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La guerra dei like e il bisogno di emozioni mediate

DiElena Buccoliero

Ott 31, 2019

“Hai sentito, sono state archiviate le offese contro Fedez e la Ferragni”, diceva un adolescente all’amico. “Per fortuna”, concordavano, “ci manca solo che non si possa più scrivere in rete quello che si vuole”.

Mi è stato impossibile seguirli oltre perché ero ormai alla mia fermata e mi è dispiaciuto. Avrei voluto prendere coraggio e dire: “Scusate se mi intrometto, sono qui e non ho potuto fare a meno di ascoltare, m’interessa capire perché siete contenti di questa richiesta di archiviazione”. La questione mi interpellava non tanto per le celebrità coinvolte, che non seguo, ma per capire meglio quale rilievo attribuivano quei ragazzi a ciò che accade sul web.

Proprio la settimana scorsa riflettevo sulla chat di odiatori chiamata “The Shoah Party”. L’occasione per capirne di più l’ho avuta subito dopo questa conversazione, ascoltando l’intervento di Giovanni Ziccardi, docente di informatica giuridica all’Università di Milano, durante il XXXIII Congresso della Società Italiana di Criminologia che si è svolto dal 24 al 26 ottobre scorso a Modena. Titolo del suo intervento era proprio “Le nuove frontiere della criminalità informatica tra profilazione delle vittime e istigazione all’odio online”. Ne propongo una sintesi, non rivista dal relatore.

La criminalità informatica cambia continuamente e per questo sfugge ai giuristi che hanno bisogno di punti fermi. Sono quattro le caratteristiche fondamentali nell’istigazione all’odio e al crimine informatico, tre tradizionali e una inedita.

Per comprendere il fenomeno dobbiamo renderci conto di quanto sia pubblico tutto ciò che viene fatto con le tecnologie. Quando siamo in rete è come se ci fosse una telecamera puntata costantemente sui nostri canali di comunicazione, con il rischio concreto che da un momento all’altro questo materiale venga esposto. Lo ripeto continuamente ai giovani che incontro nelle scuole. Sono convinti, ingenuamente, che le loro bacheche, i loro profili, le loro chat siano chiusi. È un’idea completamente errata, in rete non c’è niente di chiuso e la profilazione è ormai avanzatissima.

Con grande facilità i criminali individuano le persone in base alla loro fragilità. Faccio l’esempio dei gruppi “pro ana”, quelli che incitano all’anoressia e sono frequentati da ragazzine che si scambiano suggerimenti su come perdere peso con farmaci che non saranno individuati dagli adulti, o su come ingannare genitori e insegnanti. Essere ammessi è molto difficile, fino a qualche tempo fa erano visibili in rete ma di recente sono stati trasferiti, principalmente su Whats’App o su Telegram, proprio per controllare meglio l’ingresso. Eppure non è impossibile entrare in quei gruppi per sfruttare le debolezze delle ragazze e truffarle con finti prodotti per dimagrire, oppure esasperarle o istigarle al suicidio. Lo stesso può accadere in ogni gruppo centrato sulla debolezza di una persona, che sia una malattia, un lutto, una delusione d’amore o altro. In un’ottica criminale, prima non c’era questa possibilità. Ora queste informazioni personalissime sono esposte.

La prima caratteristica del crimine informatico è proprio il fishing, la capacità di profilare gli utenti per scegliere le persone da ingannare, non solo a scopo commerciale. Negli Stati Uniti sono stati studiati casi usa di furti di dati di bambini, dai computer di pediatri o di reparti pediatrici ospedalieri, effettuati per ottenere il numero di sicurezza sociale di un cittadino che ha una storia di credito immacolata e su questo creare un’identità nuova, aprire una linea di finanziamento, un conto corrente, o ottenere agevolazioni finanziarie. Altro caso di fishing è stato la raccolta di dati relativi a responsabili delle risorse umane di grandi imprese a fini di estorsione, plagio, condizionamento.

