Consiglio di lettura n. 63
Villa del Seminario di Sacha Naspini
EDIZIONI E/O
pp. 199
Ogni lettore ha i suoi scrittori preferiti, quelle penne che, per un motivo o per un altro, hanno la capacità di farlo emozionare, di spingerlo a farsi domande, di lasciarlo diverso rispetto a quando hanno iniziato a sfogliare il libro. Ci sono motivi diversi, che spesso hanno a che fare con vissuti personali, ma se una persona diventa un lettore forte, è innegabile riuscire a riscontrare in queste voci narrative delle caratteristiche letterarie oggettivamente di qualità. Per me uno di questi autori è Sacha Naspini, i cui lavori sono stati spesso da me consigliati su questa rubrica. Il motivo principale sta nel suono dei suoi libri: ogni storia ha un suo ritmo, una musicalità del linguaggio unica e riconoscibile, pur variando nei toni e negli accenti, adattandosi come un guanto al carattere e alla personalità dei personaggi raccontati. Segno, questo, evudente di tslento e qualità.
La sua traiettoria di scrittore, fino a oggi, si è mossa su due direttive principali: quella di una narrativa territoriale, maremmana, date le origini di Naspini, e un’altra, più contemporanea, attuale.
Della prima fanno parte, sempre per i tipi e/o, Le Case del Malcontento, Nives, I Cariolanti, Le Nostre assenze e quest’ultimo lavoro, uscito a Gennaio del 2023.
In questa produzione variegata un elemento distintivo e comune risiede in una scrittura che sa di terra, che è essa stessa materia ed espressione di compattezza, di forza dolorosa, com’è tipico di un territorio aspro e duro, come quello delle zone maremmane. Nell’ultimo libro, però, Naspini fa un ulteriore passo in avanti, mantenendo queste caratteristiche, però riuscendo, nel contempo, a lavorare di fino, di cesello, e a rendere il linguaggio più delicato, più leggero.
Nella parabola esistenziale di René, il ciabattino remissivo e distaccato che cerca di stare sempre lontano dai guai, per finire poi coinvolto nel tentativo di lotta partigiana contro la Villa del Seminario, luogo realmente esistito, dove venivano rinchiusi gli ebrei toscani prima di essere spediti nei campi di concentramento furi confine, si avverte una maturazione che è anche nel modo di esprimersi. All’inizio René è dentro un paese rancoroso, chiuso, che maschera per ironia una visione aggressiva e invidiosa dell’esistenza e il suo linguaggio esprime questa asperità. Con lo svilupparsi della storia, anche queste nebbie di rabbia repressa si diradano e René raggiunge una chiarezza emotiva e di pensiero che diventa a ogni pagina sempre più netta, in un progressivo disvelamento delle ragioni profonde del suo sentirsi distante dall’ideologia nazi fascista e di conseguenza capace di trovare il coraggio per dichiararsi al suo unico amore, sempre sentito, ma mai comunicato.
E le parole diventano meno aspre: riflettono l’evoluzione del protagonista, per scivolare da una durezza di stampo Fenogliano a una compostezza che rimanda a Calvino, ma ancor di più a Tabucchi, con René che somiglia a Pereira e come lui, dopo tanta fatica, trova la forza di reagire.
Questo è un libro che parla di coraggio, non quello immediato dei valorosi, ma di quello trovato dopo tentennamenti, paure, perplessità ma che, proprio per questo, diventa ancora più saldo e impressionante.
Ma è anche un libro coraggioso e necessario: in un periodo in cui il Presidente del Senato cerca di mistificare la realtà storica, scambiando le identità di un reparto speciale di SS con quelle di un coro musicale di pensionati o il sindaco di Grosseto vuole intitolare una via a Giorgio Almirante dopo aver dedicato una piazza allo stesso vescovo che firmò l’atto di affitto della villa di cui si parla nel romanzo al podestà fascista, scrivere un libro così è importante, perché la memoria va coltivata giorno dopo giorno, nelle storie quotidiane, per non diventare solo retorica, propaganda e rischiare di essere infangata.
Libro prezioso, come valore narrativo, ma anche storico e sociale.
Da non perdere.
Buona lettura!