Qualche giorno fa sono stato invitato da una emittente locale a riflettere, insieme al Capo della Sezione criminalità organizzata della Polizia di Palermo su un fenomeno dai tratti aberranti, venuto alle cronache già un paio di anni addietro.
Si tratta di un caso di frodi assicurative di grandissime dimensioni. Qui però gli illeciti non servivano, come sempre è avvenuto, forse in maniera fisiologicamente accettata dalle compagnie assicurative, per rifare la carrozzeria dell’auto di qualche furbetto di turno.
Il sistema di truffe rispondeva alla doppia esigenza di persone fragilissime pronte a sottoporsi a sevizie indicibili per qualche centinaio di euro e a quella di boss mai sazi di denaro.
Questi introiti – si è accertato nell’ultima inchiesta – finivano nelle casse di Cosa Nostra, in particolare in quelle del mandamento di Brancaccio, il quartiere dove venne assassinato nel 1993, Don Pino Puglisi.
I risarcimenti assicurativi percepiti illecitamente si aggiungevano così, ai proventi della droga, delle estorsioni e di qualche “reddito di cittadinanza” percepito impudentemente dagli affiliati e dalle rispettive mogli. Su questi fatti sono state aperte cinque inchieste che hanno dato conto di un fenomeno criminale vastissimo: ad oggi si contano 459 indagati, 79 arresti, un giro economico di svariate centinaia di migliaia di euro.
Per simulare questi incidenti che avrebbero portato a cospicui indennizzi veniva chiesto a persone in stato di bisogno e in condizioni sociali e psichiche fragili (tossicodipendenti, disabili psichici, ragazze madri, poveri) di sottoporsi a sevizie in cui venivano letteralmente “spaccate le ossa”. L’organizzazione aveva istituito un vero e proprio tariffario in cui a una “frattura scomposta” corrispondeva un risarcimento diverso da quella di una “lesione del polso” e così via. Le pratiche istruite venivano “acquistate” dai boss. Alle vittime andava qualche centinaio di euro e al beneficiario finale decine, a volte centinaia di migliaia. Una vera e propria “cessione di crediti”.
Fin qui i fatti. Provo a fare qualche riflessione
1. La mafia almeno quella che orbita nella città di Palermo o almeno una parte del sistema mafioso cittadino sembrerebbe in una fase di declino. Troppi sono i mafiosi in carcere, le cui famiglie vanno, per codice interno a tutte le mafie, sostenute per il sostentamento quotidiano. Questo porta le cosche a non aver più nessuno scrupolo per ottenere liquidità. Ma se la mafia “per fare cassa” deve ricorrere a queste azioni aberranti che si ripercuotono sulla pelle di persone che gravitano sotto il suo dominio, vuol dire che qualcosa non funziona più. Poiché è certamente vero che un ragazzo che va a riscuotere il pizzo o esegue una qualunque altra azione criminale rischia sempre la pelle, ma lo fa acquisendo, un ruolo una identità che lo può in qualche modo gratificare. Altra cosa è farsi rompere volontariamente le ossa da una persona tra virgolette “amica” che ti promette una ricompensa che, peraltro, non è neanche detto che arrivi ….
2. Sembrerebbe che la violenza fisica, la violazione dei corpi fisici sia in qualche modo connaturata ai sistemi mafiosi. Anche quando la mafia si insabbia e gli omicidi e le guerre e le stragi fanno posto alla cosiddetta mafia bianca, più legata alla corruzione, agli appalti e all’infiltrazione nei sistemi politici, la violenza fisica riemerge in tutta la sua spietatezza e il suo cinismo. Ma il dato nuovo (che in realtà era presenta anche prima), è che sempre più la violenza si rivolge alle persone che fanno parte del sistema.
3. Ogni sistema sociale ha però un livello di saturazione della violenza, oltre il quale comincia a reagire, a non accettare più la brutalità e i soprusi, anche attivando parti interne al sistema stesso. Prima o poi, come è già successo, questo avviene – e forse sta già avvenenendo – anche dentro Cosa Nostra e gli altri sistemi mafiosi.
Proviamo a fare degli esempi su cui mi sono soffermato negli articoli precedenti
– Da diversi anni il Presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria Roberto Di Bella allontana forzatamente con propri provvedimenti alcuni minori dalle famiglie ‘ndranghetiste di origine. Questi ragazzi sono stati accolti in località distanti dai comuni di residenza. Con l’aiuto di famiglie affidatarie e dell’associazione Libera questi ragazzi hanno potuto conoscere altri mondi: nella formazione, nel lavoro, nel tempo libero, negli affetti. Ebbene, inaspettatamente, alcune mamme di questi ragazzi, dopo una prima fase opposizione al giudice Di Bella, lo hanno contattato dicendo anche noi vogliamo andarmene, ci aiuti.
– A Castelvetrano esiste una scuola di equitazione e di teatro equestre gestita da un giovane, Giuseppe Cimarosa, imparentato con la famiglia mafiosa più potente della Sicilia che ha rifiutato (seguendo l’esempio del padre che era un collaboratore di giustizia) la cultura mafiosa e che, attraverso un mondo che ha sempre affascinato i giovani, quello dei cavalli, educa giovani di quelle zone ad costruire una cultura di impegno e di responsabilità prendendo apertamente le distanze dalla mafia.
– In Campania una donna, Lucia Di Mauro, alla quale è stato ucciso il marito che svolgeva il lavoro di guardia giurata, su invito del Direttore del Carcere Minorile di Nisida, ha incontrato il giovanissimo assassino del marito, che si era pentito: ne è nata una relazione di riconciliazione che ha portato questa donna ad aiutare questo giovane. Questa azione di giustizia rigenerativa ha consentito che quel giovane non entrasse nel sistema penale degli adulti che, molto probabilmente, anziché rieducarlo lo avrebbe fatto entrare definitivamente nell’organizzazione camorristica.
Sono piccoli segni sui quali non si possono fare generalizzazioni. Ma certamente indicano che le azioni della polizia e della magistratura, certamente indispensabili, possono e devono aprirsi al sociale che deve costantemente offrire culture alternative di accoglienza intelligente e nonviolenta a coloro che cominciano a prendere le distanze dai sistemi mafiosi. Il carcere non è sufficiente e a volte è controproducente. Tanto più in questa contingenza in cui le mafie mostrano qualche segno di cedimento, non tanto sul piano militare e delle capacità pervasive nei confronti dell’economia e delle istituzioni, quanto appunto della capacità di rigenerarsi culturalmente, di trasmettere modelli forti e convincenti alle nuove generazioni.
Il lavoro sociale nelle periferie delle città in cui ancora la mafia e la sua cultura sono diffuse è oggi, più di prima, decisivo. Basti pensare ad alcune presenze nei quartieri di Palermo: Danisinni, CEP, ZEN. Qui il lavoro svolto da associazioni molto vivaci (su cui cercherò di soffermarmi in altri interventi) va sostenuto in ogni modo, proprio perché offre sistemi culturali e valoriali alternativi a quelli delle mafie. Le giovani generazioni, che spesso non hanno conosciuto altro che mafia, devono poter sperimentare culture e sistemi di valori, essere realmente liberi di scegliere.