“Ho camminato a lungo nella neve. Lo sforzo dell’ascesa è ormai passato. Il sentiero è ora agevole e solo in leggera salita. La hutte di Mezzavia mi invita a una sosta. Dentro al caldo – mi spoglio, allargo gli scarponi – mi avvolge l’odore del cibo, che sta impegnando il gruppo di escursionisti che mi precedeva. Ci sono knodel, polenta nera, speck, wurstel, c’è il piatto della casa (il mitico hausplatte), c’è perfino lo zelten (Natale è passato da poco o sta per arrivare). Chiedo uova e un bicchiere di vino. Mi portano due meravigliose uova al burro – il bordo ha una leggera sfumatura marrone – con una fetta di pane nero e un bicchiere di vino (bianco o rosso non ricordo, ci stanno bene entrambi, e poi il vino, bevuto mille metri più in su di dove viene prodotto, è straordinario). Sono di nuovo sul sentiero. La comitiva è ancora dentro e uscirà di lì a poco. È un gruppo del CAI. Lo precederò alla malga, alla cima, al rifugio”.
Quel rifugio e poi la malga li gestiva negli anni Cinquanta – ero ragazzo allora – un’amica degli zii di montagna. Degli zii ho scritto nel post precedente. Si chiamava forse Rosa, ma non è con questo nome che la ricordo. Del suo passato di partigiana mi aveva detto qualcosa la zia. “È stata una combattente intrepida. La chiamavano Furia”. Ero ragazzo e curioso allora. Avrei voluto saperne di più. A un accenno della zia – lo zio era taciturno – ai tempi di guerra Furia (non l’ho mai chiamata così se non col pensiero e neppure gli zii) ha risposto con un sorriso. Piuttosto rispondeva sull’inverno passato solitaria in rifugio, isolata dalla neve. Uscita dalla finestra, perché la porta era bloccata, aveva visto ben chiare le orme dell’orso. L’ho conosciuta al rifugio, ma più negli anni successivi alla malga. Quando avevano un giorno di ferie con gli zii passavamo una o due notti in malga. Anche d’estate c’era piuttosto freddo, nel gabinetto esterno, nel lavarsi nell’acqua gelida dell’abbeveratoio, nella stanza dove dormivamo. Naturalmente non c’era luce elettrica. Si dormiva benissimo, si stava meravigliosamente!
Splendide le giornate passate in malga, a partire dal latte squisito al mattino. Miracolosa la trasformazione della panna in burro con una zangola di legno piccola, chissà quanto vecchia, ma di grande efficienza. Basta stantuffare incessantemente. L’ho fatto fino al dolore della mano e del braccio. Quanto? Un’ora o due. Non lo sapevo allora, non lo so ora. Poi il miracolo della tramutazione: il burro! Squisito naturalmente. L’arrivo in casa del pastore, Pompeo, forse parente di Rosa, se così lei si chiamava. Apriva la porta e si annunciava la sua presenza con un concentrato di odori di stalla. Appariva lui, con lunghi baffi burrosi, avvolto – io così lo ricordo – da nugoli di mosche che lo accompagnavano sempre. “Vuoi una sigaretta Peo?”. “Tutti i pastori i fuma per tener lontano i bissi!”. Il diario di Rosa, lasciato sul tavolo. Gli amici scrivevano qualcosa. Credo di avere scritto “Dormita storica!”. Ma c’era una parte, la prima, più personale. Vi aveva scritto della solitudine invernale e dell’amore per un uomo di parecchi anni più giovane di lei. O almeno parevano tanti allora.
Questa foto mi è cara. È direi del ’56. C’è lei, ci sono i mie zii, ci sono io e c’è una ragazzina: Manzotin! Mi sembrava un appellativo affettuoso. Chissà lei che ne pensava. Il suo nome non lo ricordo. Esile, esile era venuta in malga per aiutare e ritemprarsi. Entrambe le cose erano riuscite. Timida e silenziosa si era irrobustita. In breve tempo era divenuta Manzotin. Ora che ci penso non credo di averle sentito dire una parola. Forse un sì quando le abbiamo chiesto se voleva fare una passeggiata con lo zio e me in vetta alla vicina cima. È salita svelta, svelta. Il suo massimo di sorriso che io ricordi è quello documentato nella foto. Faceva presto e bene quello che le veniva chiesto. Sempre lavori non pesanti. Rosa era piena di riguardi con tutti, anche con la ragazzina. Innamorata diffondeva benevolenza. Ogni tanto un bagliore negli occhi faceva intravvedere il perché del suo nome di battaglia. O almeno questa era la mia impressione.
L’ultima volta che ho visto Furia la zia era morta. Da lì a poco anche lo zio ci avrebbe lasciato. Lo zio mi ha portato con mia moglie – non l’aveva mai vista, ne aveva sentito parlare – in un rifugio non lontano, in Trentino però. Forse era originaria di quella valle. Gestiva allora quel piccolo rifugio, punto di ristoro. In trent’anni era invecchiata e pure ingrassata. Era cambiata insomma. Ho notato che succede spesso alle donne. Ci ha accolto con affetto e preparato una polenta coi funghi, non la pastasciutta con le spine (rosmarino) la sua specialità. A me non piaceva, ma non osavo dirlo. Aveva sposato – stavano ancora assieme, superando incertezze e diffidenza – il tirolese di lingua tedesca. Sul diario avevo letto “Compro un cappello con le maniche per metterci i corni che mi farà”. Non capivo cosa ci trovasse in quel giovanotto, anche se la mia considerazione era cresciuta sapendo di sue vittorie nelle corse in montagna. Poche le parole scambiate con lo zio, un sorriso a mia moglie, il primo e ultimo bacio a me.