Cecilia Sorpilli si descrive come determinata, solare e battagliera, e tutta la sua vita lo dimostra. Ha 38 anni, un paio di lauree (Scienze dell’educazione e Progettazione e gestione dei servizi educativi e del disagio sociale), un master in “Tutela dei diritti e protezione dei minori”, è counsellor ed è in procinto di sposarsi. Lavora da anni a Ferrara nei servizi di sostegno alle famiglie e nel 2017 ha fondato l’associazione Collagene VI Italia, di cui è presidente, dedicata alla sua patologia, una rara forma di distrofia muscolare. L’avventura più recente, certo non l’ultima, è stata la pubblicazione della tesi con cui ha concluso la “Scuola italiana di counseling motivazionale integrato” che è il suo primo libro, “Essere madri di figli con disabilità” (Erickson, 2023). L’aveva sottoposta alla casa editrice per scommessa, senza dire niente a nessuno, e tre settimane dopo le è arrivata una proposta.
Quando ci incontriamo online è un po’ stanca. Si è iscritta a psicologia a Padova e in questo periodo sta preparando due esami.
“Ho condotto cinque percorsi individuali, online, con madri di bambini che hanno la mia stessa disabilità. Ho unito le tecniche del counseling motivazionale e del counseling narrativo”, mi spiega, “con l’obiettivo sì di aiutare queste mamme ad affrontare la situazione contingente, la disabilità del figlio, ma soprattutto spronarle a concentrarsi su di sé, sul loro essere non solo madri ma anche donne, mogli, amiche, colleghe, e far capire loro che è importante ritagliarsi uno spazio e prendersi cura di se stesse anche per essere più in grado di aiutare i figli”.
Il percorso è stato un’esplorazione graduale attraverso 13 domande che rimandavano a oggetti quotidiani, fotografie, metafore, frasi ipotetiche…
“La gravidanza le ha rese più mature, più consapevoli, ma hanno perso la spensieratezza. Ho chiesto loro di raccontarmi il momento in cui hanno appreso della disabilità dei figli. La nostra è una malattia rara difficile da diagnosticare, io ne ho avuto certezza a 24 anni! Tra le mamme che ho incontrato, alcune hanno vissuto la diagnosi come un trauma improvviso, altre hanno capito subito che nel bambino qualcosa non andava ma non era chiaro che cosa, o addirittura prima del parto era stato segnalato qualcosa di strano però il confronto con una realtà precisa è molto diverso: la cosa strana aveva un nome e non c’era cura, non c’era terapia”.
Che cosa significa per loro essere madri? “In una parola: responsabilità. Hanno imparato a prevedere, a progettare ogni piccola cosa mettendo al primo posto il benessere del bambino. Sentono il bisogno di avere tutto sotto controllo per riuscire a gestire la quotidianità. Alcune hanno riportato un rapporto con il figlio forse più intenso di quello che avrebbe potuto esserci senza la disabilità. Hanno capito che cosa vuol dire essere forti, imparare a lottare per tutto, ma anche essere grate. Una mamma mi diceva proprio: «Non sono certamente felice della disabilità di mia figlia, ma posso dire di essere grata», segno di un grande lavoro su di sé”.
E essere donne? “Quando ho chiesto loro di descriversi come donne, intanto avevano bisogno di tempo per rispondere e alcune hanno detto: «No, io non sono più una donna, sono totalmente proiettata sui miei figli e sui loro bisogni». Ho cercato di riflettere con loro sul fatto che non sono solo madri ma anche donne, mogli, figlie, amiche, chi lavora è anche collega di qualcun altro, ma è difficile per loro ritagliarsi degli spazi per se stesse. Il counseling ha fornito questo spazio per ricordarsene”.
