Non credo che in Italia ci sia qualcuno della mia generazione o più vecchi di me che non sappia dov’era durante la Finale – Italia-Germania (Ovest) – nella calda estate del 1982! Lo so, è un azzardo, ma chi ha vissuto quegli anni lì, sa di cosa parlo.
A quell’epoca a calcio si giocava dappertutto: nei larghi e lunghi cortili dei palazzi anni ‘70, in qualsiasi posto dove c’era l’erba (campetto lo chiamavamo); in un caso erano i cancelli a farci da porte e nell’altro bastava mettere quello che portavamo addosso per evidenziare le porte.
Addirittura non contenti, il campo da un cancello all’altro era in strada. A quel tempo si poteva fare, come sembrava che si potesse fare qualsiasi cosa. Per noi era un fatto normale che ci fosse qualcuno che la prendesse male: ci bucava i palloni o ce li sequestrava, ma c’era sempre fra di noi chi aveva un pallone da giocare.
Non c’era parrocchia che non avesse un campo da calcio, che fosse di cemento o in erba.
Ricordo i profumi della primavera che veniva all’improvviso, sembrando che venisse portata da stormi di rondini e noi ragazzi che ci affacciavamo per la prima volta dopo un lungo inverno con il pallone nel cortile del seminario vecchio.
Ma non solo si giocava dappertutto, ma si giocava tutti giorni, da primavera all’autunno.
Era un’Italia depressa: si palpava nella gente un clima disincantato, si pensava a ottenere sempre il massimo con il minimo sforzo.
Ricordo che ero fra i più scarsi a giocare a pallone, per cui il mio destino era la difesa o la porta e guai avventurarmi in avanti. Si pensava che in quelle posizioni facessi meno danni possibili – ma forse si sbagliavano – mentre i più bravi erano sempre gli attaccanti.
Ho ancora la maglia di quelle poche partite che giocai (G.S. Duomo) – rigorosamente in panchina.
Il numero 15 – di una partita di maglie dismesse dalla società – non era di certo come il numero 20 di Pablito. All’ora voleva dire che eri una riserva e basta.
Mai avuto un fallo ai miei danni, forse perché gli avversari sapevano che avrei perso la palla da lì a poco e certamente ero uno che tenevo la palla per pochi secondi…
Io non facevo mai fallo – insomma non mi scaldavo mai, tabula rasa sotto il profilo delle emozioni – ma ricordo la grande soddisfazione che ebbi quando arpionai letteralmente il piede di uno “sborone” tenendo fermo la gamba facendo leva con il piede. Lui si sfracellò nel campo polveroso di cemento e io godetti come non mai!
Oggi credo che la sua intraprendenza sia stata premiata: è un bravo professionista!
Ricorderò sempre un gol che feci in un torneo parrocchiale di piattone destro – era la mia specialità – lontanissimo dall’aerea, che si insaccò sul ‘sette’ al mia destra. E ricordo i festeggiamenti dei miei compagni come dell’unica persona fra il pubblico – una ragazza – che mi abbracciò.
Poi la mia “avventura” sportiva si avvicendò in altri sport: mi piaceva dirigere e organizzare.
Per cui un giorno mentre era in corso un torneo di pallavolo in parrocchia, organizzai una squadra in quattro quattr’otto: avevo anch’io una gran voglia di giocare. Ma una volta organizzata la squadra, la stessa mi precluse il gioco e io praticamente non giocai mai.
Io ero anche quello che organizzava le squadre di ping pong della mia parrocchia per i tornei del CSI. Quasi sempre finiva che venivo infamato da qualcuno a cui non gli andava bene cosa facevo.
Ormai non rappresentava più un problema per me fare lo sfigato in parrocchia: era l’assoluta normalità. Credo di avere avuto tutti gli incarichi di responsabilità che si potessero avere ma la questione non cambiava ero sempre e comunque fra gli “invisibili”.
Fra la seconda metà degli anni ‘70 e gli anni ‘80 erano due le categorie dei frequentatori della parrocchia quelli stimati e rispettati perché qualsiasi cosa facessero “la facevano bene” – così si pensava – e quelli che erano “Invisibili”.
Ringraziando il cielo avevamo un prete che ci seguiva che era un vero e proprio astro nascente fra i preti in diocesi, tant’è che fece pure carriera alla fine…
Si diceva che ci sapeva fare con i giovani come mai non si era visto: io le poche volte che azzardai di dire la mia, ebbi da lui parole di biasimo, nella migliore delle ipotesi…
Che ci volete fare, all’ora, l’educazione – a casa come in altri luoghi – era di tipo formale e non si basava sulle relazioni empatiche. La parola amore era citata nella catechesi ma non era minimamente nell’orizzonte di una società che si doveva ancora liberare dai fantasmi dell’ultimo conflitto bellico.
Era un’Italia depressa: si palpava nella gente un clima disincantato, si pensava a ottenere sempre il massimo con il minimo sforzo.
Almeno a me così sembrava, ma forse il depresso ero io.
So solo che ancora adesso quando rivedo le partite con l’Argentina, il Brasile e la Germania, del 1982, rivivo quelle emozioni e quel clima che si respirava in quel tempo – del prima e del dopo -.
Emozioni che forse per la prima volta mi concessi veramente e che finalmente potevo liberare senza che nessuno mi potesse dire nulla.
E piango sempre…quella liberazione…che per fortuna, credo, non fu solo la mia ma di quell’Italia che non sarebbe più stata come prima.