• 3 Luglio 2024 7:50

Il mestiere delle armi

DiDaniele Lugli

Mar 29, 2022

Leggo su Internazionale la definizione della parola “guerra”: “Conflitto aperto e dichiarato fra due o più stati, o in genere fra gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi condotto con l’impiego di mezzi militari”. Fiorente è l’attività di produzione e commercio di armi sempre più nuove, sofisticate, letali. Leggo anche che “sono 59 le guerre in corso nel mondo in questo momento” nelle quali le armi sono sperimentate. Del resto è per questo che sono fatte.

Tra soggetti coinvolti e coinvolgibili nelle guerre l’elenco sarebbe lungo. Faccio prima a indicare gli undici Stati che, al momento, sarebbero fuori dalle guerre: Botswana, Brasile, Cile, Costa Rica, Giappone, Mauritius, Qatar, Panama, Svizzera, Uruguay, Vietnam. L’Ucraina, che seguiamo in diretta e con partecipazione, non chiude alfabeticamente l’elenco dei teatri di guerra. La seguono almeno l’Uganda (dopo una guerra civile riesplode la guerra del cobalto ai confini con la Repubblica democratica del Congo, che non conosce pace), gli USA (sarebbe più facile forse indicare in quale guerra non sono coinvolti), l’Uzbekistan (scontri per ragioni di confine con il Tagikistan), lo Yemen (in guerra da sette anni, con quasi 400 mila vittime: ogni 9 minuti un bambino muore).

L’annuale rapporto SIPRI (Stockholm International Peace Research) è certo il più attendibile nel valutare la spesa militare anno per anno. Attesta che negli ultimi dieci anni la spesa globale è cresciuta del 9,3%. Un’infografica del Sole 24 Ore offre una rappresentazione significativa della situazione.

Il primo posto è degli Usa, la Cina è seconda. La sua spesa è un terzo di quella statunitense. Nel 2009 era un settimo. Al terzo posto è l’India, già al decimo nel 2009 e quarta la Russia. Seguono Regno Unito e Arabia Saudita. La spesa militare ucraina è un decimo di quella russa. In dieci anni la spesa, in percentuale sul PIL, è passata in Ucraina dal 2,7% al 4,13% e in Russia dal 3,5% al 4,26%. In termini assoluti la spesa ucraina è quasi triplicata rispetto a 10 anni prima, mentre in Russia gli investimenti si sono accelerati negli ultimi tre anni. Quel che è sicuro è che l’Unione Europea, ai fine della propria sicurezza, tutto ha da fare, salvo che aumentare la spesa militare. Indico per ciascuno Stato la spesa espressa in milioni di dollari: Austria 3.494, Belgio 5.330, Bulgaria 1.210, Cipro 414, Croazia 1.031, Danimarca 4.838, Estonia 687, Finlandia 3.986, Francia 51.572, Germania 51.570, Grecia 5.237, Irlanda 1.125, Italia 28.370, Lettonia 739, Lituania 1.135, Lussemburgo 479, Malta 79, Paesi Bassi 12.211, Polonia 12.815, Portogallo 4.557, Repubblica Ceca 3.200, Romania 5.579, Slovacchia 1.778, Slovenia 562, Spagna 17.160, Svezia 6.234 e Ungheria 2.453.

Se si sommano le spese di Francia, Germania, Italia si ottiene la cifra di 131.512 milioni di dollari. La spesa russa, 66.838, supera di poco la metà. Lascio a chi vorrà il calcolo della cifra che si raggiunge aggiungendo gli altri 24 stati dell’UE. Inoltre i Paesi candidati a entrare nell’Ue sono al momento cinque. Eccoli con la relativa spesa militare, sempre in milioni di dollari: Albania 216, Repubblica di Macedonia del Nord 154, Montenegro 100, Serbia 1.086 e Turchia 19.567, la più rilevante. Domanda, oltre all’Ucraina, 5.595, hanno presentato Georgia, 304, e Moldavia, 43. E perché dimenticare il volonteroso Kosovo con i suoi 77 milioni? Se pensiamo all’Europa dovremmo calcolare pure il Regno Unito, 58.485 milioni, che non si tira indietro se c’è da far guerra, la Svizzera, 5.428 milioni, dove ogni cittadino nasce soldato e la Norvegia, con 7.514 milioni e l’Islanda con 12. L’Europa supera in spesa pure la Cina, se si fanno i conti giusti: 1^ USA, 2^ Europa nell’orrida classifica.

