Per mettere in discussione quel dominio si può cominciare anche da un giardino, da una storia di una persona comune, magari una donna, la cui vicenda è stata ricostruita molti anni dopo grazie ad altre due donne. Qui raccontiamo questa storia e spighiamo perché sulla targa coperta, dedicata a Elena, non c’era il drappo tricolore previsto dal protocollo
di Lorenzo Guadagnucci*
Avenza è una frazione del comune di Carrara ma è anche una piccola orgogliosa città ribelle, terra di anarchici e repubblicani, luogo natale di Gino Lucetti, l’anarchico che attentò alla vita di Benito Mussolini, e di numerosi militanti antifascisti. Il corso principale è intitolato a Gino Menconi, prima repubblicano poi comunista, a lungo in prigione e al confino durante il Ventennio, quindi in montagna col nome di battaglia “Renzi”, infine ucciso nell’ottobre del ’44 in un agguato teso dall’esercito tedesco durante una riunione di capi partigiani sull’Appennino parmense.
Alla fine di via Menconi, sulla sinistra percorrendo il senso di marcia obbligato, c’è un giardino che ha appena preso un nome: è stato intitolato a Elena Guadagnucci, “cittadina di Avenza, vittima della strage di Sant’Anna di Stazzema”, come si legge sulla targa scoperta il 10 novembre con una piccola, insolita cerimonia. Nata nel 1901, due anni dopo Menconi e uno dopo Lucetti, Elena non è stata né un’antifascista né una partigiana e tanto meno una protagonista della vita pubblica. Eppure la sua città natale ha scelto di onorarla con un’azione di “toponomastica femminile” che allarga anche il campo della memoria della resistenza e della “guerra di liberazione” oltre i canonici confini.
Di umili origini, Elena si trovò nel ’34 ad affrontare un cruciale dilemma esistenziale: ancora nubile, l’annuncio della sua gravidanza avrebbe fatto scandalo, in famiglia come fra conoscenti e amici. In aggiunta, il padre del nascituro era un uomo in vista di Avenza, sposato e padre di famiglia, probabilmente innamorato di lei ma per nulla intenzionato a lasciare moglie e figli. Dunque, che fare? Abortire, come tante “servette” come lei facevano a quel tempo? O portare avanti la gravidanza, magari lontano da sguardi troppo curiosi, e consegnare il neonato a un istituto per orfani? Elena scelse la via più difficile: tenere il bambino e vivere la propria condizione di madre senza un uomo accanto.
La parola “single” a quel tempo nemmeno esisteva, ma lei non si scoraggiò e affrontò le conseguenze della sua scelta: il ripudio da parte della famiglia d’origine, la necessità di lasciare Avenza e cominciare una vita altrove, nella vicina Versilia. La nascita di Alberto e i dieci anni vissuti serenamente con lui ripagarono Elena delle sofferenze patite nel luogo natale. Poi arrivò la guerra. Nell’estate del ’44, dopo l’ordine di sfollamento impartito dall’esercito tedesco attestato lungo la Linea Gotica, Elena salì con Alberto in un paesino di montagna tanto remoto e poco raggiungibile da sembrare sicuro nonostante il fronte così vicino. Era Sant’Anna di Stazzema.
La mattina del 12 agosto Elena pagò con la vita la scelta di restare sulla soglia di casa, convinta che le colonne di SS cercassero uomini adulti, potenziali partigiani, e nient’altro. Non era così. Quella di Sant’Anna di Stazzema fu la prima “strage eliminazionista” di quella tragica estate: circa quattrocento morti, un eccidio di donne e bambini. Alberto quella mattina disobbedì alla madre e non restò col lei ad attendere i soldati tedeschi ormai in arrivo: seguì un amico che s’era incamminato nel bosco al seguito del nonno, lui sì timoroso, in quanto maschio adulto, d’essere portato via dalle SS. È la storia raccontata dal sottoscritto nel libro Era un giorno qualsiasi.
La gente di Avenza nel dopoguerra aveva quasi perduto la memoria di Elena. Le lapidi, su a Sant’Anna, la indicavano come residente a Pietrasanta; i familiari – madre, sorelle e fratelli – l’avevano bandita e non si erano interessati alla sorte di Alberto nemmeno dopo la strage; per tutti gli altri valeva la consegna del silenzio e dell’oblio. C’è voluto l’intervento di due giovani donne legate ad Avenza, Claudia Buratti e Francesca D’Angelo, per ricostruire la vicenda di Elena e riconsegnarla alla storia della cittadina. Francesca ha raccolto le voci ancora circolanti fra le donne più anziane del paese, Claudia ha rimesso insieme i frammenti di una biografia oscura e sommersa. Il resto è storia di questi mesi. L’uscita del libro, una riuscitissima ed emozionante presentazione ad Avenza, la proposta di riportare Elena a casa con tutti gli onori, intitolandole uno spazio pubblico in quanto testimone di scelte e vicende esemplari, degne d’essere ricordate.
