“Un gentiluomo – commentano a bassa voce due agrarie d’età – ma è comunista e i comunisti portano via la terra”. Le sente Maurizio: “Ma quanta terra possono mai portare via? Un camion o due al massimo. La terra per sua natura resta lì!”. È serio ed elegante. Lo guardano senza parole. C’è però chi si impadronisce davvero della terra. Non della loro, comunque.
Non è il comunismo: è il libero mercato. Si acquista, si affitta. È tutto regolare, ma le comunità locali sono impedite nello sviluppo, quando non nella sopravvivenza. Una stima prudente, certamente inferiore alla realtà, quantifica in oltre 2mila i contratti stipulati negli anni Duemila – soprattutto nell’ultimo decennio nel quale il fenomeno si è decuplicato – per oltre 68 milioni di ettari. Altri 200 contratti si stanno negoziando per ulteriori 20 milioni abbondanti di ettari. Si arriverebbe ad una dimensione di campi coltivati grande tre volte la superficie dell’Italia. Rimasti senza terra da usare, le popolazioni emigrano nelle periferie cittadine o in altri stati.
È il risultato del Land grabbing (accaparramento delle terre) cioè acquisizioni o concessioni di terra, in violazione di diritti umani fondamentali come quello al cibo, non basate sul consenso previo, libero e informato, di chi utilizza quella terra e con impatti negativi sui sistemi alimentari locali. È praticato dagli Stati ricchi del Nord (Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda…), dai quelli emergenti (Cina, India, Brasile…), dai petroliferi (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Malesia…), da paradisi fiscali (Singapore, Liechtenstein…). Un po’ anche l’Italia acquista e prende in affitto, in Romania e Africa (Gabon, Liberia, Etiopia, Senegal). Investiti sono soprattutto i paesi poveri dell’Africa ( Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan, Mozambico, Congo Brazzaville, Liberia…) e dell’Asia sud orientale, come Papua Nuova Guinea. Ci sono paesi che acquistano e affittano e che hanno loro terre affittate e acquistate. Molti i casi, Cina, Brasile… Succede anche in Italia. Ma non è una cosa tra Stati, anche se così è descritta. È una cosa tra ricchi, che diventano sempre più ricchi, e poveri che, se non diventano sempre più poveri, non hanno comunque speranza di progresso.
Si è visto, non senza fondamento, in queste pratiche una forma di colonialismo. E oggi non sono solo gli inglesi, né principalmente loro, ad accogliere l’appello di Kipling Take up the White Man’s burden (Raccogli il fardello dell’uomo bianco) per il bene degli stessi neocolonizzati. Ricchi di ogni colore della pelle, di ogni provenienza e fede, si prestano con entusiasmo. L’interesse non discrimina. Come è stato osservato, l’appello all’unità rivolto ai proletari è stato accolto dai capitalisti. Residue loro ostilità nel garantirsi l’accaparramento si scaricano, comunque, sulle comunità oggetto del loro interessamento. Naturalmente tutta la vicenda può essere narrata diversamente. L’accaparramento delle terre si chiama invece investimento agricolo, non c’è espropriazione di risorse ma loro valorizzazione, la cessione di risorse strategiche è necessaria per lo sviluppo che è a vantaggio di tutti. Non è estrattivismo, che impoverisce territorio e comunità, come denuncia il Papa, evidentemente male informato.
L’abile uso delle parole può fare molto e produrre dunque una diversa narrazione di quello che accade. Ma anche i fatti hanno la testa dura. Invitano a riflettere sul fatto che intere popolazioni affamate, destinatarie di aiuti internazionali per sopravvivere, sono costrette a cedere le proprie terre. Se tutto va bene – i terreni restano spesso a lungo inutilizzati in attesa di destinazioni più vantaggiose – vi si produce un cibo destinato alla vendita e al consumo all’estero.
Immagine tratta da slowfood.it