Come si è concluso il percorso? “Nella terza parte, rielaborativa, ho ripreso le metafore che loro stesse avevano utilizzato e ho chiesto se hanno vissuto altri momenti in cui si sono sentite così in difficoltà come quando hanno ricevuto la diagnosi del bambino, e come li hanno affrontati. Ho ricevuto risposte molto diverse, ma di più mi hanno colpita due mamme. Una, di origini serbe, è scappata dalla guerra nel periodo dell’adolescenza e nonostante la drammaticità di quel momento considera molto più impattante il confronto con la patologia del figlio, affrontata anche grazie al fatto di avere altri due bambini. «Sono talmente impegnativi che non ho tempo per deprimermi». L’altra mamma ha vissuto il suicidio del padre, una esperienza molto forte che ha affrontato grazie alla presenza delle figlie che già c’erano (in tutto ne ha 4), ma riporta che niente è stato come apprendere della disabilità della bambina. Eppure, quando in ultimo ho chiesto che cosa vorrebbero cambiare della loro vita, tutte hanno detto: «Non cambierei mio figlio. Ovviamente vorrei togliergli la patologia, ma mio figlio non lo cambierei per niente al mondo»”.
Quanto ha influito nel percorso il fatto che tu abbia la stessa patologia dei loro bambini? “Sicuramente ha facilitato moltissimo lo stabilirsi di un rapporto empatico. A un certo punto erano loro che facevano domande a me per avere consigli, e io rilanciavo su di loro. Però questo confronto con la mia esperienza di figlia, anche perché io le mie dinamiche familiari me le sono già elaborate e digerite da tempo, è stato uno scambio arricchente anche per me, e loro si sono proprio aperte. Già mi chiedono di riprendere e io sto pensando di promuovere un gruppo di mutuo aiuto nel quale possano concedersi di condividere la loro stanchezza, i loro problemi. Essere madre di un figlio disabile è un travaglio non da poco, non è un trauma isolato ma si ripete ogni giorno. Se lo espliciti e accetti la tua fragilità riprendi le energie per andare avanti. Invece le mamme che ho intervistato non avevano avuto, prima d’ora, l’opportunità di tirare fuori pensieri che le fanno sentire in colpa”.
Non dovrebbe essere la sanità pubblica a proporre percorsi di questo tipo? “Indubbiamente sì, e invece gli investimenti nella sanità sono sempre più ridotti quindi questi aspetti non vengono considerati. La sanità o in ogni caso il servizio pubblico. Questi genitori sono perennemente a contatto con il sistema sanitario, vivere momenti di incontro in contesti di normalità come può essere un servizio educativo aiuta ad alleggerire”.
Hai mai pensato di intervistare i papà? “Sì, ma con loro l’aggancio è più difficile. Anche nei gruppi di mutuo aiuto per genitori di persone disabili i padri sono una stretta minoranza. È più facile trovarli nel fare. Conosco un’esperienza in cui è stata proposta una degustazione di vini e lì, tra un sorso e l’altro, i padri si sono aperti”.
Ridiamo. L’idea dell’alcol che scioglie la lingua non è male… Ma non è solo questo.
“Oppure una grigliata, e mentre grigliano se la raccontano. I padri in genere hanno bisogno di fare qualcosa insieme, se li inviti solo per parlare di sé pochissimi rispondono”.
Le mamme che hai incontrato ti hanno parlato dei partner? “Sì, erano figure presenti e importanti. Alcune mi hanno detto che non riescono a delegare gli aspetti più pesanti della cura del figlio, quindi certe cose i papà non le fanno, non però perché non vogliano farle ma perché lei preferisce occuparsene personalmente”.
E un gruppo per i giovani con disabilità? “Pare non ce ne siano. Noi a Ferrara lo abbiamo proposto, aprendolo a adolescenti e giovani con disabilità motorie o sensoriali, e non abbiamo avuto risposte. Proveremo ancora. Nella mia associazione c’è una chat di cui faccio parte anch’io che riunisce prevalentemente ragazze adolescenti dove si condividono sia aspetti della malattia sia i vissuti di ogni giorno, il rapporto con i coetanei, gli amori, i sogni… Io sono la più anziana e ho un ruolo di mediazione. Vedo, però, quanto è importante per loro quel livello di confidenza, perché su alcuni aspetti della tua vita non può capirti nemmeno l’amica del cuore, se non vive il problema”.
C’è un bambino, di 7 anni, che la disabilità la conosce bene. È il nipote di Cecilia. Trascorrono molto tempo insieme. E poi, con la zia si può giocare a calcio, si può uscire nel parco e, quando va a prenderlo a scuola, si può sfrecciare a bordo della sua carrozzina, con l’invidia di tutti i compagni.