Ci dicono che il Natale è la festa dei bambini. Ho pensato a questo sfogliando notizie o ricordando storie a me vicine sui bambini nella guerra, o nella violenza, o nelle difficoltà. Le tralascio, oggi, e trascrivo qui una delle cose più belle che ho ascoltato di recente sull’infanzia. Tratta di uno dei diritti più tradito di tutta la Convenzione di New York a ogni latitudine, anche dove sono generalmente e sufficientemente assicurati molti altri diritti come quello di avere un nome, andare a scuola, essere curato nella malattia. Anche dove i bambini non vanno in guerra, e neppure i loro adulti di riferimento, e già è moltissimo. Per me, nella mia latitudine, il più amato è il diritto all’ascolto.
Proprio in questi giorni ho ritrovato un vecchio articolo per una rivisita che tratta di giustizia minorile, l’avevo intitolato “Il contrario di violenza è ascolto”. Ne sono ancora persuasa. Credo passi di qui, necessariamente, “l’apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo del vivente”, che è uno dei modi di dire nonviolenza secondo Aldo Capitini. Non possiamo essere aperti all’altro se non lo ascoltiamo. E sono consapevole non si tratti di un’attenzione limitata alle parole ma rivolta a ogni forma di espressione, il non verbale certo, così accade che si ascoltino anche i bisogni dei bambini piccolissimi, o di quelli un po’ più grandi ma che per motivi precisi non sono in grado di parlare, oppure coloro che ci parlano – bambini e adulti – in una lingua che non conosciamo.
Se il contrario di violenza è ascolto, ed è nella nonviolenza che desideriamo crescere i bambini (il contrario dell’umiliazione, ma non voglio aprire ora questo discorso), abbiamo il compito di non abbandonare la preziosa facoltà di ascoltare, anzi di tenerla allenata. Ricordando che anche nel rapporto con noi stessi, e con altri adulti, abbiamo l’impegno di ascoltare i bambini, quelli che siamo stati e non smettiamo di essere. A volte sembra proprio di vederli sotto la buccia effimera di una pelle più spessa, denti meno lucenti, trame di rughe.
Il testo che segue è di Marco Baliani, lo stesso attore e raccontastorie di cui ho parlato la settimana scorsa dopo aver visto il suo spettacolo “Una notte sbagliata”. Questo brano è tratto dalla presentazione del suo libro “Ogni volta che si racconta una storia” avvenuta qualche anno fa nel Palazzo delle Arti di Trani. È una conferenza molto bella, si può ascoltare qui.
Un bambino a cui vengono raccontate tante storie impara a sua volta a raccontarle. Prima di tutto impara ad ascoltarle, che è il fondamento della narrazione orale. Io ho bisogno che l’altro mi ascolti. L’ascolto è qualcosa di molto prezioso perché non è solo ascoltare le parole, è ascoltare l’immaginazione che il narratore evoca e quindi costruire le immagini insieme a lui, quindi produrre immaginazione. Uno spettatore che assiste a un racconto sta lavorando di immaginazione, sta costruendo il personaggio che viene evocato in scena. Rendere visibile l’invisibile, questo è il lavoro del narratore, sempre. (…)
Perché il bambino vuole sapere tanto della vita dell’adulto, perché chiede che venga raccontata una storia? Beh si proietta nel futuro, vorrebbe capire come si fa a vivere, come si fa a crescere. Ha anche lui tanti racconti dentro, tantissimi. Io a dieci anni avevo già fatto tutto.
Tutte le esperienze che ho fatto dopo nella vita, a 10 anni le avevo già fatte tutte, con un’intensità che non si ripeterà mai più. Non ero furbo, non ero preparato a parare i colpi del destino che mi arrivava addosso.
A 10 anni abbiamo già amato, siamo già stati traditi, abbiamo commesso atti di vigliaccheria… abbiamo subito atti di bullismo, li abbiamo fatti… ci siamo erotizzati, abbiamo stretto amicizie incredibili e poi le abbiamo rotte. Ci siamo sentiti affratellati in un gruppo e poi ci siamo sentiti esclusi. Siamo caduti, ci siamo fatti delle ferite, delle cicatrici. Tutto è successo in quei dieci anni. Abbiamo avuto paura, ci siamo sentiti goffi, ci siamo sentitit inadatti, incapaci… Tante cose ci sono accadute. Mai una volta che un’insegnante mi abbia chiesto di raccontarle. Mai. Tredici anni di scuola, e mai una volta che qualcuno mi abbia chiesto le mie storie.
Io ero pieno di storie. Ogni bambino è pieno di storie. Ma a scuola non si chiedono. A scuola bisogna imparare a leggere, a scrivere, e imparare le storie degli altri. Le storie degli adulti. Poi lo so che ci sono insegnanti meravigliosi, ma sono una minoranza, che permettono all’allievo non solo di imparare ma anche di insegnare. Perché quando a un ragazzino dai la possibilità di parlare delle sue cicatrici per esempio, sta insegnando agli altri. Sta insegnando che cos’è il dolore, che cos’è la paura, che cos’è l’impotenza… il sangue che scorre. Parlo delle cicatrici visibili, poi ci sono le cicatrici interiori. Perché non ce l’hanno chiesto?
Questo è uno dei motivi per cui poi si cresce sentendosi sempre inadeguati, come se il problema della crescita fosse imparare le storie che l’adulto pretende che noi impariamo. Ma non sono nostre. Vanno bene per carità, più ne impariamo meglio è, però le nostre non ce le hanno mai chieste. È una perdita.
Mi domando perché soprattutto nei primi anni di scuola, alle elementari e alle medie, non si lavora sul racconto orale. Si impara a leggere, si impara a scrivere, con una fatica incredibile, e la cosa più semplice del mondo che è parlare non viene educata. E se non c’è l’abitudine a parlare non c’è nemmeno quella ad ascoltare, e se non sei capace di ascoltare è difficile entrare in relazione con l’altro.
Il teatro è questo, è qualcosa in cui tu entri nella pelle id un altro, completamente diverso da te, e lo fai vivere. Hai la possibilità, in quel breve momento dell’atto teatrale, di essere qualcuno diverso da te. È una cosa molto bella. Io nella mia vita sono morto almeno nove volte, in nove modi diversi. Sono ancora vivo però, e lo posso ancora raccontare.