• 23 Dicembre 2024 18:38

Codici identificativi per la polizia: condizione essenziale per uno Stato di diritto.

DiNicola Canestrini

Nov 10, 2018
Immagine di forze di polizia schierate in compiti di ordine pubblico.

“Una Polizia che non ha e non deve avere paura degli identificativi nei servizi di ordine pubblico, di una legge, buona o meno che sia, sulla tortura, dello scrutinio legittimo dell’opinione pubblica o di quello della magistratura“, rispondeva il Capo della Polizia Franco Gabrielli nel luglio 2017 al giornalista che gli chiedeva come lui immaginasse la Polizia del dopo Genova 2001.

Le forze di polizia tutte non dovrebbero infatti temere il giudizio dei cittadini, e hanno diritto ad essere sostenute  quando siano oggetto di accuse infondate relative all’esercizio delle sue funzioni.

Del resto, la polizia – secondo la legge  – “esercita le proprie funzioni al servizio delle istituzioni democratiche“: in funzioni di polizia di sicurezza, svolge il compito fondamentale di garantire la preservazione dell’ordine pubblico, la sicurezza personale dei singoli componenti del corpo sociale, la loro incolumità, nonché l’integrità dei diritti.

E’ infatti innegabile il ruolo essenziale delle forze di polizia in una democrazia; di converso, è anche la ampiezza e la modalità dei esercizio dei compiti della polizia a dare la misura della effettività di uno stato di diritto.

Si pensi, ad esempio, alla importanza della divisione dei poteri come riaffermati nella sentenza del 7  novembre 2018 della Corte Costituzionale; in tale sentenza è stato dichiarato illegittimo l’obbligo proprio per la Polizia previsto in una legge estiva del 2016 di trasmettere per via gerarchicale nei Dato otizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale” per conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato, potendo influire l’ingerenza una violazione delle prerogative della magistratura (e così incidendo appunto sulla separazione dei poteri).

Ma vi  è un’altro campo nel quale l’Italia aspetta invano una regolamentazione.

Identificabilità delle forze dell’ordine: Italia fanalino di coda in Europa

Incredibilmente, in  Italia, le forze di polizia non solo non hanno obbligo di identificarsi a richiesta di chi sia titolare di un interesse qualificato a conoscerne l’identità, ma l’Italia è anche uno dei pochi paesi europei in cui le non sono neppure dotate di codici identificativi sulla divisa e/o sul casco, codici utili per individuare i singoli agenti e responsabilizzarli nel corso del servizio di ordine pubblico. Segni identificativi sono ad esempio usati dalle forze di polizia  francesi, svedesi, irlandesi, norvegesi, austriache, greche, turche (e, in parte, quelle inglesi e tedesche), …

“.. quando le autorità nazionali competenti schierano i poliziotti con il viso coperto per mantenere l’ordine pubblico o effettuare un arresto, questi agenti sono tenuti a portare un segno distintivo – ad esempio un numero di matricola – che, pur preservando il loro anonimato, permetta di identificarli in vista della loro audizione qualora il compimento dell’operazione venga successivamente contestato”

(sentenza Corte EDU, Cestaro vs. Italia, 2015)

L’obbligo di identificabilità delle forze dell’ordine in funzioni di polizia di sicurezza è invece previsto a livello internazionale da diverse fonti.

La fiducia pubblica nella polizia è infatti strettamente collegata all’atteggiamento e al comportamento verso il pubblico, in particolare al rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali e delle libertà dell’individuo, contenuti, in particolare, nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come ricorda il preambolo della  Raccomandazione Rec (2001)10 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri, organismo che ha anche lo scopo di promuovere lo stato di diritto, che costituisce il fondamento di tutte le autentiche democrazie.

