Quella che segue è la prefazione al libro di Saverio Morselli, instancabile costruttore di pace di Reggio Emilia, che mi ha chiesto di scrivere per la sua ricostruzione della storia del Gruppo di lavoro per la Pace di Reggio Emilia, quel “manipolo di audaci” di cui è stato punto riferimento. Ha lavorato a questo testo prezioso per la storia del movimento pacifista reggiano, e non solo, fino ai suoi ultimi giorni. Non ha potuto vederne la pubblicazione, ma in queste pagine – oltre che nella memoria di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo – ci ha lasciato una lezione per continuarne l’impegno seguendo il suo esempio perché, come scrive, “l’impegno per la pace non può essere considerato qualcosa di occasionale e fugace, destinato a scemare in breve tempo, ma un ambito dove indirizzare con continuità e convinzione il nostro tempo, le nostre energie intellettuali e fisiche”. Oggi più che mai
La mia conoscenza di Saverio Morselli si innesta in verità dalla fine della storia raccontata in queste pagine, ma le modalità con le quali è avvenuta ne condividono in qualche modo l’inizio. Saverio ricorda la sua prima riunione “politica” in via dell’Aquila 2, allora sede del PdUP (Partito di Unità Proletaria, nome che evoca un mondo ormai rimosso), che ospitò gli incontri di quello che avrebbe preso il nome di “Gruppo di lavoro per la pace”. Qui si reca in un pomeriggio del 1983, pur non conoscendo quasi nessuno dei partecipanti, se non Ettore Guidetti che lo aveva invitato a partecipare, per capire se sarebbe stato “in grado di abbandonare il ruolo di spettatore per cimentarsi in quello di attore” nella vita pubblica cittadina. Anche io partecipai dieci anni dopo – in una sera del 1993, se la memoria non m’inganna – ad una riunione del Cendip (il Centro di documentazione e informazione per la pace) di cui Saverio era il presidente, che aveva sede in via Vittorangeli 7, senza conoscere nessuno dei partecipanti. Trasferito da poco a Reggio Emilia, avevo letto degli incontri al Cendip in un volantino recuperato da qualche parte e volevo capire – analogamente a Saverio dieci anni prima – se avrei potuto dare una mano attiva al “movimento pacifista” di questa città, come avevo fatto precedentemente a Messina nel mio periodo universitario. Mi sentii accolto da tutti. Della personalità di Saverio, che pian piano cominciai a conoscere e stimare, mi colpirono fin da subito l’intelligenza acuta, la mitezza di carattere, l’argomentare lucido.
Questa asincronia temporale rispetto al periodo raccontato qui è la ragione per la quale non sono in grado di aggiungere nulla a quanto scrive Saverio Morselli sul piano della ricostruzione storica di una fase del movimento per la pace a Reggio Emilia nella quale non ero presente. Tuttavia, le questioni che affronta nel manoscritto – raccontando i diversi passaggi dell’impegno politico pacifista in quel decennio cruciale, tra la corsa al riarmo nucleare in Europa negli anni ‘80 del Novecento, l’abbattimento del Muro di Berlino e la prima guerra del Golfo Persico – sono temi drammaticamente ancora sul tavolo dell’attualità. Per di più enormemente aggravati, tanto che ormai viene evocata senza ritegno la possibilità di una “terza guerra mondiale”. Temi rispetto ai quali l’approccio di Saverio e del Gruppo di lavoro per la pace era già allora ben orientato e lungimirante. Al punto che a quell’impegno possiamo e dobbiamo ancora attingere a piene mani per affrontare, qui ed ora, le gravi questioni all’ordine del giorno all’interno della crisi sistemica globale che stiamo attraversando. Rispetto alla quale l’impegno per la pace è il perno, la chiave di volta, per le ragioni che spiega l’autore di questo libro: “Pace non solo come situazione contraria alla guerra, ma anche come condizione per favorire la democrazia, la convivenza civile e la solidarietà tra i popoli e uno sviluppo politico, economico e sociale libero da pregiudiziali conflittualità. Per consentire una diversa distribuzione delle ingenti risorse che la guerra, o la preparazione della stessa, consumano. Pace per combattere fame e povertà. Insomma, pace come presupposto essenziale per ipotizzare una società diversa, un mondo diverso”. Pace – aggiungo io – come impegno centrale anche nell’estremo atto politico ed esistenziale, al quale Saverio ha messo mano prima di salutarci, consegnandoci questo prezioso lavoro di ricostruzione storica.
