Si sente parlare di un ritorno della coscrizione obbligatoria, peraltro solo sospesa e non, come comunemente si crede, abolita. Sembra in atto un ripensamento, non solo nel nostro Paese, rispetto alla scelta, condivisa e largamente praticata, di completa professionalizzazione degli eserciti. Le motivazioni addotte sono diverse. Paiono avere una buona accoglienza.
Leggo su “Il Mulino” che sessanta nazioni mantengono qualche forma di coscrizione. Ci sono ragioni diverse, magari dovute a un vicino che appare minaccioso: Grecia e Finlandia ad esempio considerata la prossimità con Turchia e Russia, rispettivamente. Così la Svezia, dopo aver scelto l’esercito professionale nel 2010, ha ripristinato il servizio militare obbligatorio. Pure la Lituania, scelto l’esercito professionale nel 2008, è tornata alla leva obbligatoria. In Francia la leva obbligatoria non esiste dal 1997, ma Emmanuel Macron promuove un Service National Universel, civile e militare. In Germania, il ministro della Difesa Boris Pistorius, definisce un errore la sospensione del servizio militare del 2011. In Olanda l’obbligo di leva non esiste dal 1997. Ogni anno i diciassettenni maschi, pure femmine dal 2020, ricevono una lettera che ricorda loro di aver raggiunto l’età per il servizio militare. Si discute se e come reintrodurre una forma di obbligatorietà.
La vicenda italiana è nota. La leva militare è stata sospesa con la legge n° 226 del 23 agosto del 2004, approvata a larga maggioranza. Votarono contro, mi pare, Rifondazione comunista e Verdi.
La guerra in corso in Europa è importante nell’indirizzare a forme di coinvolgimento dei giovani nelle attività militari, a comprenderle e sostenerle, a condividere le scelte di riarmo come garanzia di sicurezza. Arruolare giovani di leva creerebbe solo complicazioni organizzative in una difesa affidata a tecnologie che richiedono personale specializzato, e a strategie che vanno ben oltre i confini nazionali. I responsabili militari lo sanno benissimo e lo dicono. Se la questione torna di attualità è per ragioni tutte politiche-partitiche. Ci sono tutte e accresciute le ragioni che hanno portato alla scelta dell’esercito professionale. Solo così – in modi relativamente indolori, salvo che per i caduti e le loro famiglie – l’esercito ha potuto dedicarsi alla “difesa” della patria, cioè alla guerra per ragioni economiche, politiche, umanitarie, di esportazione di democrazia, mantenendo il ripudio sancito dalla Costituzione. Se non si vedono motivazioni geopolitiche o comunque razionali, sul piano dell’efficienza bellica nel ritorno della naja una finalità si ritrova nel creare – magari integrando civile e militare come nel Service National Universel francese – coesione sociale, fiducia nelle istituzioni repubblicane, patriottismo. Sul patriottismo, sempre più ridotto a Blut un Boden, sangue e terra, non mi soffermo: Il patriottismo è l’estremo rifugio delle canaglie, diceva già Samuel Johnson. Quanto a fiducia nelle istituzioni e alla coesione si può dubitare della sua efficacia.
Nell’articolo sul “Mulino”, dal quale ho preso le mosse, gli autori Vincenzo Bove, Riccardo Di Leo e Marco Giani citano i risultati di una loro ricerca pubblicata su “American Journal of Political Science”. Nello studio si incrociano attitudini nei confronti delle istituzioni, con dati relativi all’abolizione della leva in quindici Paesi europei, inclusa l’Italia. Risulta come uomini che hanno evitato la naja conservino una maggiore fiducia nei confronti delle istituzioni legislative e giudiziarie, dei partiti, rispetto a quanti hanno prestato servizio appena prima della sospensione della leva. I coscritti appaiono più coesi, ma diffidenti nei confronti delle istituzioni civili, incapaci di decisioni sollecite come nell’ambiente militare. Questo confuterebbe l’idea che un’esperienza militare indurrebbe a un maggior rispetto per le istituzioni, ma rende più pronti ad accettarne di più autoritarie e a seguire gli ordini della persona al comando. Questo potrebbe spiegare l’insistenza sul tema che appare nelle forze che governano. È un cavallo di battaglia di Matteo Salvini: i ragazzi imparerebbero che oltre ai diritti ci sono i doveri e un po’ di educazione e rispetto. Virtù che contraddistinguono l’illustre politico.
