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La giustizia penale minorile: quando il carcere è davvero residuale

DiElena Buccoliero

Lug 14, 2021

Il processo penale minorile italiano è disciplinato dal dpr 448/88, scritto da un gruppo di esperti di valore, della giustizia e non solo. Molti vorrebbero un aggiornamento e forse hanno ragione, ma questo non deve farci dimenticare il buono che dopo più di trent’anni conserva ancora.

L’ergastolo per i minorenni non esiste e il carcere è davvero una soluzione residuale. Tanto per fare un esempio, nella mia regione, l’Emilia Romagna, ci sono 10 istituti di pena per adulti, spesso sovraffollati, e 1 solo per minorenni, l’Istituto Penale Minorile del Pratello. Sta a Bologna, nella via omonima, adiacente al tribunale per i minorenni e alla comunità penale di prima accoglienza. È esclusivamente maschile: le ragazze detenute vanno fuori regione, sono così poche da non giustificare una struttura tutta per loro. Questa disparità di genere tra gli autori di reato si ripropone tale e quale negli adulti, le peculiarità minorili stanno altrove.

Sono partita dalla fine, vale a dire dalla pena detentiva, per rendere chiara la differenza che, invece, sta a monte. Se in carcere gli adolescenti ci vanno così poco, ci sarà un motivo. E difatti c’è.

La responsabilità penale nel nostro paese inizia a 14 anni. Il processo penale minorile quindi, riguarda ragazzi e ragazze accusati di un reato commesso tra i 14 e i 17. Con quelle regole vengono giudicati anche se l’udienza avviene dopo la loro maggiore età, cosa che spesso accade, per sovraccarico di lavoro rispetto ai magistrati e ai cancellieri dedicati – un male, questo sì, comune alla giustizia degli adulti.

L’irrilevanza del fatto e il perdono giudiziale sono la risposta per chi commette reati lievissimi (la prima) o lievi e sporadici (il secondo, che infatti può essere attribuito una volta sola, con poche eccezioni lunghe da spiegare qui). Trattenere i giovanissimi il minimo indispensabile nel circuito penale e approntare semmai altri tipi di interventi è ritenuto un valore. Chi ha scritto il dpr 448/88 sapeva che il sommarsi delle conseguenze penali e il loro protrarsi nel tempo fanno peggio, producono adesione al modello deviante, e proprio bilanciando vantaggi e svantaggi di una risposta esclusivamente repressiva ha previsto altro. Si dirà che questo atteggiamento si spiega con la giovane età degli autori di reato, ancora in formazione, e questo ha un senso, ma non bisognerebbe escludere a priori la possibilità di un cambiamento in positivo anche per gli adulti, o quantomeno i giovani adulti.

L’attenzione alla persona permea tutta l’azione penale minorile e muove ogni singolo attore, dall’assistente sociale che subito predispone colloqui con l’interessato e i suoi familiari per ricostruire il contesto in cui sta crescendo, al magistrato che si premura di rendere comprensibile ogni passaggio durante l’udienza. In aula, l’interrogatorio dell’imputato deve riguardare, per legge, i comportamenti connessi al reato e anche la personalità, perché la valutazione vada oltre i fatti – restano comunque il primo oggetto d’indagine – e s’interroghi sul significato che quei fatti, se commessi, hanno avuto per quell’adolescente. E d’accordo, c’è una montagna di reati che i 14-17enni non commettono, ma ne resta un nocciolo non irrilevante contro la persona, la proprietà o per droga (o a volte in commistione con adulti, o sulla loro scia, intorno a crimini gravi quali quelli di criminalità organizzata) e misurarsi con loro su ciò che hanno commesso è interrogare loro e se stessi su quali adulti vorranno diventare. Non di rado il processo consente di riprendere in mano un percorso educativo inefficace, interrotto o deviato, per rendere possibili percorsi di legalità, responsabilità, cittadinanza.

La messa alla prova, istituto ampliato da alcuni anni agli adulti per reati lievi e utilizzato prevalentemente a scopo deflattivo in un sistema che straborda di processi non celebrati, per gli adolescenti è un’opportunità di cambiamento. Nel momento in cui giudici, assistenti sociali, avvocato, imputato, se possibile i suoi genitori, si confrontano sul progetto – a casa o in una comunità educativa, con quali impegni personali, per mesi o anni anche in relazione alla gravità del fatto, e per qualsiasi reato incluso l’omicidio – l’intento è sempre offrire a chi ha sbagliato e se ne è preso, almeno in parte, la responsabilità, la possibilità di restituire alla comunità qualcosa di bene per rimediare alle ferite inferte.

Non può, poi, essere un caso se la mediazione penale e in generale la giustizia riparativa, in Italia, trovano le maggiori sperimentazioni nell’ambito minorile, dove l’idea che ricucire lo strappo sia più importante che infliggere sofferenza per pareggiare i conti è fortemente presente.

Nei colloqui che ho avuto con ragazzi e ragazze in messa alla prova era frequente ritornare sul reato commesso, o su quel periodo dell’esistenza, non per cercare prove a carico ma per rileggere dal di dentro l’accaduto, incluso mettersi nei panni della vittima se una vittima c’era. Mi lascia invece perplessa, nella giustizia degli adulti, la tendenza a dimenticarsi del reato. Chi fa volontariato in carcere tendenzialmente non conosce cosa ha portato lì dentro i detenuti, chi lo frequenta professionalmente come assistente sociale, educatore ecc. era (non so se sia ancora) istruito a non sfiorare l’argomento. Come dire: quel fatto ti ha portato qui, ma ora lo lasciamo da parte. È fatale che nella restrizione si impari a stare ristretti, o a ribellarsi a quello stato, e non a fare i conti con i propri errori. Un mondo fatto di domandine, sottomissione e paura in quale visione può essere rieducativo e responsabilizzante? Niente di nuovo in ciò che dico, i dati sulla recidiva – più alta tra i detenuti che tra chi accede a misure alternative, e differenti da un carcere all’altro in una proporzione inversa con quanto c’è di attenzione alla persona in quell’istituto – qualcosa stanno a dimostrare.

Ecco a me piacerebbe invece che la persona detenuta, limitata nella libertà ma non negli altri suoi diritti essenziali, fosse accompagnata a ricordarselo, ciò che ha commesso, per poterlo capire, rimediare se rimediabile, e trasformare in qualcosa di nuovo. Con i minorenni questo discorso si prova a farlo, e il carcere c’è poco o niente. Con gli adulti, chissà.

 

 

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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