Se dell’Europa si dice essere un verme militare è certo che non è perché spende poco in armi ed eserciti. È perché, come noto e ripetuto, è un nano politico. Crescere vuol dire diventare uno stato federale, democratico e promotore di diritti e pace all’interno e oltre i suoi confini.

Si pone l’enfasi su un possibile embrione di esercito europeo: 5 mila uomini, per cominciare, armati fino ai denti. Senza un potere federale riconosciuto, un bilancio federale, una costituzione federale è una compagnia di ventura. Potremmo chiamarla Beethoven, contraltare della sperimentata Wagner, tristemente nota compagine di mercenari al servizio del Cremlino. L’Europa, infatti, ha fatto proprio l’Inno alla gioia e non la Cavalcata delle Valchirie. A questo proposito, poiché stiamo parlando di mercenari provetti e di dubbi volontari (siriani e ceceni) perché non comprarli per farli passare dalla parte ucraina? Forse ci si sta provando. È bene insistere. Chi sta bene, almeno fino al generale cataclisma bellico, sono produttori e trafficanti di armi. La loro attività non ha subito alcun effetto negativo dalla pandemia, peraltro sempre ben associata alle guerre. Qui un’eccellenza l’abbiamo: la Leonardo. È tra le principali produttrici di armi a livello mondiale. Ci ha regalato il manager Roberto Cingolani, come ministro alla transizione ecologica. Dei passi in questa direzione non ci siamo accorti.

Il nome ci ricorda il Da Vinci, bravo non solo nel ritrarre sorrisi e ultime cene, ma precursore di macchine da guerra in cielo, in terra, in mare. Oltre a ponti smontabili e velocemente operativi, per superare corsi d’acqua (i ponti Bailey della Seconda guerra mondiale), si possono ricordare la vite aerea e l’ornitottero ad ala battente, antesignani dell’elicottero e dell’aereo, con il limite di potere contare, per la propulsione, solo sulla forza muscolare. In terra meritano ricordo il carro falciante e quello armato e la bombarda multipla, con 16 bocche di fuoco. In acqua poi progetta un insidioso sottomarino, precursore dei mezzi d’assalto. dei quali la nostra marina si è in passato vantata.

A Ferrara c’era una volta un duca cannoniere, abilissimo nel produrre e vendere armi, con un piede (un feudo) papalino e l’altro imperiale: Franza o Spagna purché se magna, insegna di ogni fabbrica d’armi. Sono suoi i falconetti donati a Frundsberg. Un colpo preciso ferisce Giovanni dalla Bande Nere, morto poi di cancrena. Bello il film di Olmi che ne parla. Il duca si prende cura dello stesso Frundsberg, malato. Rifornisce di viveri, munizioni e denari i lanzichenecchi accampati, evitando il saccheggio del ducato. I lanzi avranno modo di rifarsi a Roma, mettendola a sacco. Sa tener conto della situazione complessa nella quale opera. Non sembra che altrettanto facciano gli attuali governanti.

Di Daniele Lugli

Daniele Lugli (Suzzara, 1941, Lido di Spina 2923), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sarà nella segreteria dal 1997 per divenirne presidente, con l’adozione del nuovo Statuto, come Associazione di promozione sociale, e con Pietro Pinna è nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, Assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell’Educazione all’Università, sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali - argomenti sui quali è intervenuto in diverse pubblicazioni - e molto altro ancora fino all’incarico più recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. È attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una società civile degna dell’aggettivo ed è e un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell’ambiente. Nel 2017 pubblica con CSA Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948

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