La recente pubblicazione di “La forza della coscienza. Storia di una persuasione: Claudio Baglietto e Aldo Capitini” di Pietro Polito e “Guerra, pace, nonviolenza. Attualità di Claudio Baglietto” di Magda Tassinari e Beppe Olcese mi induce a proporre un modestissimo ricordo di questo giovane, nato a Varazze, 4 dicembre 1908, morto a Basilea, 28 giugno 1940. Considero anche una sorta di passaggio del testimone dell’obiezione da Baglietto a Balboni e da questi a Pinna. Mi pare pure di vedere i loro sorrisi.
Nella prefazione al mio libro su Silvano Balboni, Ranieri, l’amico di una vita, dice del legame del padre, Claudio Varese, “soprattutto con Claudio Baglietto per il quale nutriva un affetto e una stima, una consonanza di opinioni che sono continuati anche dopo la morte”. Ricordo bene il professore che mi incita a scrivere una storia mai raccontata. Sottolinea che dei due, agli occhi degli studenti della Normale, Baglietto è il religioso e Capitini il politico. In Antifascismo tra i giovani Aldo Capitini scrive: “era una mente limpida e forte, un carattere disciplinato, uno studioso di prima qualità, una coscienza sobria, pronta ad impegnarsi, con una forza razionale rara, con un’evidentissima sanità spirituale. Cominciai a scambiare con lui idee di riforma religiosa, egli era già staccato dal cattolicesimo, né era fascista. Su due punti convenivamo facilmente perché ci eravamo diretti ad essi già in un lavoro personale da anni: un teismo razionale di tipo spiccatamente etico e kantiano; il metodo gandhiano della noncollaborazione col male. Si aggiungeva, strettamente conseguente, la posizione di antifascismo, che Baglietto venne concretando meglio. Non tenemmo per noi queste idee, le scrivemmo facendo circolare i dattiloscritti, cominciando quell’uso di diffondere pagine dattilografate con idee di etica di politica, che continuò per tutto il periodo clandestino, spesso unendo elenchi di libri da leggere, che fossero accessibili e implicitamente antifascisti. Invitammo gli amici più vicini a conversazioni periodiche in una camera della stessa Normale”.
Nel 1932 Baglietto ottiene una borsa di studio di perfezionamento all’Università di Friburgo in Germania, dove insegna Heidegger. Da luglio settembre frequenta i corsi estivi. A ottobre decide di rinunciare alla borsa e non rientrare in Italia, rifiutando il servizio militare al quale sarebbe soggetto. Capitini non condanna il gesto di Baglietto. Dice anzi di condividerne le idee. Giovanni Gentile lo licenzia perciò dall’incarico presso la Normale.
A Claudio Varese, da Friburgo, il 1° novembre 1932, Baglietto scrive: “Ognuno deve andare per la sua via, fare quello che dopo avervi ben pensato, gli pare giusto, e poi quello che ne verrà sarà sempre bene. Nessuno ha il dovere di arrivare a persuadere altri delle sue idee. Si starebbe freschi! Quindi può essere per me di importanza molto limitata e particolare quello che idee da me accettate possono produrre in altri. In senso assoluto anzi, io non ho da occuparmi affatto di ciò. Come ogni uomo, anch’io ho un solo dovere, quello di cercare di chiarirmi le idee (quello che si dice cercare la verità) e di agire senza transigere conforme a quelle che mi sembrano migliori: e le due cose (e questo è molto importante) sono una cosa sola. Questa è poi per ogni uomo anche l’unica via per la felicità, intesa nel senso vero della parola: e sarà tutta mia fortuna e vantaggio mio, non di altri, se io lo farò. Gli altri sono naturalmente per me una sola cosa con me”.
Parte poi per Basilea. Varese avrà modo di incontrarlo, con Delio Cantimori. Dall’agosto 1933 all’agosto 1935 Baglietto risiede in territorio francese vicino al confine svizzero. Torna quindi a Basilea dove resta tino alla morte a 31 anni. Nella densa corrispondenza, tra gli amici Varese e Dessì, molto presente è il ricordo di Baglietto e l’interessamento a quanto fa nel difficile soggiorno svizzero, continuando negli studi anche in campi nuovi e con scritti poetici. Non ha il permesso di soggiorno. Ospite di amici, in particolare di Maria Müller-Senn, sopravvive con lezioni private e traduzioni. L’11 luglio Varese scrive a Giuseppe Dessì: “Ieri ho saputo che è morto Baglietto di tubercolosi e di paralisi progressiva. Pisa è stata crudele e me ne ricordo con dolore”. Dessì risponde: “Pochi uomini sono stati importanti come Baglietto, anche per me che l’ho appena conosciuto. Parlai con lui poche volte, ma ricordo tutto e specialmente il suo modo di ridere”.
