Dopo 25 anni di interventi militari italiani, la nonviolenza ancora è in cammino
Finalmente il penultimo giorno dell’anno scorso è stato pubblicato il bando per i progetti di Servizio civile per la sperimentazione dei Corpi civili di pace. Sono passati oltre due anni da quando, in una notte del dicembre 2013, Giulio Marcon – deputato indipendente di SEL e coordinatore dell’Intergruppo dei parlamentari per la pace – fece approvare un emendamento alla legge di stabilità per la “sperimentazione della presenza di 500 giovani volontari da impegnare in azioni di pace nelle aree di conflitto o a rischio di conflitto”. Il bando emanato presenta certo diverse criticità – evidenziate sia dalla CNESC (Conferenza nazionale degli enti di servizio civile) che dal Tavolo interventi civili di pace – ma rappresenta un fatto di notevole rilievo nella storia del nostro Paese. Si tratta del primo vero tentativo di realizzazione integrale – seppur sperimentale e relativo al solo servizio civile – di un principio fondamentale della Costituzione italiana, il ripudio della guerra come “mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Ed è un punto di arrivo – seppur parziale – di almeno due importanti percorsi nella storia della nonviolenza italiana: l’obiezione di coscienza al servizio militare che ha portato al servizio civile e gli interventi civili di pace che hanno portato i corpi civili di pace.
Costituzione, guerra e controversie
I Costituenti – usciti dall’immane tragedia della seconda guerra mondiale – non erano ingenui irenisti, sapevano perfettamente che i conflitti internazionali non possono essere aboliti per legge, per cui compirono una lungimirante operazione culturale e politica: separarono, con chirurgica chiarezza lessicale, il concetto di “guerra” da quello di “controversie”. La prima, la guerra, è da ripudiare – ossia letteralmente da rigettare con sdegno – le seconde, le controversie, sono da affrontare e risolvere con “mezzi” differenti dalla guerra. Alla portata implicita di questa rivoluzione – che avrebbe dovuto dar fondamento, fin da allora, alla costituzione di mezzi alternativi alla guerra – non fu dato alcun seguito politico e normativo, anzi il ripudio della guerra è stato aggirato fin da subito dai governi repubblicani con la continua, dispendiosa e crescente preparazione bellica. Fino alla partecipazione diretta del nostro Paese – da 25 anni a questa parte – in molte “controversie internazionali” con lo strumento militare, ossia proprio con il “mezzo” ripudiato dalla Costituzione.
La storia siamo noi (Pietro Pinna e Aldo Capitini, per esempio)
Ma, come canta De Gregori, la storia siamo noi. Ossia quegli inneschi di cambiamento civile che faticano ad avvenire dall’alto, partono spesso dal basso. Accadeva, infatti, che nello stesso anno di entrata in vigore della Costituzione un giovane ferrarese, Pietro Pinna, decideva di ripudiare personalmente la guerra, rifiutando, in nome della propria coscienza, di svolgere il servizio militare obbligatorio, cioè di sottostare alla sua preparazione. Pinna non è stato il primo obiettore di coscienza italiano, ma il suo caso pose, per la prima volta in Italia, la questione in termini politici. Anche grazie al supporto di Aldo Capitini che ne sostenne la scelta e contribuì a divulgarne gli obiettivi. Sulla scia del caso di Pinna – tra le altre cose – nel 1950 Capitini organizzò il primo convegno italiano sull’obiezione di coscienza, nel quale propose “l’istituzione di un servizio civile, di altrettanto sacrificio che stia a fianco del servizio militare (finché durerà), in modo che i giovani possano scegliere” e “l’istituzione di un Ministero o Commissariato per la resistenza alla guerra. Esso dovrebbe addestrare tutti i cittadini, fin da fanciulli, alla non collaborazione nonviolenta con un eventuale invasore”. Infatti, si domandava Capitini “una non collaborazione attivissima di moltitudini non è una terza via, oltre la guerra e il cedere? L’Italia” – aggiungeva – “deve dare l’esempio a sé, all’Europa, e agli altri nel mondo, di modi diversi nell’affermare la civiltà.” Capitini indicava così quali avrebbero dovuto essere le conseguenze politiche del ripudio costituzionale della guerra.
