Questo articolo scritto da Daniele Lugli nel maggio 2021 sembra fatto apposta per il nostro presente. Lo schema lo riconosciamo: un attacco palestinese su Israele che penetra, in modo imprevisto, l’apparato difensivo e una dura, durissima repressione da parte Israele. Nel momento in cui Daniele scrive gli attacchi reciproci si erano fermati, o almeno le loro espressioni più gravi e distruttive, ma non per questo si poteva parlare di pace. Il richiamo alla convivenza su cui l’autore ritorna, che ha bisogno di tutto – perfino di tornare a essere pensata – è rivolto anche oggi a ciascuno di noi.
Ogni volta che nominano Gaza mi sorprende pensare a quanto dolore sia concentrato in un così piccolo territorio. È 360 km quadri. Il mio comune è ben più grande: 405 km quadri, un nono abbondante di più. Il mio comune conta 130 mila abitanti. Tende a calare più che a crescere. Ogni tanto persone, provenienti da situazioni disperate, vengono e vorrebbero restare. Non sono accolte bene. A stare ai risultati delle ultime elezioni lo sono invece addirittura fin troppo, per la maggioranza dei miei concittadini. Non mi soffermo su questa vergogna. A Gaza vivono, sopravvivono, 1 milione e 800 mila persone. Due su tre sono profughi da territori dove stavano, o pensavano di stare, anche peggio. Anche qualche anno fa me ne ero occupato.
A Gaza comanda Hamas, ben armato movimento islamista. Ha colto l’occasione di un’odiosa iniziativa di sfratto di palestinesi dalle loro case in un quartiere di Gerusalemme per lanciare tanti razzi sulle città di Israele, provocando terrore e qualche vittima. L’esercito israeliano ha reagito con bombardamenti massicci, di gran lunga più distruttivi, causando naturalmente molte più vittime, in nome del diritto alla legittima difesa. Palestinesi hanno manifestato in diverse città contro i bombardamenti su Gaza e sono stati duramene repressi. Violenze reciproche si sono verificate in quartieri e città dove la convivenza era da tempo – almeno sette anni – pacifica, da Gerusalemme a Tel Aviv, Caifa, Acri, Tiberiade, Hadara, Lod. In questa città – 80 mila abitanti, un terzo palestinesi, due terzi ebrei – gli scontri sono parsi quasi l’avvio di una guerra civile, tra comunità diffidenti e ostili non solo qui. Lod, leggo, è segnata da una fiorente criminalità. Violenze, sparatorie non sono una novità, ma ogni limite sembra venir meno quando paura e rancore investono arabi ed ebrei, contrapposti in quanto tali.
Le azioni militari sono sospese. Sia Hamas che Netanyahu si dicono vincitori. Hanno ragione. Hamas ha mostrato che l’invio massiccio di razzi – sempre più efficaci e di lunga gittata – è in grado di bucare la Iron Dome (Cupola di Ferro) che difende Israele. Si è accreditato come il rappresentante vero dei palestinesi, piuttosto del presidente dell’Autorità Abu Mazen, visto anche che nei territori interessati non si vota da 15 anni. In Israele ripetute elezioni non hanno portato a un governo stabile. Guerra e tensioni sono utili a Benjamin Netanyahu per allontanare la prospettiva di una maggiorana alternativa, che lo escluderebbe dal potere, con l’apporto dei partiti degli arabi, cittadini israeliani. Magari Netanyahu potrà convocare, da vincitore, le quinte elezioni anticipate. Hanno perso, continuano a perdere, gli abitanti tutti di Israele-Palestina che vorrebbero vivere nella pace possibile, senza persecuzioni, apartheid, terrorismo.
La cosiddetta comunità internazionale è attraversata da diverse pulsioni: c’è chi pensa di guadagnare dalla rinnovata tensione e chi spera che si attenui almeno e scompaia dalle prime pagine per altri sette anni. Nulla si fa per contribuire alla miglior convivenza in quelle terre. Nelle manifestazioni – si tengono anche nel nostro paese – non sventolano assieme le bandiere israeliana e palestinese. Eppure sarebbe un piccolo, buon segno di incoraggiamento per gli abitanti di un paese in cui la convivenza è necessaria e obbligata e nel quale esigue minoranze perseguono con coerenza questo obiettivo, contro repressione, persecuzioni, apartheid, terrorismo. Clamorosa l’assenza dell’Europa che sembra ignorare la dimensione mediterranea, essenziale anche per la questione immigrazione.
Torno a Gaza. Leggo su Internazionale un articolo del New York Times che parla della situazione di una famiglia, con bimbe piccole, sotto i bombardamenti. Scrive Alareer: “siamo una coppia palestinese perfettamente nella media: tra tutti e due abbiamo perso più di trenta parenti… Temo il peggio. E temo il meglio. Se ne usciremo vivi, come se la caveranno psicologicamente i miei figli nei prossimi anni? Vivranno nel terrore costante del prossimo attacco?”. Intanto si preoccupa di rassicurare le sorelline con la favola serale. Alla fine recita il solito ritornello “Toota toota, khalasat el hadoota. Hilwa walla maltouta”, cioè La storia è finita. Era bella o no? Di solito Matouta (brutta) dicono le bimbe per ottenerne un’altra. Questa volta dicono Hilwa (bella) e basta. Non è un bel segno. Con Alareer speriamo che le figlie possano conoscere di Gaza storie vere che meritino di essere dette, sinceramente, Hilwa.