Elena aveva lasciato Avenza per sottrarsi a pressioni e maldicenze e seguire il suo desiderio di maternità: una scelta di libertà compiuta in tempi difficili e quindi particolarmente significativa. E poi Elena è stata testimone di ciò che gli storici hanno chiamato “guerra ai civili”, una guerra interna alla guerra più grande, quella combattuta dai tedeschi e dai repubblichini contro gli Alleati, e interna anche alla “guerra civile” che opponeva italiani a italiani, partigiani a fascisti. Ma la “guerra ai civili” – con migliaia di persone eliminate senza vergogna e senza rimorso perché considerate vite superflue – non è stata né un’invenzione né una specialità dell’esercito tedesco e dei suoi reparti speciali.
Tutte le guerre, da quella definita “Grande” in poi, sono principalmente guerre ai civili. Ecco perché la targa indicante il Giardino Elena Guadagnucci è stata coperta, prima dello svelamento, con due bandiere arcobaleno, invece che col drappo tricolore previsto dal protocollo. Le parole “Pace” e “Nonviolenza” campeggiavano sulle due bandiere a indicare qual è la direzione di marcia che il piccolo gesto compiuto ad Avenza vorrebbe indicare: evitare che la memoria delle stragi, così drammatica e presente nel vissuto popolare, resti rinchiusa e quindi neutralizzata dentro la cornice oggi prevalente, ossia il rito pur lodevole della dichiarazione antifascista, il sollievo pur comprensibile per avere sconfitto all’epoca il fascismo e l’occupante tedesco, il pur sentito e apprezzabile omaggio alle vittime. Ci vuole qualcosa in più.
La memoria delle stragi non può essere un rito consolatorio bensì un progetto che genera pensiero e azione. Chi sale in quei luoghi, specie se ha ruoli di potere (ma il discorso vale per chiunque), dovrebbe abbassare la testa, sentirsi a disagio e domandarsi se non sia complice delle Sant’Anna e delle Monte Sole venute dopo il ’45 in altre parti del mondo, delle guerre in corso per quanto siano definite necessarie, democratiche o umanitarie, della distinzione accettata socialmente fra le nostre vite degne di protezione e le “vite che non contano” destinate all’esclusione e all’annientamento.
In tutti questi anni non abbiamo fatto davvero i conti con l’autentica, profonda e vasta eredità che la storia dell’occupazione e della liberazione ci consegna. Ercole Ongaro nel suo prezioso libro Resistenza nonviolenta in Italia 1943-45 ha individuato ben dieci forme di resistenza individuale e collettiva al nazifascismo (oltre quella armata dei partigiani) e altri storici e storiche hanno messo a fuoco episodi e protagonisti della lotta disarmata, ma non per questo inefficace, condotta da tante persone e comunità.
Le storie e le scelte di tanti anonimi resistenti e resilienti senz’armi si sommano a ciò che le vittime delle stragi rappresentano e insieme compongono un patrimonio di esperienze e di idee oggi più prezioso che mai, perché alla retorica della “guerra necessaria e globale”, del “non c’è posto per tutti”, ai muri alzati dall’Europa Fortezza si può rispondere con l’indipendenza di giudizio, con l’azione personale, con la disobbedienza civile, con la ribellione alle disumane prescrizioni del senso comune, prendendo ispirazione da come vissero e come morirono tante persone che dovremmo considerare indimenticabili.
Ad Avenza in fondo alla via dedicata a Gino Menconi, antifascista e dirigente di partito, poco lontano dalla piazza intitolata a Gino Lucetti, testimone di un modo estremo e risoluto di lottare contro la tirannia, esiste ora anche un giardino intestato a una persona comune, una donna semplice che si è trovata ad attraversare a modo suo le pressioni e le oppressioni della storia. Una donna la cui storia può suscitare riflessioni nuove e anche aiutare, perché no, a capire meglio il presente.
* Giornalista e scrittore, fa parte del Comitato Verità e Giustizia per Genova. Ha aderito alla campagna “Un mondo nuovo comincia da qui“. Questo il suo blog.
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