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I piccoli profughi in Mozambico vorrebbero tanto tornare a casa

DiElena Buccoliero

Lug 29, 2021
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Save the Children International (SCI) se ne preoccupa in diversi contesti. Uno dei lavori più recenti è la consultazione di 95 ragazzi e 89 ragazze tra i 12 e i 17 anni avvenuta nel marzo scorso in Mozambico, a Cabo Delgado, per ascoltare le loro esperienze, necessità, progetti e preoccupazioni. Fatto molto importante, gli intervistatori hanno parlato sia con giovani profughi (131) sia con coetanei che stanno di casa nei luoghi dove sono sorti i campi (53 ragazzi) per guardare la stessa realtà da diverse angolazioni.

Occorre dire che Save the Children International conosce bene questa realtà. È a Cabo Delgado dal maggio 2019, all’indomani del ciclone Kenneth, e vi è rimasto per soccorrere gli sfollati dal conflitto armato della provincia settentrionale. Centinaia di migliaia di bambini sono stati costretti a lasciare le loro case insieme ai familiari portando con sé appena uno zaino con qualcosa da vestire. Si stima che oltre un terzo della popolazione della zona sia sfollata a Cabo Delgado e nei dintorni di Nampula o delle province di Niassa. Nell’aprile 2021 772mila persone, di cui circa 348mila bambini, si trovavano lontani da casa, sia che fossero in campi profughi o nei nuovi insediamenti offerti dal governo nei quali ricominciare completamente la propria vita. Save the Children definisce quella che si consuma una vera e propria guerra contro i bambini, a carico dei quali si registrano purtroppo frequenti rapimenti – almeno 51 nei primi sei mesi del 2021 –, decapitazioni e arruolamenti illegali, con le conseguenze traumatiche immaginabili (o forse inimmaginabili) per coloro che assistono a queste violenze.

Colpisce l’attenzione metodologica usata dall’Associazione nella consultazione: ragazzi e ragazze sono stati ascoltati in gruppi omogenei per genere, quelli maschili con l’aiuto di facilitatori e quelli femminili con facilitatrici, e sempre all’aperto, con mascherine e gel per le mani, nel rispetto delle precauzioni sanitarie. Le domande si sono concentrate sul presente e sul futuro, non sul passato, per proteggere i testimoni dal ricordo delle violenze da cui sono fuggiti, con i genitori o da soli.

Le richieste dei ragazzi sono chiare ed essenziali. La mancanza di cibo è una preoccupazione importante insieme al disagio di dormire per terra e alla mancanza di zanzariere o di acqua pulita che li espone alla malaria e al colera. Tanti chiedono che la scuola sia veramente accessibile e che sia provvisto il materiale scolastico di base. A proposito di istruzione si segnalano bambini della realtà ospitante che hanno dovuto interrompere gli studi da quando le aule sono state messe a disposizione dei profughi, il che ha provocato atteggiamenti ostili dei residenti verso i nuovi arrivati. In generale i ragazzi in fuga dalla guerra hanno sentito intorno a sé calore e solidarietà, ma vengono segnalati anche atteggiamenti di razzismo o rifiuto.

Anche lo smarrimento dei documenti d’identità o del certificato di nascita è una preoccupazione diffusa. Colpisce per la sua autenticità la frustrazione di chi, andando a scuola, può assistere alle lezioni ma non è realmente parte della classe e se ne accorge ogni giorno quando, al momento dell’appello, il proprio nome non viene pronunciato.

Spazi aperti e sicuri dove giocare sono una nostalgia e un desiderio futuro. Chi è stato separato dai genitori ha il forte desiderio di avere loro notizie, quasi tutti vorrebbero ritornare a casa sapendo di poterlo fare in sicurezza.

Ancora, tanti ragazzi e ragazze nei luoghi di provenienza s’industriavano con piccoli lavoretti – la raccolta della frutta, ad esempio – e riuscivano in tal modo a contribuire al magro bilancio familiare. È umiliante per loro non poter dare una mano ai genitori e, magari, assistere ai loro tentativi di raggranellare qualcosa di più per la famiglia barattando il cibo offerto dalle organizzazioni umanitarie con abiti, candele, scarpe o altri beni di prima necessità.

“Abbiamo tante domande su quello che ci sta succedendo”, hanno detto diversi intervistati, “ma i responsabili del campo profughi quando vengono non parlano mai con noi, e i nostri genitori, se facciamo domande, si innervosiscono, urlano e alcuni arrivano a picchiare”. Eppure, ragazzi e ragazze sentono forte il bisogno di trovare una logica in quello che stanno vivendo e che ancora li tiene lontani da casa.

È lì che vorrebbero tornare, a casa. Con la rassicurazione che la guerra è terminata e possono riprendere la loro vita al sicuro. Ma sanno stare nel presente e chiedono di contare di più. Vorrebbero esercitare il diritto affermato dalla Convenzione di New York che riguarda la possibilità di essere ascoltati e di partecipare alle scelte che li riguardano

D’altro canto i bambini cresciuti a Cabo Delgado auspicano che i coetanei ricevano gli aiuti necessari per andare a scuola o per essere curati dalle malattie. Diversi raccontano di avere visto i genitori mettere da parte cibo per i profughi e consegnarlo, e a propria volta si sono disposti all’accoglienza dividendo il cibo o i giocattoli da usare insieme.

Effettivamente forse sarebbe una buona idea, lasciar fare ai bambini quando si tratta di fermare una guerra.

 

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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