Di storie come queste negli ultimi mesi ne ho raccolte parecchie, nonostante il semi-lockdown che riduce le possibilità di incontro. A dicembre, nel casertano, due 15enni sono stati arrestati per ripetute violenze sui coetanei. Nello stesso periodo, in provincia di Torino, una ragazza ha cambiato scuola stanca delle continue vessazioni ed esclusioni, che nei mesi di didattica a distanza proseguivano online. A novembre, in provincia di Roma, un ragazzo di 12 anni è stato ricoverato con due costole rotte, numerosi lividi ed escoriazioni e un labbro spaccato, dopo l’aggressione subita nel bagno della scuola da un gruppo di compagni. Anche per lui non sarebbe stata la prima volta. L’elenco potrebbe continuare…
Non esiste, nel nostro codice penale, il reato di bullismo, e non tutto il bullismo è reato, proprio come non tutti i reati commessi da minorenni possono essere classificati come atti di bullismo (e chi lo fa, sbaglia). I requisiti da cercare per identificare il fenomeno restano sempre i soliti: la presenza di prepotenze (verbali, fisiche, psicologiche, telematiche), la loro reiterazione, la fissità dei ruoli e dei protagonisti (sempre le stesse persone, come vittima e autore), la disparità di forze. Diversi studiosi aggiungono il requisito della intenzionalità di far male. Il bullismo, dunque, come relazione che si sviluppa nel tempo, mai come evento singolo.
Senza dubbio, però, in quella relazione vengono commesse azioni che possono avere rilevanza penale. Questo vale sicuramente per le lesioni, i furti, le estorsioni di denaro e altro ancora. Di recente alcune sentenze hanno offerto precisazioni importanti sia sul riconoscimento della violenza, sia sull’attribuzione di responsabilità.
La Corte di cassazione penale, con la sentenza n. 163/2020, ha affermato che il bullismo può essere inteso come violenza privata (art. 610 c.p., Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni) nella misura in cui costringe la vittima a subire uno stato di soggezione. È una pronuncia molto importante.
Il caso riguardava un ragazzo che per un periodo considerevole aveva subito calci, sputi, sottrazione del materiale scolastico, ed era oggetto di atti sessuali simulati (un compagno gli si appoggiava da dietro e mimava l’atto). Il difensore chiedeva che ogni singola azione venisse valutata in sé e per sé – e la sottrazione di una merendina, ad esempio, intesa come furto ha una gravità evidentemente irrisoria – ma i giudici hanno voluto riconoscere un peso al fatto che quelle azioni avevano uno strascico perché si presentavano insieme, così da ingabbiare il compagno di scuola e comprimerne la libertà. Un effetto simile a quello dello stalking. In questo modo, finalmente, si dà un riconoscimento giuridico a ciò che chi subisce prepotenze ripetute conosce da sempre: non è vero che ogni azione si svolge senza lasciare strascichi; i comportamenti vessatori ravvicinati nel tempo si danno significato reciprocamente, concorrono a definire i ruoli dei ragazzi nel gruppo, dicono a ciascuno – e dolorosamente alla vittima – quanto vale.
Di tutto questo la scuola è responsabile. Lo ha riconfermato il 20 novembre scorso il Tribunale di Reggio Calabria condannando il MIUR a 45mila Euro di risarcimento nei confronti di uno studente di un istituto tecnico per diverso tempo vittima di bullismo. Il caso è quello di un ragazzo di 14 anni che è stato minacciato con un coltello puntato all’addome e poi spinto con forza in bagno da due compagni che lo hanno pestato a pugni e a calci fino a procurargli contusioni, lividi e graffi con evidenti segni sul volto. Il ragazzo, tornato in classe, provava vergogna e cercava di nascondersi il volto con le braccia. I compagni se ne sono accorti, gli insegnanti no.
“Oltre al danno fisico, il giudice si concentra sulle sofferenze interiori causate dall’illecito”, sottolinea Marisa Marraffino commentando la sentenza sul Sole24Ore del 15 gennaio scorso. “Il ragazzo, dopo i fatti, aveva accusato disturbi alimentari, arrivando a pesare 110 chili, si isolava, non faceva sport e aveva abbandonato gli studi, preferendo aiutare il padre nei lavori dei campi e la madre casalinga. Aveva poi dichiarato che avrebbe voluto iscriversi a una scuola alberghiera ma di aver rinunciato perché lì avrebbe ritrovato il ragazzo che lo aveva aggredito. Anche la nonna, sentita durante il processo, aveva dichiarato che il nipote dopo i fatti era sempre di cattivo umore, dormiva spesso da lei e non era più lo stesso di prima, oltre a svegliarsi spesso perché sognava di essere picchiato”. La mancanza di attenzione e di intervento da parte dei professori a una situazione che ha eroso progressivamente l’autostima, la libertà e in concreto le opportunità di crescita del ragazzo, ha portato alla condanna della scuola.
Una sentenza è arrivata pure per un’insegnante della provincia di Bologna, da parte del Tribunale del lavoro. Il suo errore è stato non ascoltare una ragazza che già da tempo aveva riferito di subire azioni aggressive da parte di alcuni allievi particolarmente aggressivi. Quando lei ha reagito e ha poi cercato di spiegare il perché, l’insegnante le ha dato una nota e l’ha costretta a scrivere una lettera di scuse ai compagni, che intanto dovevano scrivere al preside i comportamenti negativi della ragazza. I genitori della vittima si sono rivolti al dirigente scolastico, che ha irrogato una sanzione disciplinare all’insegnante, che l’ha impugnata in tribunale, che le ha dato torto.
Mi resta in bocco un sapore dolceamaro. Lieta che la magistratura faccia la sua parte, nel ricordare agli insegnanti l’importanza di ascoltare, capire, riconoscere quello che avviene nella vita dei ragazzi. Un valore che non si sviluppa in astratto e che rientra appieno nel ruolo del docente. Un po’ meno lieta per i battibecchi a intensità crescente, dall’aula scolastica a quella di giustizia.
Con che atteggiamento si guarderanno domani, quella ragazza e quella insegnante? Forse non c’era un modo migliore per rimettere in ordine le cose, ma l’amarezza rimane comunque.