• 23 Novembre 2024 0:18

Donne resistenti

DiElena Buccoliero

Apr 26, 2023

È il 25 aprile. Ascolto un’intervista a Benedetta Tobagi, autrice del libro “La Resistenza delle donne” (Einaudi, 2022), che inizia commentando una bella immagine in bianco e nero, una tra quelle che corredano il suo libro e da cui è partita nel lavoro di ricerca.

“Guardatele. Direste mai che sono impegnate in una guerra? È il loro punto di forza. L’arma segreta. Nessuno sospetterebbe del viso giovane incorniciato dal colletto bianco da commessa timida. Di una maestra occhialuta in sottana scozzese e calzettoni. Della bellezza che guarda trasognata, a labbra dischiuse, coi capelli al vento”.

Stando al sito dell’ANPI “le donne partigiane combattenti riconosciute furono 35 mila e 70 mila fecero parte dei Gruppi di difesa della Donna; 4.653 di loro furono arrestate e torturate, oltre 2.750 vennero deportate in Germania, 2.812 fucilate o impiccate; 1.070 caddero in combattimento e 19 vennero, nel dopoguerra, decorate di Medaglia d’oro al valor militare: un numero impressionante per una presenza che è stata di fatto per molto tempo un’assenza”. Segue una galleria di ritratti, necessariamente incompleta e suscettibile di integrazioni, a cura del giornalista Fernando Strambaci.

I 3.000 ritratti si possono sfogliare in base alle decorazioni ottenute, all’area geografica d’azione e allo status (religiosi, militari, internati, caduti…) ma non in base al genere, e non è semplice ritrovare i profili delle donne. Il che è giusto – donne e uomini hanno combattuto insieme – ma non agevola nel ricostruire una storia non sufficientemente riconosciuta. Che poi le decorate con medaglia d’oro siano state 19, mi chiedo quanto sia proporzionato al contributo che le donne offrirono alla Liberazione dal nazifascismo.

Nel 2012 Maria Ombra, ex partigiana di 87 anni, vice presidente dell’Anpi nazionale e dirigente UDI, pubblica “Libere sempre”, una lettera a un’adolescente del presente. Le parla di quanto abbia valso per lei la scelta della Resistenza portandola, tra l’altro, a superare l’anoressia. “Posso dirmi molto fortunata – ha affermato – perché è stata la vita stessa a presentarmi la via d’uscita. Accadde quando di anni ne avevo ormai diciassette. Il mondo aveva preso fuoco. C’erano delle urgenze. Le mie angosce potevano aspettare. C’era qualcosa da fare subito.”

Marisa Ombra rileva come per decenni sia mancato un linguaggio in grado di riconoscere l’impegno delle donne. Riporta l’esempio di Tina Lorenzoni, arrestata e fucilata a 25 anni per il suo impegno partigiano, che al conferimento della medaglia d’oro al valore militare venne salutata come “Angelo consolatore tra i feriti”. Niente di meglio che il ricorso alla retorica per riassumere la vita di una donna di cui, sul sito dell’Anpi, leggo imprese di coraggio estremo. Crocerossina, all’armistizio prende contatti con gli antifascisti fiorentini e entra a far parte di un gruppo che si era fuso con la V Brigata di Giustizia e Libertà. Per mesi svolse pericolose missioni, portandosi a più riprese a Milano e in altre località del Nord, organizzando l’espatrio di cittadini d’origine ebraica e di perseguitati politici. Durante la battaglia per la liberazione di Firenze, la Lorenzoni per ben tre volte riuscì ad attraversare le linee di combattimento per portare ordini al Comando d’Oltrarno. Finita nelle mani di una pattuglia tedesca, Tina fu portata a villa Cisterna e rinchiusa in una stanzetta per esservi interrogata. Rimasta sola la ragazza tentò la fuga, ma mentre stava scavalcando il reticolato che recingeva la costruzione fu abbattuta da una raffica di mitra. Nella stessa mattinata suo padre, che saputo della cattura di Tina aveva raggiunto un avamposto degli Alleati per organizzarvi uno scambio di prigionieri, cadde colpito da una granata tedesca”.

Leggo su Micromega, in “Donne partigiane: la Resistenza fu anche femminile”: “che la storia abbia trascurato, intenzionalmente o per distrazione – una distrazione comunque colpevole e discriminante – tante figure femminili è una verità incontrovertibile. E questo non perché gli uomini siano più forti, ma perché hanno avuto il monopolio della cultura e del potere, entrambi indispensabili per redigere i documenti su cui la si costruisce”.

Su “Domani” del 21 aprile scorso Barbara Berruti in “La nuova convergenza tra generi e generazioni” incomincia dal “Diario partigiano” di Ada Prospero Marchesini Gobetti e parla della doppia guerra combattuta dalle donne, contro il nazifascismo e contro la visione patriarcale imperante in quegli anni. I pregiudizi erano attivi in tante direzioni: più difficile per una donna salire in montagna, quando oltretutto non era costretta ad arruolarsi; difficile ugualmente essere accettata e riconosciuta in un mondo prevalentemente maschile, e in un mondo che concepiva la stessa politica come di esclusiva pertinenza maschile. Eppure, riflette Barbara Berruti, “invisibili da secoli nello spazio pubblico, nel momento in cui vi accedono possono svolgere ruoli insospettabili all’interno di società ancora rigidamente patriarcali. Inoltre non vengono mandate al fronte e continuano ad abitare i territori occupati: questo consente loro di avere compiti di collegamento fra le formazioni oppure di farsi carico del vettovagliamento e della cura a vari livelli (incluso nascondere prigionieri evasi, ebrei e partigiani)”.

Il piacere che dà ogni scherzo ben riuscito raggiunge per me punte altissime quando leggo dell’astuzia con cui le donne resistenti si sono appropriate degli stereotipi e li hanno piegati a proprio favore. Leggevo tra gli altri la testimonianza di Matilde Bassani, staffetta partigiana, che sbattendo gli occhioni si faceva aiutare dal nemico a sollevare il peso non indifferente della – ben camuffata – stampa clandestina che aveva con sé.

A questo proposito Benedetta Tobagi racconta di “come le donne che si impegnano a vario titolo nella Resistenza acquisiscano una consapevolezza completamente nuova del loro corpo. Ne diventano padrone e imparano a utilizzarlo. Perfino gli stereotipi – l’isteria femminile, il sentimentalismo, l’angelo del focolare – tutti gli stereotipi è come se diventassero degli strumenti che loro ribaltano contro i nazifascisti per farli fessi. Una miriade di episodi in cui le partigiane raccontano come sono riuscite, teatralmente, a farla franca riappropriandosi di qualche aspetto della femminilità e utilizzandolo in maniera creativa e attiva”.

Il coraggio e la capacità di giocare con le regole, e non entro le regole, è una dote, io credo, che appartiene alla nonviolenza. È la libertà dello schiavo. Occorre che quella libertà sia prima di tutto personale, interiore, ben radicata, ma quando la incontro mi sembra di respirare a pieni polmoni. Proprio come salire in montagna.

 

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.