Ne parliamo dopo oltre un anno perché solo in questi giorni il difensore del bambino, l’avvocato Ben Crump, ha diffuso le immagini, in accordo con la madre.
Si sprecano già le polemiche sugli usi strumentali del video in relazione al movimento Black Lives Matter – Ben Crump è nero ed è molto impegnato nella tutela di persone afroamericane soggette a discriminazioni o abusi da parte della polizia – ma questo a me sembra secondario. Il fatto che si possa anche solo pensare di ammanettare un bambino mi impressiona, figuriamoci farlo.
Ricomincio dai fatti per come ho potuto ricostruirli leggendo parecchi articoli in rete. Un bimbo di 8 anni con bisogni speciali – disturbo dell’attenzione, ansia, depressione – viene portato dall’insegnante supplente in una parte della scuola dove non vuole stare. L’insegnante lo costringe e lo mette a sedere composto, e il bambino reagisce insultandola e dandole un pugno sul petto. Il pugno di un bambino di 8 anni non provoca lesioni ma in questo caso è sufficiente per chiamare la polizia. Gli agenti si avvicinano, il bimbo si gira contro un armadio e alza le mani, poi le porta dietro la schiena per farsi ammanettare in un movimento terribile per quanto appare spontaneo, appreso in chissà quanti film. Il poliziotto sembra imbarazzato, parla in tono calmo per dire qualcosa come: “capisci che hai sbagliato, vedi cosa mi tocca fare”, tanto per caricare sul bambino anche il proprio, probabile, senso di colpa. Il bimbo viene condotto per il fermo in un carcere per adulti e in seguito processato. Dopo un iter di 9 mesi è assolto ma è segnato da quanto ha vissuto, e la famiglia intende fare causa contro la città di Key West, il distretto scolastico della contea di Monroe e gli ufficiali incaricati dell’arresto.
In questa storia ci sono tante cose che non vanno. Un’insegnante incapace di reagire su un piano educativo al pugno di un bambino di 8 anni denuncia il proprio fallimento, dovrebbe cambiare mestiere. I giornalisti si chiedono se la signora sapesse dei bisogni speciali del bambino, argomento che ascolterei di più se si parlasse di un disturbo complesso – autismo, gravi compromissioni nelle relazioni – che qui non c’era. Se hai a che fare con un bambino che non vuol fare una cosa chiedigli perché, cosa importa la diagnosi. Può darsi che le sue esperienze in quell’area della scuola siano negative e non abbia nessuna voglia di ripeterle o di ricordarle. O che cerchi un’attenzione meno burocratica dall’insegnante. Che abbia voglia di fare un’altra cosa e vada cercata una mediazione. O ancora, o ancora. Tanto si può immaginare, tranne chiamare la polizia.
Per inciso, sul profilo Facebook di Ben Crump è pubblicato anche un video su un fatto diverso ma con tratti simili: una donna ha chiamato la polizia per fermare il figlio dei vicini che a 8 anni passava davanti casa sua, in area privata, con la bici giocattolo. Il video riprende la lite tra la signora e la madre del bambino. La mamma lamenta “dovevi chiamare me come madre, non la polizia”, l’altra ribatte “tu come madre non dovevi lasciare che tuo figlio…” eccetera. Viene sottolineato che l’offesa è di pelle bianca e la madre di pelle nera, e che bambini di carnagione lattiginosa fossero già stati visti scorrazzare nella stessa area con i loro biciclini senza turbare la padrona di casa. Tutto vero, senz’altro, ma che un’adulta chiami la polizia per un bambino di 8 anni a me sembra follia perfino aldilà del razzismo.
Punto secondo: un minorenne non dovrebbe entrare, mai, in un carcere per adulti. In Italia è illegale e quando succede per sbaglio – con un ragazzo che travisa la propria identità o che non ha documenti, per cui solo dopo accertamenti sanitari si apprende che non ha ancora 18 anni – si rimedia trasferendo l’interessato in un istituto penale minorile, cioè in un carcere per persone di minore età. Non serve un master universitario per capire quanto è importante questa distinzione, per il trattamento e per la compagnia. Il master lo fa il bambino, in criminologia applicata, se passa il suo tempo con persone che hanno fatto ben altro che dare un pugno alla maestra.
