Il conflitto, qualunque conflitto, è sempre un fenomeno sociale. Non si confligge mai da soli. Infatti anche quando ci sentiamo tormentati dentro la nostra sfera interiore, lo siamo in conseguenza alle nostre relazioni.
Da genitori, da insegnanti, educatori, o anche da semplici persone, poniamo attenzione ai conflitti tra i nostri figli, alunni, persone care. Lo facciamo perché si arrivi a un chiarimento, ma anche per evitare che prevalga l’escalation, fino ad arrivare all’aggressione fisica.
Talvolta si rischia di cadere nella trappola: vediamo solo il pugno sferrato e possiamo velocemente affermare che è lui l’aggressore e chi l’ha preso la vittima. E di certo in quel momento son tali. Ma l’esperienza ci insegna che non è così semplice: dietro a ogni gesto violento c’è altra violenza. Per questo ricerchiamo la verità, attraverso le testimonianze dei protagonisti e, spesso, troviamo che chi ha dato il pugno è stato magari irriso o bullizzato, tanto per esemplificare. Il compito degli educatori non potrà essere quello di sanzionare uno, piuttosto che l’altro dei due contendenti, bensì quello di coinvolgerli in un dialogo che porti possibilmente ad una riconciliazione e ad un apprendimento costruttivo. I temi evocati dal conflitto fra i ragazzi possono diventare infatti, grazie all’ascolto non giudicante e alla mediazione dell’adulto, un’occasione preziosa per crescere ed imparare a relazionarsi in modo più soddisfacente e pacifico. Naturalmente non sempre accade così: la scuola può spesso anche contribuire al perpetuarsi di un sistema violento e non sempre tutti i genitori hanno la pazienza e la cultura pedagogica per andare fino in fondo nei conflitti in famiglia. Tuttavia la nostra cultura è ampiamente pervasa dai principi di mediazione, riconciliazione, inclusione, che convivono forzatamente con quelli punitivi ed esclusivi, in un equilibrio dinamico, che pure ci assicura alcune garanzie.
Quel che mi domando e voglio domandare è perché questo approccio “educativo” al conflitto ed alla sua risoluzione, non viene neppure preso in considerazione quando dal livello micro si passa al macro, ovvero dagli individui si passa ai popoli e agli Stati.
Restando alla tragica attualità, perché si parla solo dell’aggressore russo e non si cerca, nelle dinamiche preesistenti, una completa chiarificazione del conflitto? Forse chi ha scagliato il pugno potrebbe essere stato colpito o minacciato in precedenza, secondo una logica consequenziale del conflitto: è quello che andremmo ad accertare, come educatori, per ricercare la pacificazione e possibilmente la soluzione del conflitto stesso. Troveremmo allora gli accordi di Minsk, disattesi dalle parti e mai seriamente controllati, l’allargamento della NATO, otto anni di guerra nel Donbass.
Ma così non pare funzionare a livello internazionale. L’Europa sanziona, ubbidendo agli Stati Uniti e alla NATO, nella quale è ingabbiata, sapendo che sanzionare significa punire, quindi imporre un’azione coercitiva e potenzialmente violenta.
Le sanzioni sono la punizione per il ragazzo che ha dato il pugno, senza considerare quello che lo prendeva in giro. Fornire armi all’Ucraina è, più o meno, come pagare la palestra di boxe alla vittima del pugno, perché la prossima volta glielo restituisca. Azione assai impropria per un educatore. Ma evidentemente no per uno statista.
Risulta evidente la discrepanza con la quale vengono affrontate le tensioni nel mondo: nel piccolo si possono fare grandi crescite, ma quando si arriva al livello globale, qualcosa cambia: ci sono i grandi centri di potere, le multinazionali delle armi e dell’energia, quelle quasi invisibili delle comunicazioni, con il cavallo di troia di internet. E poi gli Stati, ciascuno con i propri eserciti, foraggiati dalla tecnologia di sistemi d’arma sempre più sofisticati, crudeli, vigliacchi, come i droni-killer e le armi autonome. Quando un conflitto trascurato degenera in guerra, diventa molto più difficile fermare il meccanismo che è entrato in gioco, che tende di per sé ad autoalimentarsi.
Possiamo chiederci allora dove siano gli educatori internazionali: i diplomatici, i mediatori? Non c’è più spazio per loro? E quale forma di scissione schizoide pervade le società europee, portatrici di diritti, tutele, attenzioni al proprio interno, ma incapaci di applicare la stessa logica nei rapporti internazionali? Come è possibile ripudiare la guerra e, al contempo, armarla?
Solo l’Europa potrebbe esprimere mediatori all’altezza della situazione, ma non riesce a farlo, in quanto ha già preso parte, in favore dell’Ucraina ed ha perso la sua ipotetica imparzialità. Così, per quanto la società civile eserciti la sua pressione in favore della pace, i governi semplicemente la ignorano. Anzi, sempre più spesso, anche nelle repubbliche democratiche, mostrano fastidio e insofferenza per tutte le forme di dissenso. Mentre le armate si dispiegano sul terreno, ci vengono propinate le informazioni di guerra e, pian piano, viene instillata nella popolazione una cultura di guerra: così non è più solo il governo di Putin ad essere indicato come il nemico, ma tutti i russi come popolo, escludendoli dai contesti internazionali, anche culturali e sportivi.
La guerra, oltre che a morte e distruzione, porta all’assassinio della verità, all’arretramento della cultura, alla lacerazione dei tessuti educativi. La brutalità e il cinismo diventano virtù eroiche. Le perplessità e i ragionamenti vengono trasformati in disfattismo e tradimento.
Ma è proprio qui che l’esercito disarmato e nonviolento della società civile può ancora influire: riaffermare la cultura di pace, disarmare la cultura di guerra. Su questo terreno sarà possibile, in questi tempi difficili, giocare le carte della nonviolenza.
Carlo Bellisai