meno, potrebbe a suo volta continuare a farlo…! Joint implementation, attuazione congiunta, si chiama il termine per questo inghippo che può portare ad una sistema di debito/credito o “buoni inquinamento”.
Gli strumenti concreti per arrivare alla riduzione delle emissioni nocive sono stati individuati, ma non adottati: soprattutto un sistema fiscale orientato a rendere costoso l’inquinamento e conveniente la sua riduzione (eco-tasse: meno inquinamento, più posti di lavoro), un Piano internazionale di riduzione (IRP) ed un’azione internazionale di conversione energetica.
Nel 1997 – secondo il mandato firmato – dovrebbero comunque essere firmato un protocollo a partire dalla proposta “delle isole” (AOSIS) ed almeno per il dopo-2000 si dovrebbe adottare anche un progetto di azioni con l’indicazione dei tempi precisi per i paesi industrializzati (con gli obiettivi differenziati per il 2005, 2010, 2020). Il rischio più grande non sono solo le formulazioni spesso assai vaghe, ma che si continui a spostare il grosso della riduzione più in là e che i valori di riferimento (1990) non vengano poi rispettati. Anche il finanziamento del risanamento è stato affrontato, con il coinvolgimento della Banca mondiale ed il GEF (il fondo ambientale internazionale, istituito a Rio nel 1992).
Se i nemici del clima sono stati individuati soprattutto nei governi degli Stati petroliferi e nelle industrie del petrolio (che non vogliono sentir parlare di riduzione di emissioni di CO2) e dei paesi industrializzati, il fronte degli amici è stato variegato: dai sindaci delle città al Parlamento europeo, da alcuni sindacati al Climate action network (CAN).
Ora si chiede che soprattutto l’Unione europea si profili come avanguardia tra i paesi industrializzati: eco-tasse, un programma “per le città sostenibili”, una revisione della politica energetica e dei trasporti, una direttiva che obblighi alla pianificazione al minor costo ambientale ed un impegno per l’aiuto ambientale internazionale (la Danimarca vi dedica lo 0,5% del suo PIL) sono alcuni degli obiettivi prioritari.”
*Direttore della Rivista Azione Nonviolenta, Presidente Movimento Nonviolento.