Chi scrive, cerca il suono giusto. La voce di ogni carattere; quella vera, che il lettore riconosce subito come l’unica possibile, se si è bravi a trovarla. Qui ci sono più di venti personaggi che raccontano, in prima persona, una storia che è di ognuno di loro, ma che allude a qualcosa in più, all’anima buia del paese, che ha anche lui un suo tono, amaro e profondo. E ognuno di questi ha un suo ritmo inconfondibile all’interno di una lingua che è comune, che nasce dalla terra, dalle pietre della montagna su cui, arroccato, si è costruito il villaggio. Sembra un’orchestra, con ogni strumento che suona un assolo su una melodia di fondo, a turno. Una musica scura, nera, ipnotica.
Questo libro sa di caffè. Tutti gli amanti di questa bevanda,i puristi almeno, lo prendono non zuccherato. Così, dicono, si percepisce meglio l’aroma, il sapore, che è amaro e qui risiede il suo fascino. Qui succede lo stesso: nel microcosmo del paesello di montagna di ‘Le Case’ si nascondono segreti, tradimenti, gelosie, invidie, scontri, conflitti, sparizioni, paure, dolori. E una struggente spinta ad andare avanti, contro tutto e tutti, perché la vita, anche la più malata, va portata avanti, con tenacia, costanza, anche a costo di ferire gli altri. Questo è il segno delle nostre esistenze disgregate, deboli, falciate dal tempo che avanza e non perdona. Mai. Dentro questo piccolo mondo, c’è l’universo delle nostre realtà, con il grigio che le corrode, giorno dopo giorno. Ma non è un racconto senza speranza. Perché nella tenacia, nella cocciuta volontà di resistere, di sconfiggere un destino bastardo, c’è una forza che riesce ad addolcire, a mostrare una traccia.
È la forza di un fiore che nasce in una terra spaccata dal gelo e dalla roccia, di un abbraccio o di uno sguardo che apre il cuore, di un amore che sembra poter sconfiggere l’odio. Ma sono segnali, piccoli bagliori, illuminazioni che segnano un buio, un nero che, piano piano, allunga la sua ombra e ricaccia dentro la sua oscurità. Non è un libro consolante, perché parla di come possiamo diventare se non troviamo un modo diverso di stare vicini. Se non smettiamo di lasciarci macerare dalle gelosie, dalle chiusure, dalle ottusità, dalle abitudini.
Sacha Naspini ci conduce per mano in questo labirinto asfittico, claustrofobico, in una giravolta tra realtà e mistero, tra terra e sogno. Ogni cosa è se stessa, ma è anche altro, come un riflesso in uno specchio scheggiato e rovinato. È un libro denso, profondo, che offre spunti, pone domande, stimola riflessioni. Aiuta a crescere perché mostra la parte oscura e tragica dell’esistenza. Anzi, te la fa toccare, sentire, vedere, incontrare. La parola diventa densa e corposa perché ogni termine ha anche qualcosa in più di quello che significa. Una scrittura magnetica, rotonda, con un linguaggio che oscilla tra il parlato e il lessico aulico delle penne sicure.
Quando ho finito di leggerlo, mi è rimasto dentro, come solo le grandi storie sanno fare. Ho continuato a sentire il Maso, il barista salutare a denti stretti nel locale; a vedere il Tempesti cercare un filo nella sua vita dentro l’enigma di una scacchiera; a immaginare le bellezze ormai sfiorite della vedova Isastia, a sentire il fiato corto dei Fioriani, il respiro rauco di Adelaide Francini, il sudore caldo della Mariella. Solo per citarne alcuni. Ma già mi arrivano alla mente la nana, i gemelli Serraglini, Giovanna la cicciona con la sua ‘cagnolina’, Don Lauro e le sue paure. E Samuele con Eleonora: una favola nera come il corvo. Insomma: grande lavoro. Con una chiave finale sorprendente e originale. Davvero. Da non farsi scappare.