Molti giovani sentono il fascino della divisa, secondo un’indagine compiuta su 22.000 studenti dall’Osservatorio delle professioni in divisa, dall’Associazione Orientatori Italiani e dalla Scuola di preparazione “Nissolino Corsi”, organizzazioni tutte volte a promuovere l’ingresso nell’esercito o in polizia. Un giovane su tre, ragazze comprese risulterebbe interessato alla carriera militare. Uno su dieci sogna la divisa sin da bambino. L’Esercito raccoglie le maggiori preferenze, pur con una flessione con la guerra in Ucraina. Anche le richieste di iscrizione ai licei militari – Firenze, Milano, Napoli, Venezia – superano i posti a disposizione. Le regole sono severe: niente barba e trucco, niente tatuaggi, e cellulare solo in orari consentiti. Le giornate sono impegnative. Alla Morosini di Venezia, ad esempio, questa è la giornata tipo: 6.25, sveglia, colazione, e alzabandiera alle 7.30 (alle 8 di domenica). Alle 7.45 iniziano le lezioni fino alle 13.45. Dopo pranzo assemblea alle 14.30, per comunicare sanzioni disciplinari e attività. Dalle 14.50 alle 16.40 impegno in attività sportive, dalle 17 alle 20 ore di studio obbligatorie, con intervallo dalle 18.50 alle 19. Alle 20 la cena, con ricreazione fino alle 22.15 se non puniti. Assemblea serale e alle 22.45 suona il silenzio e si va a dormire. Su richiesta è possibile usufruire di studio facoltativo serale e notturno. Il giovedì pomeriggio, il sabato pomeriggio e l’intera domenica gli allievi possono usufruire della franchigia se non sono puniti. Il 15 novembre 1955, su “Il Mondo”, Ernesto Rossi, che la guerra l’ha fatta e in molti modi sofferta, scrive: “Il soldato in divisa è il cavalleresco combattente, spinto all’azione eroica dal desiderio di gloria e dall’amore di patria. Nessuno è disposto a riconoscere che gran parte degli ‘eroi’ sono della stessa stoffa di quell’Arrigo Dumini che ebbe l’ultima, ennesima medaglia per atti di valore compiuti nella prima guerra mondiale, mentre si trovava in carcere per aver assassinato, su commissione, l’on. Matteotti”.
L’IZI, società specializzata in indagini di mercato e demoscopiche, ha effettuato un sondaggio secondo il quale la maggioranza degli intervistati italiani è favorevole a reintrodurre la leva militare obbligatoria: 53,5% contro il 46,5%. I pareri positivi crescono con l’aumentare dell’età: dai 55 anni in su 64,5%, dai 35 ai 54 anni 56,5%. Quando a rispondere sono i giovani tra i 15 e i 34 anni, stravince il no, con il 71,1%. Il 72,4% pensa che la leva debba interessare sia uomini che donne.
Una breve ricerca sul termine naja mi rivela la sua derivazione, attraverso il veneto, da natalia, con un connotato negativo che ne denuncia il peso: sotto la naja. Si diffonde con la prima guerra mondiale ed entra nel linguaggio corrente. In un’egloga in dialetto di Conegliano del XVI secolo il termine è attestato: “Là a bas, non l’è negun che si contenta:/ chi brama pas, chi desidra battaja,/ chi pianze, chi se duol, chi se lamenta,/ chi desidera i Turch, quella canaja,/ chi i Sulter, chi i Todesch e chi i Franzos!/ Dutti vorae a su muò sta sporca naja”. Insomma, comunque si svolga, secondo il poeta la naja è sicuramente sporca.
C’è un’alternativa al dilemma naja-esercito professionale. Ne scrive Riccardo Bottazzo in “Disarmati. Paesi senza esercito e altre strategie di pace”. Ne parlo con lui in un incontro a Ferrara la sera di venerdì 26 maggio. È importante conoscere come non pochi paesi procedano senza forze armate. L’esempio più conosciuto e rilevante è quello del Costarica. Nelle strategie di pace, delle quali pure il libro si occupa, il disarmo unilaterale ha un ruolo rilevante.