La seconda caratteristica è l’amplificazione del danno. Le vittime di odio online conoscono un impatto talmente violento che non è neppure paragonabile a quello di un’offesa nel rapporto diretto. Per questo è davvero molto singolare che un Pubblico Ministero abbia chiesto l’archiviazione della querela per diffamazione tramite social network sporta da Fedez e dalla Ferragni, personaggi che seguo limitatamente ma non è questo il punto. Leggo dalla motivazione: “sui social accade che un numero illimitato di persone, appartenenti a tutte le classi sociali e livelli culturali, avverta la necessità immediata di sfogare la propria rabbia e frustrazione, scrivendo fuori da qualsiasi controllo qualunque cosa, anche con termini scurrili e denigratori che in astratto possono integrare il reato di diffamazione, ma che in concreto sono privi di offensività”.

È vero che esiste un elemento di disinibizione dato dall’uso del mezzo ma questo loro essere “privi di offensività” mi pare molto discutibile. Da anni cerchiamo di far capire che i messaggi in rete pesano, c’è anzi tutta una giurisprudenza che considera la diffamazione su social network aggravata de facto proprio per il suo impatto potentissimo. E non è neanche vero che il contesto dei social “priva, dell’autorevolezza tipica delle testate giornalistiche o di altre fonti accreditate, tutti gli scritti postati su internet”, lo dimostra il fatto che le testate giornalistiche nazionali riprendono ciò che viene detto su Facebook o Twitter riconoscendogli, evidentemente, autorevolezza. L’unico modo per capire quale offensività abbiano certi messaggi è parlare con le vittime.

Terzo aspetto da non dimenticare è la persistenza dell’informazione. Fino a qualche decennio fa era impensabile che la memoria non si potesse interrompere, che le persone dovessero portarsi dietro costantemente la loro storia. Ebbene, le cose sono cambiate. Una persona che sconti una condanna in carcere e voglia costruirsi nuove opportunità deve fare i conti col fatto che il suo nome sarà sempre reperibile in rete e renderà nuovamente attuale il suo passato.

Qualche volta esageriamo nel dare valore alla memoria. L’attrice Audrey Hepburn, dopo il celebre “Colazione da Tiffany”, disse che il segreto per una vita felice sono una salute di ferro e una memoria corta e ne sapeva qualcosa. Ancora ragazzina, inglese d’origine nei Paesi Bassi invasi dai nazisti, ha avuto un fratellastro morto in un campo di sterminio e lei stessa si è cibata di bulbi di tulipani per sopravvivere. Poteva essere legittimo il desiderio di dimenticare. Ora, il fatto che con la rete il messaggio d’odio si ripresenti continuamente, è pesante per la vittima e non è controllabile.

L’ultima caratteristica dell’odio on line, tipica del mezzo, è la viralità del messaggio. Una volta espressa una opinione o rilasciata una informazione sul web, questa prende vita in modo autonomo e anche se l’autore cambia idea o vuole fermare il messaggio non può più farlo, perché le condivisioni l’hanno sottratto al suo controllo. Sembra che la viralità dia dipendenza in termini di gratificazione e io credo che per le giovani generazioni, o per alcuni personaggi pubblici ad esempio in politica, sia veramente così. Tra l’altro la ricerca ci dice che gli odiatori online non odiano veramente, e lontani dalla tastiera possono leggere i libri degli autori che hanno subissato di insulti e via di seguito. Il loro unico scopo è ricevere un ampio seguito.

In una scuola un ragazzo mi ha detto: “Facciamo finta che a lei, professore, venga un attacco di cuore e io abbia due possibilità: la prima è chiamare i soccorsi e dopo scattare una foto, la seconda è lasciarla morire e fotografarla mentre esala l’ultimo respiro. La prima foto avrà qualche migliaia di visualizzazioni, la seconda milioni. Cosa crede che mi convenga fare?”.

A me che ascoltavo l’aneddoto ulteriormente colpiva che il ragazzo si desse due sole possibilità, e entrambe contemplassero lo scatto. Chiamare i soccorsi e basta, senza fotografare, e magari telefonare ai familiari del professore per avvertirli o semplicemente stare con lui aspettando l’ambulanza non esiste neppure come previsione. Il che, al mio orecchio, suona sì come bisogno di popolarità ma ulteriormente rimanda alla paura di essere nel posto in cui si è senza il filtro di una macchina, specialmente se la realtà propone un confronto emotivamente difficile come quello che si può avere con la malattia o la morte.

Difficile a 16 anni, ma anche gli adulti non se la cavano meglio. Dopo un grave incidente stradale sull’Adriatica, in Romagna, si è saputo che un passante invece di chiamare i soccorsi ha ripreso col cellulare la persona che stava morendo. Chissà quanti like.

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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