La citata raccomandazione, adottata il 19 settembre 2001, costituisce il cd. Codice etico della polizia, oltre a stabilire ad esempio che

  • la polizia deve rispettare il ruolo degli avvocati della difesa nel processo penale” (art. 10),
  • prescrive che le forze di polizia debbano essere “facilmente riconoscibili” (art. 14), ed
  • essere “in condizione di fornire le prove del proprio status e della propria identità professionale” (art. 45),
  • sancendo che “la polizia deve rendere conto allo Stato, ai cittadini e ai loro rappresentanti. Deve essere sottoposta ad un efficiente controllo esterno” (art. 34).

Perchè è inimmaginabile che chi è depositario del potere di privare legittimamente una persona della sua libertà personale (incidendo altresì su numerosi altri diritti fondamentali) non debba dover rispondere di eventuali abusi.

Infatti, proprio la Risoluzione del Parlamento europeo del 12 dicembre 2012 sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea  invita gli Stati membri “a provvedere affinché il controllo giuridico e democratico delle autorità incaricate dell’applicazione della legge e del loro personale sia rafforzato, l’assunzione di responsabilità sia garantita e l’immunità non venga concessa in Europa, in particolare per i casi di uso sproporzionato della forza e di torture o trattamenti inumani o degradanti” e infine esortando i Paesi dell’Ue “a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo” (art. 192; vai alla risoluzione).

Ciò viene ribadito anche nella analoga Risoluzione del 2014, nella quale viene richiesto agli Stati membri di garantire la presenza di elementi di identificazione sulle uniformi delle forze dell’ordine e di assicurare che queste ultime rispondano sempre delle loro azioni.

Del resto, ogni reato rimarrà certamente impunito in caso non possano essere identificati gli autori.

Impunità per autori anonimi dei reati?

E l’Italia dovrebbe essere consapevole, più di altri paesi,  delle conseguenze terribili derivanti dalla mancanza di identificabilità delle forze dell’ordine.

Parliamo di tortura:

” .. quando un individuo sostiene di avere subito, da parte della polizia o di altri servizi analoghi dello Stato, un trattamento contrario all’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell’Uomo, tale disposizione, combinata con il dovere generale imposto allo Stato dall’articolo 1 della Convenzione di «riconoscere a ogni persona sottoposta alla [sua] giurisdizione i diritti e le libertà definiti (…) [nella] Convenzione», richiede, implicitamente, che vi sia un’inchiesta ufficiale effettiva.

Tale inchiesta deve poter portare all’identificazione e alla punizione dei responsabili.

Se così non fosse, nonostante la sua importanza fondamentale, il divieto legale generale della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti sarebbe inefficace nella pratica, e sarebbe possibile in alcuni casi per gli agenti dello Stato calpestare, godendo di una quasi impunità, i diritti di coloro che sono sottoposti al loro controllo.

La Corte rammenta, in particolare, di aver già dichiarato, sulla base dell’articolo 3 della Convenzione, che l’impossibilità di identificare i membri delle forze dell’ordine, presunti autori di atti contrari alla Convenzione, era contraria a quest’ultima.

Parimenti, ha già sottolineato che, quando le autorità nazionali competenti schierano i poliziotti con il viso coperto per mantenere l’ordine pubblico o effettuare un arresto, questi agenti sono tenuti a portare un segno distintivo – ad esempio un numero di matricola – che, pur preservando il loro anonimato, permetta di identificarli in vista della loro audizione qualora il compimento dell’operazione venga successivamente contestato“.

Lo ha stabilito con parole che pesano come macigni per un paese dalla lunga tradizione in promozione e difesa dei diritti fondamentali la sentenza di condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 7 aprile 2015,  Cestaro c. Italia, in relazione ai gravissimi fatti commessi da forze di polizia alla caserma Diaz dove – oltre ad eseguire una perquisizione illegittima alla scuola Pascoli, allo scopo di cercare e distruggere prove riguardante gli eventi in corso alla scuola Diaz anche danneggiando volontariamente i computer in uso agli avvocati – eseguì pestaggi crudeli e sadici, anche mediante manganelli non regolamentari (sentenza di Corte di appello n. 1530/10 del 18 maggio 2010); la Cassazione confermò che si trattò di violenza non giustificata e esercitata con finalità punitiva, vendicativa e diretta all’umiliazione ed alla sofferenza fisica e mentale delle vittime (sentenza n. 38085/12 del 5 luglio 2012).