Ancora, nel nostro paese un bambino di 8 anni non può essere arrestato, bisogna aspettare i 14 anni. È imputabile chi è capace di intendere e di volere, ovvero è in grado di comprendere che un dato comportamento va contro la legge e lo sceglie consapevolmente. Di tanto in tanto vengono depositate proposte per abbassare il limite a 12 anni. Su Questione Giustizia il giudice Cristina Maggia, presidente del Tribunale per i Minorenni di Brescia e per molti anni a capo della Procura per i Minorenni di Genova, spiega con chiarezza perché non le sembra una buona idea.
Il mondo è bello perché è vario. La soglia dell’imputabilità passa dai 7 ai 18 anni a seconda dei casi, con una notazione speciale per l’Iran che prevede soglie differenti tra i sessi: 9 anni per le femmine e 16 per i maschi. Di seguito un confronto sull’età imputabile in parecchi paesi:
7 anni: Stati Uniti, Svizzera, Irlanda, India, Sud Africa, Thailandia, Sudan, Tanzania, Pakistan, Nigeria; 8 anni: Scozia, Indonesia, Kenia; 9 anni: Cina, Etiopia, Filippine e le bambine dell’Iran; 10 anni: Inghilterra, Galles, Irlanda del nord, Ucraina; 11 anni: Messico (12 anni per i delitti federali), Turchia; 12 anni: Olanda, Grecia, Canada, Marocco, Corea, Uganda, S. Marino; 13 anni: Francia, Polonia, Uzbekistan, Algeria, Israele; 14 anni: Italia, Germania, Russia, Austria, Slovenia, Romania, Lituania, Bulgaria, Ungheria, Vietnam, Giappone; 15 anni: Svezia, Danimarca, Finlandia, Norvegia, Islanda, Repubblica Ceca, Estonia, Egitto; 16 anni: Spagna, Portogallo, Argentina e i maschi Iraniani; 18 anni: Belgio, Brasile.
Alla luce di queste informazioni non è strano che la polizia statunitense intervenga a sanzionare un bambino di 8 anni, dopotutto è responsabile delle sue azioni già da quando ne aveva 7! E io sono felice di vivere in un paese dove la giustizia penale minorile è attenta alla personalità dell’imputato, inizia a 14 anni, ha fini rieducativi e considera la detenzione una eventualità del tutto residuale.
Per spiegarlo agli adolescenti, che spesse volte adottano con troppa leggerezza o inconsapevolmente azioni penalmente rilevanti, qualche anno fa al Tribunale per i Minorenni di Bologna abbiamo imbastito la simulazione di un processo penale minorile. È un bel gioco e non siamo stati gli unici a farlo. Considero un valore aggiunto che quando lo abbiamo messo in scena a Ferrara abbiamo coinvolto la città. Sulla base di un canovaccio che abbiamo curato in due – il pubblico ministero per gli atti d’indagine, la sottoscritta per quelli relativi alla situazione personale e familiare del giovane – ogni attore ha improvvisato in modo mirabile e spesso molto divertente attingendo dalla propria esperienza professionale. Il pubblico ministero minorile e il giudice che presiedeva l’udienza erano magistrati del Tribunale per i Minorenni di Bologna, ma poi il difensore era un avvocato ferrarese, la responsabile del Servizio per le Dipendenze di Ferrara era proprio la responsabile, il poliziotto sentito come testimone era un poliziotto della Questura cittadina … e via di seguito. Gli unici fuori dalla parte – però bravissimi – sono stati il presidente del tribunale per i minorenni nei panni dell’imputato e due amici educatori, peraltro marito e moglie anche nella realtà, nella parte dei suoi genitori.
Era l’ottobre 2014. Abbiamo filmato e prodotto un video che è una sorta di spettacolo teatrale, fulcro di un kit didattico intitolato “Non era un gioco”. Il materiale è stato inviato in diverse città e io stessa ho presentato il video in tante scuole ferraresi per discuterlo con gli studenti, durante incontri di educazione alla legalità particolarmente apprezzati. Difatti non se ne fanno più.