Sono passati dieci anni da quando, in un articolo per il 25 aprile, scrivevo che oggi la liberazione si chiama disarmo e la resistenza si chiama nonviolenza – formula che il 25 aprile dell’anno successivo sarebbe diventata lo slogan della grande manifestazione pacifista nazionale all’Arena di Verona, dalla quale fu lanciata la campagna Un’altra difesa è possibile – eppure in un decennio c’è stata una tale precipitazione delle cose che quell’auspicio di allora diventa urgenza improrogabile di oggi.
Nel 2013 il rapporto annuale del SIPRI, l’autorevole istituto di ricerca internazionale di Stoccolma, segnalava una già preoccupante crescita delle spese militari globali ad oltre 1.700 miliardi di dollari; secondo il rapporto reso noto oggi, con un salto di oltre 500 miliardi in soli dieci anni e di 127 rispetto all’anno precedente (+ 3,7%), nel 2022 sono giunte alla nuova cifra record di 2240 miliardi di dollari. In Italia allora si spendevano in armamenti 24 miliardi di euro, oggi l’Osservatorio sulle spese militari italiane documenta che sfioriamo i 27 miliardi di euro, che nel giro di alcuni anni diventeranno quasi 40 con l’aumento al 2% del PIL, come voluto dalla Nato e votato un anno fa dal Parlamento italiano. Risorse nazionali e globali sottratte agli investimenti civili, sociali ed ambientali, necessari a fare fronte alla crisi sistemica globale che genera quei conflitti che, invece, proprio le armi trasformano in guerre.
Dieci anni dopo, una nuova guerra fratricida divampa in Europa, esplosa fin dal 2014 nel Donbass ucraino e internazionalizzata nel 2022, con l’invasione russa da un lato e il sostegno armato della Nato all’Ucraina dall’altro, in un processo di escalation che non prevede alcuna possibilità di “cessate il fuoco”, ma una irresponsabile retorica della impossibile “vittoria” da entrambe le parti. Anziché una ricerca della mediazione e della pace, giusta e sostenibile per tutti, che preservi il popolo ucraino, in primis, e il resto dell’Europa successivamente da un catastrofico esito nucleare. Pure, incredibilmente, più volte minacciato.
Inoltre, un governo di estrema destra ha preso il potere in Italia e – dopo alcuni mesi di martellante controriforma culturale del Paese – la seconda carica dello stato, il presidente del Senato Ignazio La Russa, in un’intervista rilasciata a Repubblica a pochi giorni della Festa della Liberazione, ha dichiarato che “nella Costituzione non c’è alcun riferimento all’antifascismo”. Senza comprendere – ma non è l’unico e non solo a destra – che al di là della XII Norma transitoria e finale, che vieta la ricostruzione del partito fascista, sono i “Principi fondamentali” che fondano (appunto) l’antifascismo della Costituzione. A cominciare proprio dall’Articolo 11 che, con il “ripudio della guerra” rigetta – con schifo e disonore – il bellicismo e il militarismo, ossia gli elementi identitari primari del fascismo. Operando così una rivoluzione culturale e politica che inaugura una antitetica weltanschauung, visione del mondo, rispetto a quella fascista e delle relative relazioni interne e internazionali. Cosa non ancora sufficientemente messa a fuoco nelle sue conseguenze, come del resto ricordava anche Aldo Capitini, il filosofo italiano della nonviolenza, nel 1968: “il rifiuto della guerra e della sua preparazione è la condizione preliminare per parlare di un orientamento diverso”.
Infine, da quest’anno, grazie al Centro studi Sereno Regis di Torino e all’editore Sonda, è possibile leggere in italiano l’esito dell’importante ricerca della politologa statunitense Erica Chenoweth (Come risolvere i conflitti. Senza armi e senza odio con la resistenza civile), condotta insieme a Maria Stephan, che dimostra come negli ultimi 120 anni di campagne di lotta – violente e nonviolente – in giro per il mondo, più del 50% delle resistenze civili e nonviolente abbiano avuto successo contro solo il 26% di quelle che hanno fatto ricorso violenza. Si tratta di una documentazione analitica del fatto che la resistenza civile e nonviolenta, spiega Chenoweth, “è un’alternativa realistica e più efficace alla resistenza violenta nella maggior parte dei contesti. La resistenza civile non ha nulla a che fare con l’essere gentili o educati, ma fa riferimento alla resistenza radicata nell’azione comunitaria. Significa ribellarsi e costruire alternative nuove attraverso l’utilizzo di metodi che siano più inclusivi ed efficaci della violenza”.
Per tutte queste ragioni è necessario ribadire ancora, più che mai, che oggi la liberazione si chiama disarmo e la resistenza si chiama nonviolenza. Ne va ormai della sopravvivenza di tutti.
[Articolo pubblicato anche su ilfattoquotidiano.it]