Ciononostante, stiamo ancora aspettando.

Che fare?

Non si può però dire che parte dell’opinione pubblica italiana non avesse percepito la necessità di introdurre una regolamentazione in materia di identificazione delle Forse dell’ordine:  se ne occuparono, non solo i promotori di una raccolta di firme, ma anche diverse proposte di legge con medesimo contenuto (es.  1639 del 2001 alla Camera dei Deputati, la 1556 del 2002 al Senato a firma Martone e altri e la 1307 del 2008 alla Camera dei Deputati, a prima firma Maurizio Turco); in alcune proposte venivano anche previste sanzioni in caso di copertura o rimozione dei codici identificativi.  L’ultimo tentativo è il DDL “Disposizioni in materia di identificazione del personale delle Forze di polizia in servizio di ordine pubblico e di applicazione di microtelecamere alle uniformi”, Atto Camera 1528 a firma PINI, Assegnato alla I Commissione Affari Costituzionali in sede Referente il 15 ottobre 2019, che prevede che “il personale delle Forze di polizia ad ordinamento civile o militare, impegnato in servizi di ordine pubblico e di sicurezza dei cittadini durante le manifestazioni di piazza o sportive, è tenuto a indossare l’uniforme di servizio” (art 1); è altresì previsto che “il casco di protezione indossato dal personale delle Forze di polizia di cui all’articolo 1 deve riportare sui due lati e sulla parte posteriore un codice alfanumerico che consenta l’identificazione dell’operatore che lo indossa”, condivieto di indossare caschi o altri mezzi di protezione del volto che impediscano l’identificazione dell’operatore. È fatto altresì divieto di indossare caschi assegnati ad altri operatori nonché di indossare fazzoletti e altri indumenti e mezzi di protezione non previsti o non autorizzati dai regolamenti di servizio atti a oscurare il codice identificativo, ovvero ad alterarlo o a modificarne la sequenza”. Quanto alle sanzioni, e salva la giustizia disciplinare e eventuali reati, “in caso di violazione delle disposizioni del presente articolo si applicano la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da euro 3.000 a euro 6.000″.

campagna AI 2018
Immagine della campagna 2018 “Polizia mettici la faccia” di Amnesty International.

Ma nonostante il legislatore sia intervenuto a più riprese sulla materia della cd. sicurezza, ampliando i poteri delle forze di polizia, anche introducendo armamenti dubbi dal punto di vista di un impiego legittimo (si pensi all’introduzione delle pistole ad impulsi elettriche nel 2014 – 2018, nonostante Amnesty International ne abbia denunciato un uso largamente sproporzionato), non si è mai formato il consenso politico necessario per poter introdurre una norma di civiltà tanto ovvia (e nonostante la meritoria azione di chi non si rassegna alla illegalità: cfr. la campagna 2018 di Amnesty International Italia “Polizia, mettici la faccia“).

La presenza dei codici di identificazione, si potrebbe dire, non impedisce un uso sproporzionato della forza, ed è vero, ma è facile rispondere che la documentazione degli abusi può essere più accurata, agevolando il lavoro della magistratura.

D’altro canto timore d’essere identificati è un deterrente per gli agenti mal intenzionati e in generale un freno per gli eccessi preordinati nell’uso della forza (come giustamente scritto da Lorenzo Guadagnucci nel 2013).

L’identificabilità dei singoli operatori di polizia sarebbe infine anche una forma di tutela per gli stessi appartenenti alle forze di polizia, che hanno diritto – proprio per il difficile e meritorio lavoro che svolgono – di non essere confusi con chi invece infanga la divisa nascondendosi nell’anonimato.

