Daniele Lugli, dopo gli anni del GAN – ma già durante quegli anni – è stato sempre impegnato in politica, per molto tempo nei partiti cui ha aderito e, sempre, nel sociale. Infinite volte è stato in manifestazioni grandi e piccole. Nella lunga intervista raccolta da Elena Buccoliero il 15 febbraio 2020, sull’esperienza del Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza, la conversazione si allarga a indicazioni sulle manifestazioni nonviolente che tengono conto dei processi decisionali, dei rapporti di potere all’interno dei gruppi o delle associazioni, e di come costruire un messaggio da rivolgere ad altri.
Dopo il Gruppo di Azione Nonviolenta a cui hai partecipato, di manifestazioni ne hai viste e vissute tante. Rispetto al metodo, alle forme di organizzazione, che cosa ti convince e che cosa, invece, potrebbe essere pensato diversamente?
Mah, io ho apprezzato le Sardine nel 2019. Come dire? Il loro modo di organizzarsi, la loro capacità di usare i media, mi sono del tutto estranei per cui, non so suggerire nulla. Mi piace l’idea, questo sì, di un comportamento in cui si evitano le aggressioni verbali o verso le cose. Sento che questa è una cosa pulita, che va bene.
Non mi va, per niente, l’idea che una manifestazione debba essere un momento in cui tu ti manifesti. Ti esprimi tu. Manifestare vuol dire rendere manifesto agli altri quello che per te è chiaro. E quindi, c’è prima un processo di chiarimento con te, e con chi manifesta con te. E poi questo lo si rende esplicito. E allora, se vuoi rendere esplicito un messaggio che sia di eguaglianza, che sia di giustizia, non si spaccano le vetrine e non si dà fuoco ai cassonetti. Molto semplicemente. Non c’entra niente col rendere manifesto, a meno che, tu non voglia rendere manifesto che vuoi spaccare le vetrine e dar fuoco ai cassonetti. Questo è un aspetto.
L’altro aspetto riguarda le dimostrazioni. Dimostrazione è quella che fanno quando vengono a casa tua e ti vogliono vendere un aspirapolvere, e ti dicono: “Vede come funziona bene?”. Questa è una dimostrazione. Oppure, che la somma dell’area dei quadrati costruiti sui cateti equivale all’area costruita sull’ipotenusa di un triangolo rettangolo. Questa è una dimostrazione. Quindi l’idea che si vada in piazza a volto coperto, o compiendo azioni contro le cose se non contro le persone – compresa la polizia – e poi ci si possa giustificare, “Ma io mi esprimo così”: no. Ti esprimi così nel cesso. Non è la piazza il luogo giusto per “esprimersi così”. Io penso che ci sia un rigore necessario.
Intendiamoci: sei giovane, fai delle cose, ci sono delle arrabbiature… Si può comprendere anche un vigore nelle cose che fai. Io, bene o male, sono stato dentro al Sessantotto. Secondo me ero già vecchio nel Sessantotto, avevo 27 anni, ma ho visto una tensione che era molto difficile tenere dentro a una rigorosa nonviolenza. Però anche lì, era molto importante sapere dove fermarsi.
È un problema di numeri, anche.
Sì, sì sì. Noi avevamo il vantaggio di essere in pochi. È un vantaggio che, nessuno toglierà mai alle minoranze, quello di essere in meno. Essere in pochi voleva dire che sapevi come si comportava il tuo compagno, mentre in una grande manifestazione non è così facile.
Non è un caso che le grandi manifestazioni avevano, necessariamente, il servizio d’ordine, che nel tempo è diventato un servizio militante. Li riconoscevi, quelli di Lotta Continua perché avevano i picconi, quelli di Avanguardia Operaia perché avevano delle lunghe chiavi inglesi. Il servizio d’ordine è un’altra cosa.
Ci sono degli aspetti in qualche modo necessitati. Se tu pensi che una persona della finezza di Erri De Luca era responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua. Che non era un servizio mitissimo. Ci sono condizioni nelle quali si è messi e nelle quali operi. Delle scelte che fai. Di Langer… Di Langer, che era in Lotta Continua e ne curava la rivista, c’è quel bell’episodio in cui va a soccorrere un poliziotto ferito.
Va detto anche questo. Che all’inizio lo stesso movimento del Sessantotto ha una componente nonviolenta piuttosto forte. Parlo proprio delle persone che ne fanno parte. Un po’ si convertono, queste, e un po’ le cose sfuggono di mano perché, c’è una reazione veramente molto dura, eh.
Quanto è importante il tema della fiducia nel preparare un’azione nonviolenta?
È decisivo. Ho fatto pochissimo io, altri han fatto infinitamente di più, però, anche quel poco, non sarei riuscito a farlo se non avessi avuto fiducia nelle persone che avevo accanto.
C’è un insegnamento di Capitini che io ho trovato molto, molto valido, sperimentato. Quando lui raccomanda la familiarità e la tensione assieme. La familiarità, perché senza familiarità la tensione diventa durezza. Però ci vuole anche la tensione verso un obiettivo, se no la familiarità finisce in “va tutto bene, vogliamoci bene…”. Non è vero. Tensione e familiarità vuol dire che c’è una cosa che abbiamo deciso, alla quale tendiamo, assieme, lavoriamo assieme, e tra noi abbiamo dei rapporti che chiamiamo familiari.
Capitini diceva così, forse oggi pensando a cosa sono le famiglie avrei dei dubbi a chiamarli familiari. Però… Uno può chiamarli fraterni, ma pensando a cosa possono essere i fratelli, non so se si può dire fraterni, però… capendoci…
Convivialità!?
Ecco sì, anche. Anche. È un pochino questo. Allora avere questa possibilità di sapere che l’altro c’è. Se tu sbagli una cosa, l’altro interverrà a sostenerla, a sostenerti, a correggere… Questa fiducia secondo me è un dato assolutamente importante. Ed è determinante nell’azione.
Ci sono molti che hanno portato l’attenzione su forme di decisione che devono essere unanimi e condivise, sulla facilitazione… tutte cose per le quali ho il massimo rispetto. Non sono nella mia esperienza. La mia esperienza è: discutiamo, e poi la decisione viene presa da quello che ne capisce di più. Sulle manifestazioni, noi del GAN per un pezzo abbiam detto: ascoltati tutti, la decisione la prende Pinna. Poteva esserci un altro aspetto, per esempio come rapportarsi con la questura, e lì dicevo: vabbè, discutiamo, però ascoltati tutti la decisione la prendo io, vado io a firmare.
Quindi, ogni volta, sapere che la delega è una cosa molto utile, se la fai a una persona di cui ti fidi. E che essere delegati è assumersi delle responsabilità, non è assumersi un potere, un’autorità. E questo, nelle grandi manifestazioni, manca. Come fai a tenere se non hai un forte collante ideologico, che convinca?