Ricorda Saverio che – fin dall’inizio – l’impegno del Gruppo di lavoro per la pace fu diretto a contrastare gli euromissili: “Alla fine del 1979 la Nato aveva deciso di dispiegare 572 missili nucleari a media gittata (Pershing e Cruise) in cinque paesi dell’Europa occidentale – ovvero Olanda, Gran Bretagna, Germania, Belgio e Italia”, in risposta agli SS20 sovietici dislocati nei paesi del blocco orientale. Per contrastare quella corsa agli armamenti si sviluppò, anche in Italia, una grande mobilitazione “in opposizione alla dislocazione dei missili a Comiso e, più in generale, all’adesione del nostro Paese al programma di riarmo nucleare”. Un movimento nazionale e internazionale per la pace – scrive sempre Saverio – in grado di promuovere iniziative di vario tipo, finalizzate alla informazione e alla sensibilizzazione su un tema che veniva giustamente ritenuto di estrema rilevanza nell’ambito dei già tesi rapporti tra i blocchi contrapposti ed esponeva direttamente il nostro Paese ad un ipotetico conflitto quale nazione ospitante armi di distruzione di massa.
La descrizione delle modalità con le quali il Gruppo reggiano affrontò questo tema – in città e contemporaneamente con una piccola delegazione a Comiso – la lasciamo alla lettura integrale del testo. Qui è opportuno ricordare che, con l’avvento del presidente Gorbaciov ai vertici dell’U.R.S.S., fu avviato un percorso di disarmo unilaterale – come chiedevano i movimenti pacifisti dell’Ovest e dell’Est – che con l’abbattimento del muro di Berlino portò ad una breve fase di distensione internazionale e ad una considerevole riduzione delle armi nucleari. Ma anche alla riduzione e poi alla rimozione della consapevolezza diffusa del comunque persistente pericolo atomico. Che oggi, in una fase di nuova corsa agli armamenti e di ritorno della guerra guerreggiata anche sul territorio europeo, torna a minacciare esplicitamente l’umanità più di quanto avveniva negli anni Ottanta (siamo ormai a soli “100 secondi” dalla mezzanotte nucleare, avverte il Bollettino degli scienziati atomici). Ed anche direttamente l’Italia, in particolare la pianura padana con decine di testate nucleari statunitensi dislocate tra le basi di Aviano e di Ghedi. Senza tuttavia che si manifesti un’adeguata, continuativa e paragonabile coscienza, con relativa mobilitazione pacifista per il disarmo.
E senza neanche un’adeguata sponda politica che invece, negli anni raccontati in questa ricostruzione di Saverio Morselli, era offerta – oltre che da liste Verdi, espressione diretta del movimento eco-pacifista – anche dal grande Partito Comunista Italiano. Non per caso, Saverio racconta di quando Enrico Berlinguer, in visita alla Festa nazionale dell’Unità di Reggio Emilia, il 18 settembre del 1983, si fermò allo stand del Gruppo di lavoro per la pace e firmò il referendum autogestito contro il dispiegamento dei missili nucleari a Comiso. Indimenticabile l’eccitazione di Stefano Avanzati, presente al banchetto in quel preciso momento: “Ho preso il voto di Berlinguer, ho preso il voto di Berlinguer”.Quel Berlinguer che, nel comizio conclusivo, avrebbe dato grande risalto alla lotta per la pace: “Al punto in cui sono giunte le cose è necessario che si esprima da ogni parte la più grande mobilitazione unitaria di massa, perché di fronte all’eventualità di un pericolo estremo si superino barriere ideologiche e steccati politici e tutti concorrano a scongiurare la corsa agli armamenti imponendo la rinuncia all’installazione di nuovi ordigni nucleari. (…) Non vogliamo i missili a Comiso. Rivolgiamo la sollecitazione pressante ad agire per la pace a tutti i lavoratori e alle masse popolari; alle forze democratiche di ogni ispirazione ideale, politica e religiosa. Nessuno può tenersi in disparte in questa battaglia. (…) Noi abbiamo scritto sulle nostre bandiere LA PACE PRIMA DI TUTTO e dovremo essere in prima fila perché il movimento per la pace e per il disarmo assuma il rigore, l’ampiezza e la continuità di cui oggi c’è bisogno”.