Se non ora, quando?

 

Di Nicola Canestrini

Avv. Nicola Canestrini Laureato summa cum laude con una tesi di laurea sul nesso tra diritto e democrazia, difende diritti dentro e fuori dalle aule. Figlio di Sandro Canestrini, storico avvocato difensore degli obiettori di Coscienza al servizio militare e amico del Movimento Nonviolento, è titolare dello studio canestriniLex :: avvocati www.canestrinilex.com. IMPORTANTE: quanto pubblicato in questa rubrica va riportato al solo pensiero personalissimo dell'autore.

2 commenti su “Codici identificativi per la polizia: condizione essenziale per uno Stato di diritto.”
  1. Gli Agenti delle Forze dell’ordine non sono le pecore o i maiali da numerare per verificarne la proprietà durante gli interventi previsti dalle disposizioni sull’Ordine Pubblico. Numerarli come le bestie significherebbe non attribuire ad essi alcuna fiducia; anzi una fiducia contraria alle leggi ed alla Costituzione cui essi hanno giurato fedeltà.

    1. Egregio signor Sciullo,
      grazie per il Suo commento.

      Non sono passate nemmeno 24 ore dalla condanna per omicidio preterintenzionale e falso di Carabinieri per la morte di Stefano Cucchi da parte della Corte di Assise di Roma, a riprova che purtroppo nessuno (persona fisica o corpo amminsitrativo) può considerarsi legibus solutus, nè al di sopra di ogni sospetto.

      Prendo atto che secodo Lei le plurime fonti internaizonali citate nel mio commentto che raccomandano la identificabilità delle forze dell’ordine sarebbero inclini a pensare agli operatorori di polizia come “pecore o maiali”.

      Così come – evidentemente – “pecore o maiali” sono considerati dai rispettivi governi le forze di polizia di Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Grecia, Olanda, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Spagna, tutti stati europei che prevedono -pur con le rispettive differenze da legislazione a legislazione – un obbligo di codici identificativi.

      Anche Franco Gabrielli, capo della Polizia, in un’intervista a Repubblica nel 2017 dichiarò che la gestione dell’ordine pubblico durante il G8 di Genova del 2001 fu “un disastro”, e si immaginava di guidare una polizia «che non ha e non deve avere paura degli identificativi nei servizi di ordine pubblico». “Pecore e maiali” anche secondo il capo della polizia dell’epoca?

      Mi sfugge quale articolo della Costituzione Lei invoca per pretendere di poterne desumere la mancanza di fiducia per il pubblico dipendente ladove si chieda che debba essere riconoscibile.

      Temo che Lei ignori, oltretutto, che l’art. 55 novies del decreto legislativo n. 165 del 2001 – identificazione del personale a contatto con il pubblico – prescrive che “I dipendenti delle amministrazioni pubbliche che svolgono attività a contatto con il pubblico sono tenuti a rendere conoscibile il proprio nominativo mediante I’uso di cartellini identificativi o di targhe da apporre presso la postazione di lavoro”; tutti “pecore o maiali”?

      Prima di rispondere, legga quel che il Ministro per la pubblica amministrazione affermava in una circolare del 2010: “La norma persegue l’obiettivo di attuare la trasparenza nell’organizzazione e nell’attività delle pubbliche amministrazioni. Essa riprende alcune indicazioni già diramate in via amministrativa e si inserisce nell’ampio contesto delle misure amministrative e normative introdotte nell’ordinamento con il fine di rendere conoscibile e trasparente l’organizzazione e l’azione amministrativa e di agevolare i rapporti con l’utenza.” (http://www.funzionepubblica.gov.it/sites/funzionepubblica.gov.it/files/17186.pdf)

      Ci rifletta, e non si lasci accecare dalla ideologia, che rischia di farLe fare brutte figure.

      Nicola Canestrini

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