Il 9 novembre 1948 Varese scrive a Capitini: “Caro Aldo, avrai purtroppo saputo della morte di Silvano Balboni; la notizia mi è arrivata assurda, incredibile. C’era in lui, nell’aspetto fisico qualcosa che ricordava Baglietto e in qualche atteggiamento psicologico, una specie di gaiezza…”. Altro profondo legame tra Baglietto e Balboni è l’obiezione di coscienza. Tale è l’immediata diserzione con il passaggio alla clandestinità appena indossata la divisa. Carlo Bassi, che gli fu amico, osserva: “nessuno in quegli anni 1940-1943 rischiò tanto e con tanta convinzione e serietà. Egli decise infatti dopo la chiamata alle armi, di disertare volendo affermare nella pratica le sue profonde convinzioni nonviolente. Quella decisione fu, da chi lo conobbe, considerata a dir poco una pazzia, se si pensa che eravamo in piena guerra e con il regime spietato con gli oppositori. Paradossalmente direi che è stato facile andare in montagna l’8 settembre, erano tanti in quel momento a prendere insieme quella decisione. Silvano Balboni era solo, compreso da pochissimi. Ma non ebbe dubbi, il suo rigore di giudizio su tutti i problemi politici, culturali e di impegno personale era tagliente, il suo parlare era veramente solo “sì sì, no no”, sempre con il sorriso sulle labbra”. Della commemorazione in Consiglio comunale questo è l’inizio: “Parlare di Silvano Balboni quando il suo bel volto non è più qui ad illuminare e ad illuminarci del soave sorriso che sempre lo rischiarava, è certamente un compito non facile”. Nella sua scelta è decisivo l’esempio di Baglietto, come scrive dal campo di lavoro in Svizzera nel 1944 a Gianfranco Contini: “dal ricordo di Andrea Baglietto ho tratto poi il coraggio di disertare e di svolgere i compiti affidatimi dal movimento Popolo e Libertà”. Incontra a Basilea chi ha ospitato Baglietto. Ne visita la tomba e ne riporta la lapide in latino, dove è indicato come Claudius Baglietto, ma insiste nel chiamarlo Andrea.
Un legame tra l’obiezione di Pinna e quella di Baglietto è sottolineato da Capitini in un articolo sul Ponte nel dicembre del ’49. “Da sei o sette mesi è popolare in Italia il nome di ‘obbiettore di coscienza’, per l’atto compiuto da Pietro Pinna, di rifiuto al servizio dell’uccisione militare anche nella sua preparazione, che è l’addestramento alle armi. Condannato dal Tribunale militare di Torino il 30 agosto a dieci mesi di prigione con la condizionale per ‘rifiuto di obbedienza’ ed una seconda volta, dal Tribunale militare di Napoli il 5 ottobre ad otto mesi, il Pinna si trova ora nel carcere militare di Sant’Elmo a Napoli, in attesa dell’esito del ricorso al Tribunale militare supremo. Claudio Baglietto (di cui Il Ponte del luglio 1949 ha pubblicato notizie e lettere) è morto esule in Svizzera nel 1940, ed aveva rifiutato nel ’32 di tornare in Italia proprio per sottrarsi al servizio militare”. La pubblicazione sul Ponte di luglio è stata curata da Capitini e da Varese.
Un preciso legame c’è tra l’obiezione di Balboni e quella di Pinna. Nella prima lettera a Capitini del 3 dicembre 1948 Pinna scrive “Conoscevo pure, per aver seguito alcune conferenze del C.O.S., il sig. Silvano Balboni ed ebbi pure modo di avvicinarlo alcune volte, e di apprezzarlo. La notizia della sua morte, recatami due settimane or sono, mi ha fatto una grande impressione. È nel suo nome che mi permetto di scriverle chiedendole un consiglio, di importanza somma per me. Sarebbe maggior desiderio mio attuale di disertare la vita militare per obbiezione di coscienza”.
Pinna in “La mia obbiezione di coscienza” scrive che la scomparsa di Silvano a 26 anni “suonò come un annuncio, un richiamo, contro la sfida di quella morte assurda, o forse di contro, nell’umile accettazione della stessa morte considerata come un ultimo atto puro, solenne, prorompeva l’esigenza di presentare in un atto vivo le istanze morali che la morte aveva consegnato a un silenzio sacro, dell’intimo, alle quali l’amico aveva dedicato l’intera esistenza, e che ora qui, dal germoglio della morte, toccava a me di attestare presenti”. E poi, in anni vicini, a giovani amici che si meravigliano del suo sorriso in una foto che lo ritrae in manette, dice che l’espressone è dovuta alla serenità raggiunta quando gli è stato chiaro il da farsi.
Il modo di sorridere e di ridere di Baglietto e Balboni posso immaginarlo, quello di Pinna lo conosco e mi manca.