Del resto, era chiaro a Saverio ed al suo Gruppo di lavoro che, allora come oggi un tale scenario contribuiva non solo a prefigurare la possibilità di una catastrofica guerra nucleare in Europa, ma anche ad alimentare “una forsennata corsa al riarmo cosiddetto convenzionale, finanziato in modo drammaticamente crescente nei bilanci dei singoli Stati”: la crescita delle spese militari e lo sviluppo del commercio degli armamenti, da allora mai più arrestati, il loro essere realmente funzionali alla difesa del Paese oppure all’aumento dei profitti dell’industria bellica, è al centro dell’impegno del Gruppo anche sul piano della ricerca oltre che della divulgazione e delle lotta. Con la messa sotto osservazione di quel totem intangibile che era ed è il “complesso militare industriale”, per usare la definizione che ne aveva già dato il presidente Dwight David Eisenhower, che lasciando la presidenza USA nel 1961, aveva messo in guardia sul pericolo che rappresentava per la democrazia e sempre più avrebbe rappresentato in futuro (da ex comandante delle forze armate in Europa durante la seconda guerra mondiale, sapeva di che cosa stava parlando). E con il focus centrato sul disarmo, ossia sulla necessaria riconversione sociale delle spese militari e civile dell’industria bellica. Mettendo, in questo modo, apertamente in discussione “l’idea condivisa in base alla quale una tale materia dovesse essere del tutto delegata alla politica, non passibile di critica. Ovvero, come se l’appartenenza dell’Italia al blocco occidentale e quanto il nostro Paese spendesse in armamenti in forza di tale appartenenza fossero un inevitabile e sacrosanto prezzo da pagare per garantire la nostra sicurezza”. Parole che risuonano oggi più familiari che mai, visto che il Parlamento ha recentemente deliberato, quasi all’unanimità, di portare la spesa militare italiana al 2% del PIL – con un aumento netto di 15 miliardi in più all’anno, sottratti agli investimenti sociali – su precisa indicazione della NATO.
Nella visione di Saverio è chiaro che affrontare questi temi non può essere occasione di impegno estemporaneo e reattivo. Per avere una qualche efficacia, l’impegno deve svolgersi in modalità continuativa e pro-attiva. Per questo il Gruppo di lavoro per la pace si pone il tema della ricerca, della documentazione, dell’informazione e della comunicazione. “Sul piano della ricerca e della documentazione – scrive Saverio – “significava tenere monitorata la stampa nazionale, soprattutto quella meno legata ai grandi gruppi editoriali, privilegiare quella specialistica come il sistema informativo a schede dell’Archivio Disarmo e lo Year Bookdell’Istituto Internazionale di Stoccolma per le Ricerche sulla Pace (SIPRI ). Fu un lavoro impegnativo che ci portò ad analizzare il Bilancio della Difesa italiano per l’anno 1983. Cosa non esattamente semplice, se si pensa che molti capitoli di spesa aggregavano voci diverse e spesso non comprensibilmente ripartite”.
Oggi, esattamente per rispondere a questa lucida esigenza, il movimento per la pace e il disarmo è stato finalmente in grado di mettere in piedi un efficace Osservatorio nazionale sulla spese militare italiana (Milex.org) che fornisce dati e analisi aggiornati. Ma nel 1983, quando inizia la ricerca reggiana, non c’era niente del genere. Né c’era una legge – sarebbe arrivata solo nel 1990, la 185, dietro la spinta dell’impegno pacifista dell’epoca – che regolamentasse il commercio degli armamenti, che era anzi coperto dal segreto militare e non accessibile neanche ai parlamentari. Per cui si trattava di lavorare, in maniera pionieristica, direttamente sul reperimento e l’analisi di dati grezzi e di non facile decodifica, soprattutto per chi lo faceva non per mestiere ma per attivismo ideale e volontario.
