• 19 Novembre 2024 4:26

Fare tesoro delle diversità per opporsi all’incubo

DiCarlo Bellisai

Gen 8, 2020

Il ruolo assegnato alla Sardegna nello scenario internazionale politico-militare è quello di testare nuove armi ed addestrare gli eserciti di mezzo mondo alle strategie belliche e all’uso di ogni genere di strumento ad esse consono. Questo ruolo viene assolto con la presenza nel territorio dell’isola di ben tre poligoni adatti alla sperimentazione di missili e per esercitazioni a fuoco e manovre congiunte di Esercito, Marina ed Aviazione. Tali basi militari ricoprono una superficie di circa 25.000 ettari: tra essi spiccano il Poligono di Quirra-Perdasdefogu, quello di Capo Teulada e la base aerea di Capo Frasca. Le conseguenze per la Sardegna sono principalmente tre:

  1. Vi è una espropriazione del territorio, sottratto agli usi civili, produttivi ed alla sua vocazione turistico-naturalistica. Non solo la pesca viene interdetta in ampie zone della costa, ma sia l’agricoltura che l’allevamento risultano fortemente a rischio anche nelle zone adiacenti ai territori militarizzati, a causa delle ricadute sul suolo e sulle acque dovuto all’uso di sistemi d’arma altamente inquinanti e tossici.
  2. Si verifica uno stato di pericolo per l’ambiente, la vita e la salute. L’uso di proiettili ed esplosivi provoca il rilascio nell’aria di sostanze chimiche altamente nocive, come l’uranio impoverito, l’arsenico, il torio e il cadmio che, ricadendo al suolo, inquinano permanentemente il terreno e penetrano nelle falde acquifere. E’ alto il rischio per la salute umana e animale, come dimostrano le statistiche sui casi di leucemia e linfomi nei comuni limitrofi ai poligoni.
  3. Ci ritroviamo davanti, infine, come abitanti della Sardegna, ma anche come cittadini d’Italia e d’Europa, davanti ad una questione etica e politica. L’abominio della guerra, ripudiato dalla Costituzione, continua a perpetrarsi vicino e lontano nel mondo anche grazie alle attività che vengono preparate qui sull’isola. Questo ruolo da altri designato per il nostro territorio ci rende in qualche modo coinvolti nella preparazione delle guerre, in parte responsabili delle stesse.

Vorrei qui approfondire un momento il tema della responsabilità, parola oggi risucchiata nelle sabbie mobili della cultura dell’usa e getta. Perché viviamo in un mondo che ha eletto l’irresponsabilità a regina e che, irresponsabilmente, continua ad utilizzare fonti di energia inquinanti che portano alla crisi climatica globale, che irresponsabilmente continua a produrre e ad usare armi sempre più distruttive e sempre più automatizzate. Perché non serve scaricare le responsabilità sulle catastrofe ambientali, puntando il dito sugli altri (come fanno ad esempio i governi di Brasile ed Australia), così come non serve difendere le produzioni di bombe e di morte, asserendo che “se non si fabbricassero qui si fabbricherebbero altrove”. L’esercizio di scarico delle responsabilità non è solo ipocrita e meschino, ma anche e soprattutto criminale, perché è proprio attraverso questa limitazione della prospettiva, questo fermarsi alla punta del proprio naso che si perpetua l’irresponsabilità della guerra dell’uomo contro la natura e contro i propri simili.

Accennavo alle frontiere dei nuovi armamenti. Conosciamo già da qualche tempo gli usi dei droni militari, sia per lo spionaggio che per le esecuzioni e i bombardamenti mirati. Sappiamo anche che gli instancabili architetti dell’autodistruzione della specie stanno elaborando armi ancora più “intelligenti”, i così detti killer robots e le “armi autonome”, che agiscono in base ad oscuri algoritmi che vengono loro inculcati. Immaginiamoci: bombe la cui traiettoria non può più essere modificata, nemmeno da chi le ha fabbricate. Le prospettive, viste da questo lato, assomigliano molto ad un incubo.

Ma non è un incubo quello che vorremmo ancora sognare per i nostri figli e nipoti. E allora dobbiamo confrontarci sul come agire e costruire alleanze e unità sui temi forti, sforzandoci di utilizzare le diversità come risorsa. Perché se ripudiamo la guerra, il conflitto ci interessa: è la dinamica delle relazioni, del come comunichiamo fra esseri ed è dentro il conflitto che si può preparare insieme una soluzione senza perdenti, che trovi i punti nodali in cui le diversità possono legarsi. Volevo raccontarvi come questi sardi kentu concas kentu berritas, “cento teste cento cappelli”, quando riescono ad uscire dai loro recinti e si mettono a lavorare insieme, a tessere reti, a fare tesoro delle diversità, riescono a fare delle belle cose in reale collaborazione e divisione dei compiti, come quando per due anni abbiamo ospitato gli Hibakusha della Peace Boat, o anche adesso che, con un comitato spontaneo cui aderiscono oltre venti diverse associazioni e gruppi, stiamo accompagnando con eventi e proposte nelle scuole la II Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza, partita da Madrid il 2 ottobre del 2019 e che, prima di tornare lì l’8 marzo del 2020, farà tappa a Cagliari il 29 febbraio. Questo dimostra che per trasformare in sogno l’incubo che abbiamo davanti è necessario superare le diffidenze e mettere insieme le forze. Lo dimostra anche la manifestazione del 12 ottobre 2019 a Capo Frasca, voluta insieme da forze prima di allora sfilacciate e in parte divise.

Così oggi il disarmo interiore diventa anche la base per il confronto e la collaborazione, che tanto spesso trovano ostacoli e difficoltà, che occorre superare con la perseveranza e con la resilienza. Sappiamo che il problema del Pianeta e quello della Guerra fanno parte dello stesso conflitto umano, che ha prodotto e perpetuato un sistema di sopraffazione e sfruttamento, delle risorse della Terra, dei popoli e delle classi deboli. Per questo è più che mai necessario un lavoro educativo nelle scuole, il coinvolgimento della società civile, creare forme di democrazia dal basso, spingere sulle istituzioni e quando necessario, anche azioni di boicottaggio e di disobbedienza civile.  Queste sono le cose che possiamo fare in un’ottica inclusiva, di aggiunte reciproche e di coordinamento. Sapendo che non c’è pace senza giustizia. Non c’è pace se non con la Natura.

Di Carlo Bellisai

Sono nato e vivo in Sardegna. Mi occupo dai primi anni Novanta di nonviolenza, insegno alla scuola primaria, scrivo poesie e racconti per bambini e raccolgo storie d’anziani. Sono fra i promotori delle attività della Casa per la pace di Ghilarza e del Movimento Nonviolento Sardegna.

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