Ero a Napoli con Salvatore Pirozzi, allora uno dei maestri di strada del Progetto Chance (scuola di seconda opportunità per chi aveva abbandonato gli studi prima della licenza media), e lo ascoltavo in serrate conversazioni telefoniche con altri operatori del territorio per sostenere i diritti di Antonio. Era uno dei suoi ragazzi, il pezzo di carta in tasca orami ce l’aveva, e Salvatore faceva appello alla rete per avviarlo al lavoro.
“Vedi, è molto importante per noi che intanto il primo contratto sia in regola”, mi diceva, e io provavo a immaginare quanto questo potesse significare per non consegnare questi giovani con un percorso scolastico già accidentato allo sfruttamento, che è una forma appena meno crudele di illegalità rispetto alla manovalanza nello spaccio e peggio. Il suo sforzo era un modo per tenerli nell’alveo dei diritti praticati, perché così possano continuare anche dopo quella prima occupazione, e in ogni caso era la premessa concreta affinché quei ragazzi scoprissero pensabile una vita alla luce del sole.
Ci ripenso mentre leggo che secondo l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite il lavoro minorile deve essere debellato entro il 2025, e il 2021 doveva proprio essere l’anno della sua eliminazione. Se ne è parlato il 12 giugno, Giornata dedicata, per verificare che siamo mancati all’appuntamento.
A quanto pare i dati sono stati incoraggianti fino a qualche anno fa, ma dal 2016 (ben prima della pandemia… che ha peggiorato ulteriormente il quadro) la percentuale di minorenni sfruttati nel lavoro non ha fatto che aumentare. Il rapporto cofirmato da Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) e Unicef parla di 8,4 milioni di lavoratori minorenni in più in quattro anni, di cui oltre la metà tra i 5 e gli 11 anni. Il dato sembra destinato a crescere nei prossimi due anni con – si stima – lo sfruttamento di altri 50 milioni di bambini, nonostante la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza sancisca il diritto del fanciullo a essere protetto contro lo sfruttamento economico e di non essere costretto ad alcun lavoro che comporti rischi, o sia suscettibile di porre a repentaglio la sua educazione, o di nuocere alla sua salute o al suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale o sociale (art. 32).
Il tema vero sono le disuguaglianze, tra gli Stati e entro gli Stati. Si ha dunque la percezione di uno sviluppo su due piani: da un lato il diritto internazionale, che certo ci importa, e dall’altro l’allargarsi delle distanze tra ricchi ricchissimi e poveri poverissimi.
Il primo prosegue la sua evoluzione virtuosa. L’ultima notizia è del maggio scorso, quando a Durban (Sudafrica), dal 15 al 20 maggio, si è tenuta la V Conferenza mondiale sull’eliminazione del lavoro minorile con la presenza di oltre 1.000 delegati di governi, organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, agenzie delle Nazioni Unite, società civile, organizzazioni regionali e – per la prima volta – rappresentanti dei lavoratori bambini. A loro si sono aggiunti altri 7.000 partecipanti da remoto. La Conferenza si è conclusa con un Appello all’azione che prevede impegni per la dignità del lavoro, la fine del lavoro minorile e specialmente delle forme peggiori di schiavitù, politiche e programmi di prevenzione basati sull’esperienza dei sopravvissuti, accesso universale all’istruzione e alla protezione, incremento della cooperazione internazionale.
Poi c’è la realtà con le sue asprezze. Immaginare che il fenomeno tocchi solo gli altri – paesi africani, asiatici… – è illusorio. Nel nostro paese l’età di accesso al lavoro è fissata ai 16 anni con contratti di apprendistato, eppure si stima che abbiamo un tasso di lavoro minorile triplo della media europea. “Game Over”, una ricerca italiana di Save the Children e Fondazione Trentin (ora Fondazione Di Vittorio) datata 2013, parla di 340mila minorenni di 7-15 anni sfruttati nel lavoro, circa il 7% del totale. “Tra questi”, riporta Save the Children, “circa 28mila 14-15enni erano coinvolti in lavori pericolosi per la loro salute, sicurezza o integrità morale, lavorando di notte o in modo continuativo, con il rischio reale di compromettere gli studi, non avere neanche un piccolo spazio per il divertimento o mancare del riposo necessario – una condizione che si ripercuote negativamente sulle loro prospettive formative, professionali e sociali. Il lavoro minorile è spesso causa o effetto del fenomeno della dispersione scolastica”, connesso sia agli abbandoni precoci, sia alla presenza di un vasto numero di ragazzi e ragazze NEET, vale a dire fuori da percorsi di lavoro, studio e formazione tra i 15 e i 29 anni. Secondo “Game Over” il rischio di essere sfruttati nel lavoro, per i bambini italiani, è più alto a Napoli e in Sicilia, o in alcune province della Puglia, Sardegna, Calabria. Basso, molto basso o medio è invece il rischio nelle province del Centro-Nord. Eppure una ricerca della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, pubblicata nel 2021 su dati 2020, stima che il 10,7% degli occupati in età 16-64 anni abbia iniziato a lavorare prima dei 16 anni (sono 2,4 milioni di persone), con una percentuale più alta nel Nord Italia, soprattutto in campagna o nelle aziende familiari.
A fronte di tutto questo, i controlli sono risibili. Nel 2019 l’Ispettorato del Lavoro ha accertato solo 243 casi di occupazione irregolare e illecita di minorenni sotto i 16 anni, 127 nel 2020 (anno Covid). Numeri senza dubbio sottostimati, per l’insufficienza delle politiche di contrasto. Neppure alla comprensione del fenomeno arriviamo. Che si debba citare una ricerca del 2013, a quasi dieci anni di distanza, è significativo di quanto poco ci si applichi per monitorare il lavoro minorile, premessa necessaria per debellarlo.
Da anni il Gruppo CRC Italia, che verifica l’applicazione della Convenzione di New York, chiede al Governo e all’Istat di avviare un lavoro di ricerca affidabile e di mantenerlo nel tempo, ma rimane inascoltato. Sembra proprio che il nostro paese sia allergico ai dati, specialmente quando si tratta di registrare i diritti violati delle persone più deboli.