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Diabullik. Pregi e difetti della “Violenza di classe”

DiElena Buccoliero

Ott 10, 2019

Premetto che Diabolik, come altri eroi di carta, per me è stato una scoperta adulta, dettata dalla curiosità e dal desiderio di un compagno di viaggio nei miei tragitti di pendolare. Una compagnia discreta e limitata nel tempo, giusta per coprire una mezz’ora di treno. Dopo qualche mese ho smesso di leggerlo disturbata dall’eccessivo tasso di violenza, l’ho cercato di nuovo questa settimana stuzzicata dal tema.

Lo spunto è pensato bene, introdotto in modo un po’ troppo didascalico. E comunque: Marco Nelson fa il prepotente, insieme ai suoi due compari tiene la classe in scacco ma se la prende particolarmente con Michele Tryet, un compagno di famiglia modesta, balbuziente, molto bravo a scuola. Il tipico secchione imbranato e solo ma pieno di sentimenti.

Il padre di Marco è un riccastro con una facciata rispettabile e un’attività nascosta di spaccio di droga. È vedovo e dolorante per questo ma cerca di non darlo a vedere, vive arroccato nella sua super-casa difeso a ogni passo dai suoi guardaspalle. Il padre di Michele invece fa la guardia giurata, fatica a tirare avanti e compie ogni sacrifico col pensiero del figlio che però non ha il tempo di frequentare.

Entra in scena Eva Kant sotto forma di supplente dell’insegnante di storia – la titolare è noiosissima, quando proprio vuole svagarsi va al corso di taglio e cucito, e nel sotterraneo di Diabolik dove viene rinchiusa ci sta meglio che in albergo – con lo scopo di convocare a quattr’occhi il padre di Marco, narcotizzarlo con il Pentothal e fargli confessare il nascondiglio dell’ultimo bottino in modo che Diabolik, in ascolto con il radio-orologio, possa arraffarlo.

Le cose non vanno proprio come dovrebbero. Il colloquio è difficile da realizzare e intanto la professoressa Kant si appassiona al destino di Michele e decide di aiutarlo.

Di più è meglio non dire. L’evoluzione della storia è interessante e va scoperta. Quali sono i suoi pregi?

I personaggi sono ben tratteggiati, anche se lievemente stereotipati. Antipatico e strafottente è il bullo, che fa della prevaricazione il suo stile di vita sulle orme del padre il quale non ha difficoltà a teorizzarlo: il mondo è dei forti. La spinta al cambiamento viene proprio da Eva, con un Diabolik un po’ dietro le quinte che però interviene al momento giusto per fare vendetta. E meno male che ci sono i supereroi, perché il preside è un pusillanime asservito al denaro e al potere e gli altri adulti restano inesistenti. Michele, la vittima, compie un suo percorso interiore distruttivo che sarebbe stato sicuramente evitato se solo avesse ricevuto un briciolo di attenzione quando era il momento. La responsabilità degli spettatori è sicura ma va ricavata, non c’è nessuno tra i compagni a difenderlo e solo una ragazza, ma di sfuggita, si interroga sul limite di ciò che può essere sopportato. Il gruppo si ricompatterà soltanto grazie a Eva Kant che, ce lo ricorda, sa che cos’è subire vessazioni perché le è successo da ragazzina, ma ha saputo uscirne. È anche questo un tocco di realtà: non sono poche le ex vittime di bullismo che, riconquistata una maggiore sicurezza in se stesse, diventano paladine della giustizia. Può capitare anche agli ex bulli ma è più raro, occorre che insieme al ruolo sociale trasformino i valori di riferimento.

Meno male che il padre di Marco è un cattivone, nessun lettore sarà portato a compatirlo se avrà motivi di preoccupazione o dovesse capitargli qualcosa di spiacevole. Tanto più se a tenerlo sulla graticola sono Diabolik o Eva Kant. Per la verità lo rimette a pari anche un poliziotto, lui e i suoi colleghi intervengono in modo autorevole e con il giusto senso della misura, ma verranno scavalcati dal cattivone e i suoi sgherri, il che rende ancor più giustificati gli eccessi di Diabolik e Eva Kant. E in fondo questo è uno dei messaggi più potenti: schiacciare i deboli per puro sfizio è vile, bisognerebbe impedirlo in modo giusto, la realtà però ci dice che la legge è troppo debole, quindi ben vengano i “violenti buoni” capaci di fare in modo pulito quello che i comuni mortali non osano.

Proprio qui sta il punto debole del fumetto, che non appartiene alla trama ma alla scelta dei protagonisti. Pur dotati di un loro senso della giustizia e capaci di limitare la violenza quando la ritengono non necessaria, da sempre i due hanno un solo scopo – la loro ricchezza – e quando vengono intralciati si dedicano alla vendetta nei modi più diretti, o più raffinati, senza alcuna remora. Affascinanti quanto si vuole, belli e torniti, sono bulli a loro modo e non possono nascondere la contraddizione nel momento in cui applicano i loro canoni alla difesa di Michele.

Non di meno “Violenza di classe” è una bella storia, soprattutto dopo le prime pagine introduttive, e nelle mani di un buon insegnante o educatore può diventare uno strumento adeguato ad approfondire le dinamiche del bullismo e a mettere in discussione alcune regole, del gruppo o della società.

 

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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