La festa del 2 giugno ricorda la nascita della Repubblica come esito del referendum istituzionale celebrato il 2 e 3 giugno 1946. Entrata in vigore il primo gennaio del ’48, svestì immediatamente il suo abito civile per indossare una bella divisa grigioverde da esibire nella tradizionale parata militare.
Quale le motivazioni? Per quel primo atto, c’è forse anche una ragione politicamente contingente: l’inizio di una guerra fredda che imponeva all’Occidente di ostentare pubblicamente le proprie capacità belliche. Infatti, la prima sfilata interessò non una ma ben dieci città.
Ma la domanda che mi pongo è un’altra: perchè far sfilare i reparti in armi se esiste già una festa delle Forze armate? Come tutti sanno, è il 4 novembre, che segna l’entrata in vigore dell’armistizio di Villa Giuisti, e quindi la fine della guerra 1915-18. Una certa retorica storiografica ci ha consegnato tale evento come la conclusione della “quarta guerra di indipendenza” che dava all’Italia Trento e Trieste “redente”. Essa rappresenta il compimento e completamento dell’unità nazionale. Dato che ogni Stato moderno, nel momento in cui definisce la sua giurisdizione territoriale, pare debba nascere sempre sotto gli auspici di Marte, come fatto d’arme, vittoria su un nemico purchessia, allora prende avvio la costruzione di una tradizione dai forti valori simbolici. L’indipendenza così come le libere istituzioni del nuovo Stato, non possono essere preservate se non dà una forza armata di cittadini in divisa. Nel senso comune, il binomio è dato per scontato. Anche se non è così, o non è più così, dal momento in cui, proprio con l’obiezione di coscienza prima e la nascita del servizio civile poi, il principio costituzionale della “difesa della Patria [come] sacro dovere del cittadino” (art. 52) ha avuto un’evoluzione proprio in senso non militare. Sta di fatto che a tutt’oggi – e sarebbe ipocrita negarlo, – il genere militare della commemorazione mantiene la preminenza su quello civile: l’opinione pubblica abbina immediatamente la festa del 2 giugno con la parata dei Fori imperiali. Essa ne è la parte attraente ed eroica e, nei fatti, diviene l’oggetto centrale del rito, alterandone, a mio parere, il significato storico e politico. Esistono quindi due anniversari sui quali agisce lo stesso protagonista (le forze armate).
Perchè invece non pensare ad una ridefinizione del genere commemorativo in modo che la percezione che se ne ha risponda alla natura distinta, unica dell’oggetto commemorato? Mi sembrerebbe più logico e, se si vuole, da un punto di vista storico, più opportuno, concentrare sul 4 novembre (al di là delle mie personali convinzioni sul significato da dare a questa data e sul modo di ricordarla) la memoria dei fatti d’arme, e “liberare” invece il 2 giugno da tale incongruo carico di significati ambivalenti per riconsegnare la giornata della Repubblica alla sua cifra civile: una vera e propria festa della Costituzione. È un dato storicamente inoppugnabile che l’esercito non abbia avuto alcuna parte nell’evento del 1946 in sè, essendo stato suo unico protagonista il popolo sovrano e una semplice azione democratica disarmata: il voto.
Del resto, se si guarda agli elementi che compongono l’emblema della nostra Repubblica, è difficile scorgere qualche riferimento militare. Anzi. La ruota dentata, simbolo dell’attività lavorativa, traduce il primo articolo della Carta costituzionale; il ramo di ulivo simboleggia la volontà di pace della nazione, sia nel senso della concordia interna che della fratellanza internazionale, mentre la quercia descrive la forza morale, oltre che la dignità, del popolo italiano. Infine, la stella, che ripropone una continuità con l’iconografia risorgimentale. A questo punto il 2 giugno potrebbe diventare la festa delle “nuove cittadinanze”, al plurale: la prima rappresentata dai nostri ragazzi che al compimento del diciottesimo anno acquisiscono il diritto al voto, diventando, a tutti gli effetti, attori protagonisti dell’inveramento dei principi democratici.
La seconda cittadinanza dovrebbe invece riguardare coloro che arrivati da altri Paesi, hanno deciso di diventare a tutti gli effetti italiani in base ad una loro scelta. Nel primo caso come nel secondo, i rappresentanti delle istituzioni locali, potrebbero promuovere tale avvenimento come fatto pubblico, rito laico di passaggio, in cui la comunità naturale o d’accoglienza accompagna i suoi “nuovi ” membri in questa sorta di ri-nascita civile, sollecitando in loro una più matura responsabilità, coscienza ed impegno a favore della società di cui fanno parte. In tale occasione, il rappresentante dell’amministrazione locale (dal presidente di un quartiere al sindaco di un paese) potrebbe donare solennemente una copia della Costituzione. Non ci vuole molto, si può fare senza una legge particolare e a costo zero. Basta il buon senso e un po’ di buona volontà.
Roberto Cucchini