Viene dal cuore, o dall’organo che in loro ne fa le veci. Sarebbe bello fosse così, ma conosciamo la “banalità del male”. Non ci sono solo questi “mostri”. Ci possiamo ricadere in tanti, quasi tutti, e sarà doloroso risvegliarsi, per chi lo potrà.
Dice la legge istitutiva che “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. L’inferno dei deportati, sia pure fortunati perché sopravvissuti, non finì in quel giorno, ma si protrasse per mesi, almeno fino alla resa della Germania nel maggio del ’45. Neppure fu semplice il seguito per le centinaia di migliaia (400?) di sopravvissuti dai lager. Mi pare giusto ricordare qualcosa di quella guerra, mentre altre se ne combattono attorno a noi, bruciando vite e risorse senza fine.
La guerra aveva lasciato in Europa almeno 45 milioni di morti, ai quali aggiungere i 13 milioni di assassinati dai nazifascisti (ebrei, rom, oppositori…), 40 milioni di persone fuori dai loro paesi, 20 milioni di orfani, 7 milioni di persone costrette ai lavori forzati, non per tutte finiti con la guerra… Avrebbe potuto andare ancora peggio se accanto alla “banalità del male” non avessimo conosciuto anche la “banalità del bene”. Conviene anche di questo avere memoria. Memoria, in greco Mnemosyne, madre delle nove muse, invita a perpetuare con le arti la bellezza e tutto ciò che merita e non solo a fare della “memoria” una funzione dei nostri computer. Ricordo è il latino re-cordor: richiamare al cuore. Ci sono vicende degne di memoria, azioni e persone che ci fa bene ricordare.
Ci aiuta un bel libro, Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah 1943-1945, che ho sentito illustrare dall’autrice Liliana Picciotto. Gli ebrei sfuggiti allo sterminio in Italia sono stati più dell’ottantuno per cento, malgrado ricerche, delazioni, arresti, deportazioni. Ci fu certo capacità di preveggenza da parte dei perseguitati nel sottrarsi alle peggiori conseguenze, usando con tempestività e intelligenza relazioni e risorse economiche. Ci fu chi comprese che non ci si sarebbe fermati alla negazione di diritti fondamentali, secondo le norme razziste del ’38, man mano aggravate. Dalla discriminazione si sarebbe giunti alla persecuzione fino allo sterminio. Ci furono altri che compresero, ma non ebbero mezzi e opportunità per salvarsi. Le cose precipitarono dopo l’8 settembre del ’43. Da allora la ricerca raccolta nel libro, durata nove anni, promossa dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, attesta che in parallelo alla persecuzione e alla deportazione si sviluppò tutta un’attività di aiuto concreto e decisivo ai fini della salvezza da parte dei cittadini comuni, secondo proprie capacità, risorse, assunzione di rischi. Ci fu anche questo in Italia, quasi a riscattare il comportamento precedente. Poca o nessuna opposizione c’era stata alle leggi del ’38 ed al loro aggravamento, quando non si era pure approfittato in ogni modo delle possibilità, offerte ai non ebrei, di occupare posti nelle professioni, negli impieghi, nelle attività e di impossessarsi dei beni sottratti agli ebrei. Anche allora c’era chi diceva “Prima i nostri!”. È un quadro complesso nel quale però emerge un’Italia migliore di quella che ci si poteva attendere, capace di generosità e solidarietà nei confronti di chi correva immediato pericolo di persecuzione e deportazione, fossero ebrei o giovani che si sottraevano alla leva della Repubblica Sociale. Spero che, seppure ben nascosta, questa Italia ci sia ancora.
