“Delle volte esco e gli faccio: ssssh!”, con il dito sulle labbra, “e loro capiscono. Hanno delle abitudini diverse, non lo fanno per maleducazione. Oppure li vedo che buttano una cosa per terra. Vado lì e gli faccio: raccogli! E loro tirano su. Non ho mica paura, sai”.
A guardarla si direbbe che non avesse paura di niente. Fatma è un donnino con i capelli bianchi, il volto ridente, lo sguardo aperto e fiero. Per trent’anni ha fatto l’amministratrice di condomini. I suoi figli, quattro, sono adulti anche se i più giovani ancora vivono con lei e le danno parecchio da fare. Oltre agli impegni di casa e ad altre forme di volontariato, un paio d’anni fa ha deciso di aprire questo punto di ascolto nel quartiere in cui vive (e in cui vivo anch’io), il GAD che, intendiamoci, non è malfamato come si vuol far credere – Ferrara resta pur sempre una delle città italiane più tranquille sotto il profilo della criminalità – ma di sicuro è il più multietnico tra tutti, quello che comprende la stazione ferroviaria, ed è un condensato di problemi. Il punto di ascolto è poi il circolo PD della zona, difatti “Ciao Pd” è un altro degli appellativi che le vengono rivolti.
“Un bel giorno al partito ho detto: Sentite, io apro. Doveva essere una volta alla settimana, poi sono diventate due e ormai, dalle tre alle sette, tutti i pomeriggi sono qui”.
Un compagno di partito fa tutto il lavoro sui social (“sai i giovani sono bravi con quegli aggeggi, Diego ha il contatto con la gente, vede i problemi”), mentre Fatma è l’anima di questo centro accogliente fin dal primo impatto (“Faccio tutto io eh, anche lavare i pavimenti”).
“Adesso ci sono le luminarie di Natale ma noi ci siamo tutto l’anno. Dico sempre: siamo l’unica luce accesa in questa zona della città, e se ti guardi intorno è proprio così. Tanti negozi hanno chiuso, noi siamo rimasti e ci siamo per tutti, per chi vuol parlare e per chi ha bisogno. Il punto non è gli italiani o gli stranieri, il punto è imparare a convivere. Noi italiani non dobbiamo essere sottomessi e chi viene qui deve capire che le regole ci sono, però l’unico modo è fare quello che stiamo facendo io e te: guardarci in faccia e parlare insieme”.
In questi giorni il grande tavolo centrale è una distesa di pacchi di pasta, bottiglie d’olio, lattine di pelati o di legumi, zucchero, farina…
“Per il secondo anno abbiamo lanciato la raccolta di generi alimentari. Dura una settimana, abbiamo appena iniziato e guarda quanta roba! Noi raccogliamo e poi diamo all’emporio sociale, alla Caritas… smistiamo tra le associazioni, perché di gente che ha fame ce n’è tanta di tutti i colori”.
Il punto vero, infatti, sono i poveri, non gli stranieri. Ma non è solo una questione economica. Le pareti del locale sono tappezzate di libri.
“All’inizio erano duecento. Abbiamo lanciato una raccolta e ora sono tremila, non sappiamo più dove metterli, ma li abbiamo tutti catalogati, io e un’altra volontaria, e non è stato mica un lavoro da ridere. Certa gente non ci crede ma il servizio di prestito lo facciamo. Lì c’è un cesto con gli ultimi che devo disinfettare perché sono appena tornati”.
Qualche mese fa c’era stata una raccolta di giocattoli.
“Venivano, le mamme coi bambini, e li vedevo questi piccolini che sgranavano gli occhi, non gli sembrava vero. Uno mi ha detto: Ne posso prendere un altro? E io: Ma tesoro, prendine anche tre. Vedessi la gioia! Perché io poi non lo so mica, questi bimbi che non hanno niente, come vengono su. Un uomo che abita qui, straniero, un giorno mi ha detto che il figlio non imparava a leggere l’italiano e lui non sapeva come aiutarlo. Io non sono maestra ma gli ho detto: portalo da me. Libri di favole qui ce ne sono tanti, li leggevo con lui”.
Tra i residenti italiani, in tanti non la pensano come lei.
“Vado alle riunioni di condominio e mi dispiace proprio sentire certe parole. Un conto è dire che ci sono dei problemi, ma usare certi nomi… Dobbiamo mandare via quelle merde, dicono così”.
La disumanità ferisce. Oltretutto nasce da un errore di valutazione.
“Non capiscono che i buoni e i cattivi ci sono dappertutto. E poi gli stranieri non sono mica tutti uguali. Tra di loro, i nigeriani li chiamano i contadini, quelli del Camerun i dottori. Sono immigrazioni diverse, ognuno ha la sua storia. Me mi conoscono e mi trattano tutti bene. Quando arrivo con l’acqua minerale che è pesante mi aiutano. Uno di loro, uno studente universitario che studia intelligenza artificiale e quando parla delle sue materie ci resto a bocca aperta, mi tiene il computer che è un gioiello”.
Certo, i problemi sono reali, Fatma non lo nasconde.
“Gli spaccini li vedo anch’io, cosa credi? Però, le macchine che si fermano non le guidano mica i neri! È che il lavoro manca. Anche mio figlio, il più giovane, si è sempre dato da fare ma un’occupazione stabile non è ancora riuscito a trovarla e ha trent’anni. Per questi ragazzi è ancora più difficile perché poi, chi è regolare, chi non è regolare… Senza documenti fanno poco”.
Così li vedi raggrupparsi in strada. Per chi un lavoro ce l’ha e magari è italiano, sono presenze inquietanti, segno di disordine per il solo fatto di stazionare lì.
“Chiacchierano, non fanno niente di male. Alcuni li vedo con le ciabatte anche d’inverno perché non hanno le scarpe. Magari una volta alla settimana bevono qualcosa di più e ci può scappare la rissa, niente di che”.
Ma quando fate gli incontri sui problemi del quartiere vengono anche loro?, le domando.
“Mi rubi il mestiere. No purtroppo. Sono giorni che ci penso: ora apro un panettone e poi dico: Venite, raccontatemi come vivete, cosa pensate di fare”.
L’ultima questione da risolvere per Fatma è la solitudine.
“Alle riunioni del partito li sento che dicono: Dobbiamo fare… Faremo… Bisognerebbe fare… Però stanno fermi. Alcuni all’inizio mi davano il cambio ma dopo un mese si sono stancati perché dicevano che non veniva nessuno. Ci vuole costanza se si vogliono avvicinare le persone. Io a volte da casa mi porto i conti da fare o un cucito da finire, se c’è un pomeriggio morto, ma ormai viene sempre gente”.