Dall’obiezione di coscienza al servizio civile nazionale
Invece si dovette aspettare oltre ventanni, fino al 1972, altri processi (tra i quali Giuseppe Gozzini e Lorenzo Milani), e il passaggio di centinaia di obiettori di coscienza nelle carceri militari per avere la prima legge che concedeva, in certi casi – per particolari motivazioni religiose o filosofiche – la possibilità di svolgere il “servizio civile sostitutivo”. Un servizio civile punitivo nella durata e nell’organizzazione affidata al Ministero della Difesa. Fu una sentenza della Corte costituzionale (n. 164/1985) che – ripartendo sia dal ripudio della guerra (art. 11 Cost) che dal “sacro dovere” di divesa della patria (art 52 Cost) – riconobbe la difesa della patria come concetto superiore alla difesa militare, che ne è solo una modalità, ed il servizio civile non come deroga ma come altra modalità. Questione ribadita nelle succesive leggi per il Servizio Civile Nazionale (non più sostitutivo, con l’abolizione della leva obbligatoria) e in diverse sentenze, fino a quella della scorsa estate (n.119/2015) la quale riafferma ancora una volta che “accanto alla difesa militare, che è solo una delle forme di difesa della Patria, può dunque ben collocarsi un’altra forma di difesa, che si traduce nella prestazione di servizi rientranti nella solidarietà e nella cooperazione a livello nazionale ed internazionale”
Le guerre e gli interventi civili di pace
Mentre si svolgeva la storia dell’obiezione di coscienza e del servizio civile, che ha allargato e rifondato lo stesso concetto di patria – non più solo i confini geografici ma i diritti costituzionali dei cittadini – e delle relative minacce – non più solo militari, ma anche ai diritti ed alle istituzioni democratiche – e quindi ampliato l’ambito della difesa, le organizzazioni nonviolente della società civile hanno fatto un ulteriore passo in avanti, sperimentando direttamente interventi civili di pace in scenari di conflitti internazionali. Quella dell’intervento nonviolento nei conflitti armati è una lunga storia che affonda le radici, direttamente o indirettamente, nell’esperienza gandhiana degli Shanti Sena. E nelle esperienze in molta parte del mondo e nei modelli teorici che da quelli sono derivati. Le prime sperimentazioni italiane si svolgono con i Volontari di Pace in Medio Oriente, durante la prima “guerra del Golfo” (appunto 25 anni fa), con la carovana di Mir Sada durante l’occupazione di Sarajevo, e poi l’ambasciata di pace a Pristina (ricordiamo l’impegno, tra gli altri, di Alberto L’Abate e Tonino Bello). Mentre i governi chiamano “missioni di pace” gli interventi di guerra, le esperienze italiane di intervento di pace nonviolento dal basso si moltiplicano e si diversificano. Fino a vedere anche una piccola sperimentazione pilota nell’ambito dello stesso servizio civile, con i “caschi bianchi” dell’Operazione Colomba dell’Associazione Papa Giovanni XXIII di Rimini, in un progetto sulle vendette di sangue in Albania. Oggi il Tavolo Interventi Civili di Pace svolge un fondamentale ruolo di raccordo della società civile italiana che interviene, in maniera disarmata, in zone di conflitto.
Il sogno di Alex Langer: un corpo civile di pace europeo
A partire dalle esperienze italiane e internazionali, Alex Langer, nel 1995, elaborò il documento “Per la creazione di un corpo civile di pace europeo” che poneva la necessità di non lasciare al solo generoso volontariato l’onere della costruzione delle alternative alla guerra. Nel pieno della crisi Jugoslava, Langer immagina una vera e propria forza disarmata, costituita “dall’Unione Europea sotto gli auspici dell’ONU”, inizialmente composta da almeno un migliaio di persone, tra professionisti e volontari, tutti perfettamente formati ed equipaggiati per intervenire nei conflitti internazionali prima dell’esplosione della violenza e capaci di rimanervi efficacemente anche durante la fase acuta. Il corpo di pace, scrive tra l’altro Langer “agirà portando messaggi da una comunità all’altra. Faciliterà il dialogo all’interno della comunità al fine di far diminuire la densità della disputa. Proverà a rimuovere l’incomprensione, a promuovere i contatti nella locale società civile. Negozierà con le autorità locali e le personalità di spicco. Faciliterà il ritorno dei rifugiati, cercherà di evitare con il dialogo la distruzione delle case, il saccheggio e la persecuzione delle persone. Promuoverà l’educazione e la comunicazione tra le comunità. Combatterà contro i pregiudizi e l’odio. Incoraggerà il mutuo rispetto fra gli individui. Cercherà di restaurare la cultura dell’ascolto reciproco. E la cosa più importante: sfrutterà al massimo le capacità di coloro che nella comunità non sono implicati nel conflitto (gli anziani, le donne, i bambini)”
Dalla sperimentazione alla strategia: un’altra difesa è possibile
Oggi, il bando per i Corpi civili di pace all’interno dei progetti di Servizio civile è quindi il punto d’incontro e di sintesi dei più importanti percorsi storici nonviolenti del nostro Paese, che hanno incarnato il ripudio della guerra e ne hanno costruito le alternative, sia per la difesa della patria che per gli interventi nelle controversie internazionali. Tuttavia, questa nuova pagina che si apre è solo una sperimentazione e riguarda solo i giovani in servizio civile. Perché diventi strutturale – oltre il servizio civile – definitiva e fornisca, almeno, pari dignità ai due modelli di difesa del nostro Paese e una strategia politica all’articolo 11 della Costituzione italiana è necessario che al più presto sia calendarizzata e approvata la proposta di legge per la difesa civile, non armata e nonviolenta, promossa dalla Campagna Un’altra difesa è possibile. Dopo 25 anni di interventi militari italiani, la nonviolenza è ancora in cammino.