Accanto a questa storia, dal ’43 al ’45, mi piace ricordarne un’altra, dal ’45 al ’48. È quella dei settecento piccoli orfani ebrei (polacchi, ungheresi, russi, romeni…) nella colonia montana Sciesopoli a Selvino (Bergamo), mille metri d’altezza. A loro ha dedicato un libro Sergio Luzzatto I Bambini di Moshe. Sono stati raccolti dalla Brigata ebraica – che ha combattuto dalle mie parti – a guerra appena finita tra le macerie, nei lager, nelle foreste dell’Europa dell’Est, sopravvissuti nelle condizioni più estreme. Sono stati portati in Italia. Non potevano tornare nei paesi d’origine. L’idea dei combattenti ebrei era di portarli, come poi avvenne, in Palestina. Ma intanto occorreva ospitarli, curarli, insegnare una lingua comune. Parri era Presidente del Consiglio, Lombardi Prefetto e Greppi Sindaco di Milano – qualità di governo e di amministrazione pubblica e locale non più raggiunta –, insieme trovarono la soluzione. La colonia intitolata al patriota Amatore Sciesa, la più bella d’Europa: riscaldata, 17mila metri quadri di parco, con piscina, sala cinema, dormitori. Molti di quei fanciulli, alcuni piccolissimi, non parlavano proprio traumatizzati da quanto avevano patito. Imparavano l’ebraico per prepararsi alla Palestina, la sola patria possibile, sembrava. Imparavano un mestiere. Giocavano e cantavano anche, per come li ricorda il figlio del custode di Sciesopoli. Aveva sei anni al loro arrivo e per tre anni ne ha condiviso la vita in questa sorta di kibbutz bergamasco. Man mano se ne sono andati e nel ’48 è finita la loro presenza. Ci sono stati dei ritorni per contatti negli anni ’60 e ’90 e un gemellaggio tra Selvino e Tze’elim, tra un paese alpino e un kibbutz nel deserto del Negev. Ritorni ci sono stati anche di recente. Ospiti di allora sono tornati con figli e nipoti. Se qualcosa della volontà di costruire assieme che ci fu a Selvino tornasse, in Israele-Palestina ci sarebbe qualche speranza in più. Chissà se ai piccoli ospiti qualcuno ha raccontato la storia semplice e coraggiosa di Amatore Sciesa. Noi l’abbiamo imparato alla loro età. Era un tappezziere di Milano condannato per propaganda sovversiva all’impiccagione. Non trovandosi il boia – non tutto funzionava anche sotto l’Austria – venne fucilato. Al processo lampo, seguito all’arresto del 30 luglio 1851 a sera, non scaricò responsabilità su alcuno: Mi soo nagott! Podi minga parlà, e parli no! Quel che è faa, è faa (Non so niente! Non posso parlare e non parlo! Quello che è fatto è fatto). Di lui ci resta il Tiremm inanz, al tentativo di fargli compromettere altri avendo salva la vita, facendolo sostare sotto casa nel percorso verso il luogo dell’esecuzione, avvenuta il 2 agosto.
La mia Giornata della Memoria è assieme a bambini delle elementari: scuola Bombonati, Ferrara. I più grandi si sono preparati su testi diversi spesso aventi protagonisti loro coetanei. Mi parlano, mi interrogano. Rispondo come posso. Tra le opere lette ci sono L’albero di Anne e L’albero degli amici di Jorge Luis Borges. Potrebbe esserci pure L’albero della memoria, ma non ne sono sicuro. Certo i nostri discorsi avvengono nei pressi di un bellissimo albero di legno d’abete, al centro della grande palestra. È completamente spoglio e dico loro di un altro albero, non così bello, piegato e deserto, che sta in un canto in yiddish, Oyfn veg shteyt a boym (Sulla strada c’è un albero) amato a Sciesopoli particolarmente dai piccoli polacchi: una madre non fa volare il suo bimbo sull’albero della vita caricandolo di troppi vestiti, per tenerlo al caldo. Si può solo immaginare cosa evocasse a quegli orfani ripetere mame (mamma). I ragazzi appendono all’albero un oggetto da loro realizzato ispirato alla letture fatte. Arrivano poi i piccolini. Anche loro dicono brevemente del loro lavoro e appendono un oggetto simbolico all’albero che ne è completamente rivestito. Come l’anno scorso parte il coro Gam-Gam-Gam Ki Elekh, intonato da 300 bambine e bambini. Con lo stesso canto il coro della scuola di Selvino ha accolto il ritorno, negli scorsi anni, degli ex ospiti della colonia alpina e delle loro famiglie.
http://www.sciesopoli.com/news/sulla-strada-ce-un-albero/