• 23 Novembre 2024 15:02

Il camiciotto o la cravatta? Il GAN nelle piazze per parlare alla gente

DiDaniele Lugli

Set 18, 2023

Aggiungiamo ancora un tassello al racconto che Daniele Lugli ha fatto del GAN, il Gruppo di Azione Nonviolenta coordinato da Pietro Pinna. In quel gruppo, nei primi anni Sessanta, cinque giovani – Daniele tra questi – hanno aperto in Italia il dibattito sul riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare.

Negli articoli precedenti Daniele ha ricordato come è nato il GAN nazionale, la sua proiezione nell’impegno locale, lo svolgersi delle prime manifestazioni.

In questa fase della lunga intervista, raccolta da Elena Buccoliero nel febbraio 2020, si addentra nel significato delle presenze in piazza. Descrive le strategie che il gruppo aveva individuato per comunicare con i passanti e il modo di gestire il rapporto con le forze dell’ordine.

Parlami ancora delle manifestazioni del GAN. Come si svolgevano?

Beh, intanto, si tenevano normalmente di sabato o di domenica. Il lunedì mattina lavoravo, anche altri, quindi dovevamo essere sicuri di rientrare a casa in tempo. Spesso facevamo le manifestazioni alla mattina. Potevano essere molto molto semplici: stazionamento in un punto, distribuzione di volantini alla gente che si avvicinava.

Bisognava saper rispondere alle provocazioni in modo nonviolento. Ricordo quando mi buttarono per terra i manifestini, a Firenze, dandomi del finocchio. Non mi ha fatto molto piacere, visto che ero lì con mia moglie, però, diciamo… Avevamo imparato a rispondere in modi non rassegnati, sempre diretti, ma senza cadere nella provocazione.

Per esempio?

Ah beh. Ho detto: «Ma, mi conosce lei? Come si permette?». Non serve molto più che questo. Ricordo Viola, che manifestava con noi e poi ha fatto obiezione di coscienza affrontando il processo, quando gli buttarono via i volantini. Lui si contenne, poi una volta in riunione diede due pugni violentissimi contro il muro – ride – si vede che aveva dentro qualcosa che doveva essere in qualche modo affrontato. Si fece anche male alle mani.

Non è semplice controllarsi, forse soprattutto a vent’anni.

No, infatti. Noi in questo avevamo l’esempio di Piero Pinna. Sempre apparentemente imperturbabile davanti a quello che avveniva però sempre anche fermissimo. Per cui, quando ci fermava la polizia e la prima cosa che faceva era portarci via i cartelli, lui era subito pronto a dire: «Guardi, li tratti bene sa, perché noi li facciamo, ci costano fatica, ci abbiam messo del tempo a farli».

Scusa, mi viene da ridere.

Eppure…

Ecco, mi chiedi come ci presentavamo. Proprio perché era festa spesso eravamo vestiti con i vestiti della festa. Ci preparavamo a stare bene, dentro alla manifestazione. Se ci sono le fotografie di allora, vuol dire che sarò correttamente in scuro con la cravatta e la camicia bianca.

Abbiam visto dopo che questo serviva. Inizialmente lo abbiamo fatto per presentarci alla gente come persone civili, attente. Ma questo aveva anche un effetto dissuasivo sulla polizia. Se ti proponi in un certo modo la polizia ha più remore nel metterti le mani addosso. Ti prendeva per un braccio, diceva “Venga”, l’uso del lei sempre nei nostri confronti… Questo veniva dal nostro modo di presentarci, non c’è dubbio.

Eravate tutti così chic?

Non tutti, però tendenzialmente sì. Questo mi aveva fatto opporre all’idea di Piero, che voleva convincerci a metterci addosso tutti un camiciotto con su scritto “obiezione di coscienza”, oppure “una legge per l’obiezione di coscienza”, per renderci più visibili. Un camiciotto fatto con vecchie lenzuola. Non so se mi opponessi perché ci tenevo all’eleganza, oggi non saprei dire. Ma io avevo un bel portare la cravatta e la giacca, se sopra c’era un camiciotto con scritto “obiezione di coscienza” l’effetto era molto attenuato! Difatti all’inizio solo Piero lo aveva adottato. Poi ci convinse: «Facciamo una prova». Andò bene. C’è una mia lettera nella quale gli dico: «Avevi ragione anche questa volta». L’essere riconoscibili da lontano aveva influito nella comunicazione con la gente. Solo, quell’approccio inappuntabile restava affidato al modo di parlare con la gente, alla cura nei cartelli… non più tanto all’immagine,

Dovevate affinare la comunicazione. Eravate sei in tutto…

No, aspetta. Uno non c’è mai stato. Quindi siamo partiti in cinque. Ma il GAN s’è ingrandito perché ciascuno, dove operava – io a Ferrara, Bellettato a Rovigo, a Milano Stoppani… – ha avviato una rete di contatti con le persone che conosceva. E quindi ha attratto altri, che potevano aggregarsi alle manifestazioni a seconda di dove si andava. Non erano mai posti dove non conoscevamo nessuno.

Quando si dice «farsi centro»… per richiamare Aldo Capitini.

Magari c’era una persona che non faceva parte del gruppo però aveva saputo che portavamo il tema dell’obiezione di coscienza, riscontrava un interesse personale o nel suo ambiente e si metteva in contatto con noi. E ogni volta le modalità della manifestazione erano legate al luogo dove andavamo, a chi ci aveva chiamati, ai contatti che avevamo.

Certo, erano manifestazioni molto diverse. Delle volte potevamo essere in un discreto gruppo e in luoghi affollati, allora si formavano capannelli di persone che discutevano. Altre volte magari la questura diceva «Qui ve la autorizzo, là no», ci andavi e vedevi che non c’era nessuno, bastava essere in due o tre per distribuire un po’ di volantini.

Come reagiva la gente che si fermava a parlare con voi?

Mah, complessivamente avevamo delle reazioni non male, cioè, di rispetto. Noi raccontavamo che l’obiezione era già riconosciuta in diversi paesi, dove alle persone che per motivi seri – religiosi, morali, politici – non volessero fare il servizio militare era offerta un’alternativa. E che pensavamo fosse un fatto di civiltà, che dovesse trovare spazio anche in Italia. In ogni caso, spiegavamo che era inumano il meccanismo italiano che faceva processare gli obiettori davanti a un tribunale militare, condannare e ricondannare senza che ci fosse neppure una certezza della pena. Ma cos’è, gli dai vent’anni?

Di Daniele Lugli

Daniele Lugli (Suzzara, 1941, Lido di Spina 2023), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sarà nella segreteria dal 1997 per divenirne presidente, con l’adozione del nuovo Statuto, come Associazione di promozione sociale, e con Pietro Pinna è nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, Assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell’Educazione all’Università, sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali - argomenti sui quali è intervenuto in diverse pubblicazioni - e molto altro ancora fino all’incarico più recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. È attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una società civile degna dell’aggettivo ed è e un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell’ambiente. Nel 2017 pubblica con CSA Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948