Gli esiti del lavoro di ricerca e documentazione andavano poi raccontati attraverso un accurato impegno di informazione e comunicazione, che non poteva contare sulle attuali risorse del digitale ma doveva svolgersi in maniera integralmente analogica e “fai da te”. L’esigenza è chiara: “Questa si configurava come materia di cui l’opinione pubblica veniva da sempre tenuta all’oscuro – spiega Saverio – e ciò diede ulteriore impulso alla nostra voglia di fare. Il terreno su cui misurare questa voglia si poteva chiamare in un solo modo, anche se un po’ abusato: controinformazione”. Anche se, in verità, più che di “controinformazione” possiamo parlare di un impegno per l’“informazione” tout court, dato che andava a colmare un vero e proprio vuoto informativo. Supportando la mancanza di mezzi con modalità creative, sempre accuratamente preparate: “Di mezzi non ne avevamo, non parliamo poi di soldi. Si doveva quindi fare con ciò che era alla portata di un gruppo di giovani animati da entusiasmo, di voglia di fare. Ovvero per prima cosa manifestare, declinato in senso letterale: esporre su manifesti i contenuti da portare all’attenzione dell’opinione pubblica locale, dando a questi contenuti un significato comprensibile, sul quale poter riflettere”.
A cominciare dalla comparazione tra la spesa pubblica militare per preparare la guerra, ripudiata dalla Costituzione, ed i mancati investimenti per i diritti sociali e civili, garantiti dalla Costituzione stessa: sanità, edilizia pubblica, assistenza, educazione, sviluppo sociale ed ecologico. Un lavoro impegnativo e coinvolgente che dai primi cartelli informativi nel tempo evolverà, facendo un salto di qualità – sia per la creatività delle forme che per la centralità dell’impegno – con l’avvio dell’esperienza del Cendip, come Centro di ricerca e documentazione, e con la pubblicazione della rivista “Segnali di pace”, come strumento di informazione e comunicazione. Si trattava – ancora una volta – di porsi ed affrontare il tema essenziale, allora come oggi, ma troppo spesso eluso, che Saverio identifica con grande lucidità: “Uscire dalla sporadicità, dalla occasionalità dovuta magari a momenti di grande tensione politica ed emotiva che finiscono inevitabilmente per lasciare un successivo, preoccupante vuoto di idee. Il problema che abbiamo individuato è stato quello di garantire continuità, utilità e interesse alle riflessioni e alle progettualità che da più parti emergono”.
Misurandosi, inoltre, con il ritorno – anche per il nostro Paese – della guerra come “continuazione della politica con altri mezzi” (Carl von Clauzewitz) attraverso la partecipazione dell’Italia alla prima guerra del Golfo nel 1991, al seguito degli Stati Uniti. E con l’apertura di una gravissima lacerazione costituzionale e culturale, che non sarebbe mai più stata sanata, ma anzi aggravata da ulteriori strappi con partecipazioni a nuove guerre nei successivi 30 anni. Una lacerazione che necessitava – e necessita sempre di più – di un impegno che si misura sui tempi della storia, anziché della cronaca. “Ci rendemmo conto davvero” – scrive ad un certo punto Saverio – “che il nostro impegno non poteva essere finalizzato semplicemente ad ottenere risultati immediati, per altro assai improbabili, su singoli obbiettivi, ma avrebbe dovuto individuare come prioritario l’obbiettivo del cambiamento delle coscienze, un cambiamento culturale prima ancora che politico. Ovvero smontare l’antico ed insopportabile paradigma del se vuoi la pace prepara la guerra, così impresso nell’immaginario collettivo, e sostituirlo con il più rigoroso e sensato se vuoi la pace prepara la pace”.
Ma per fare questo, l’impegno per la pace deve diventare l’asse fondamentale dell’impegno politico, culturale e perfino esistenziale di ciascuno e di tutti. Come è stato per Saverio, dall’inizio alla fine: “L’impegno per la pace non poteva essere considerato qualcosa di occasionale e fugace, destinato a scemare in breve tempo, ma un ambito dove indirizzare con continuità e convinzione il nostro tempo, le nostre energie intellettuali e fisiche”. Una lezione da prendere ad esempio, per continuare il suo impegno. Lo dobbiamo a Saverio, lo dobbiamo a noi stessi e – soprattutto – al futuro dei nostri figli.