Giuseppe, Giuspa, era nato il 25 luglio 1888 a Priocca, un piccolo centro agricolo al confine tra la provincia di Cuneo e l’astigiano.Terminati i primi tre anni obbligatori si era trasferito ad Alba in Seminario per frequentare sino alla quinta elementare. Tornato in paese aveva iniziato a lavorare nella cascina paterna, diventando un punto di riferimento nell’associazionismo cattolico. Partito soldato, riceveva dopo 3 mesi l’esonero per motivi famigliari essendo il solo figlio maschio in famiglia. Alla mobilitazione dell’aprile 1915 era sposato da 4 anni. Erano mesi cruciali, in cui intere classi di leva venivano preparate in fretta e spedite sulle tradotte verso il fronte. Interi paesi assistevano alla partenza dei figli tra i soldati e di molti padri destinati alla milizia territoriale, tutti accumunati dalla stessa trafila: una visita grossolana in caserma, il numero di matricola, l’equipaggiamento. Nelle piazze d’armi gli ufficiali si adoperavano nell’oratoria nazionale: Trento, Trieste ed altre parole arrivavano alle orecchie di una truppa tanto affascinata dal suono della retorica quanto ignorante dei contenuti. La guerra c’era, questo doveva bastare ai contadini: lo diceva il Capo di stato maggiore del Regio Esercito, generale conte Luigi Cadorna. Ma lo diceva anche uno dei suoi consiglieri più ascoltati, il padre francescano Agostino Gemelli, che nel suo Il nostro soldato proponeva un’immagine laboriosa e paziente dell’esercito contadino che reggeva le fatiche ed andava incontro alla morte senza sapere né chiedersi un perché, fedele e partecipe alla religione del sacrificio e del lavoro che era espiazione e salvezza insieme. La stessa Chiesa, in particolare nelle diocesi cuneesi, aveva mantenuto attraverso i parroci un atteggiamento lealista, accantonando il neutralismo iniziale in nome di una pragmatica politica equidistante dal pacifismo dei socialisti e la neutralità parlamentare di Giolitti. Ma la storia di Giuspa è profondamente diversa perchè è quella di un uomo che disse “no” all’ordine di prendere il fucile e puntare altri uomini. Avrebbe sparato in aria, piuttosto che uccidere un solo austriaco. Per il Codice militare del Regno questo rifiuto si puniva con la fucilazione, ma questo rischio non bastava a far vacillare la nonviolenza di Giuspa, che grazie all’intervento del cappellano veniva nominato porta feriti. Nei momenti di tregua doveva saltare disarmato nella terra di nessuno e recuperare a spalle i feriti con il rischio di essere falciato alla prima raffica partita per capriccio da un ufficiale. Tarabra si distinse per coraggio e dedizione, meritando una medaglia di bronzo nel 1916 sul Pasubio. L’onore militare a chi aveva scelto il pacifismo in guerra: ma Giuseppe voleva salva la vita per sè, per i feriti e gli altri. Così, quando tutto il suo reparto si trovava circondato dal nemico e gli ufficiali incitavano ad avanzare verso il massacro, senza pensare alle conseguenze aveva urlato “Giù le armi“. Tutti i compagni avevano gettato a terra i fucili, consegnandosi prigionieri ma vivi. Essere prigioniero voleva dire patire la fame, il freddo, le malattie endemiche. Dai pochi stralci di corrispondenza si può intuire lo stato d’animo con cui Giuseppe viveva quei mesi: il 6 gennaio 1918 scriveva che “sono desideroso di vestito, camicia ed un libro di devozione. Mi raccomando che stiate tranquilli, regni tra voi la pace e la rassegnazione ai divini voleri. Io pregherò per voi“. Tra il 22 gennaio ed il 7 febbraio successivi specificava di trovarsi “in un campo di prigionia insieme a 15 mila miei fratelli, tra i quali una parte sono soldati prigionieri russi. Spero di avere il soccorso di voi e poi voglio star con la grazia di Dio sempre allegro e tranquillo“.
La scelta esistenziale di Giuspa colpisce per la sua radicalità in anticipo sui tempi. Solo a partire dal 1917 ed in particolare dopo la disfatta di Caporetto il mondo cattolico prenderà sempre più posizione nei confronti dell’”inutile strage”, in un clima di generale repressione delle idee alternative alle esigenze di sostenere lo sforzo bellico. Tarabra faceva ritorno agli inizi del 1919, riprendendo la sua vita di campagna sino alla morte nel 1966. Uomo pio, di una bontà assoluta e disarmante, punto di riferimento per poveri e mendicanti di mezza provincia che trovavano nella sua stalla un riparo e la certezza di un piatto caldo. Basti un aneddoto per calibrare lo spessore della sua bontà d’animo: una sera tra i mendicanti girovaghi accolti nella sua famiglia composta già da dodici persone, ne capitò uno che rifiutò la minestra,dopo averla assaggiata, lasciò il piatto intatto; era la stessa minestra servita a tutta la famiglia, Giuspa accortosi si avvicinò a quell’uomo, gli domandò se non si sentiva bene e avuta risposta che quella minestra non gli piaceva, disse ad Amalia, sua moglie: “Senti c’è un povero che non ha mangiato, forse non sta bene : facciamogli una minestrina” – “Ma caro Gep, adesso è già tardi, il fuoco è spento, quella minestra è la stessa che abbiamo mangiato noi. Non è troppo pretendere questo?” – “Abbi pazienza Amalia.Vedi, non ci vuole tanta fatica, io ti riaccendo il fuoco e tu in pochi minuti fai contento quell’uomo”. E quell’uomo fu accontentato.
Resta di Giuspa la lezione di un antieroe fedele alla propria ragione ed al messaggio originario del Vangelo, un disobbediente di Dio che torna oggi a raccontarci che alla violenza delle armi, delle parole, dello Stato e delle ideologie c’è sempre un’alternativa: la disubbidienza della coscienza.
Roberto Savoiardo
Gino Scarsi
Movimento Nonviolento
di Alba (Cuneo)
ottobre 2018