Sono Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso con il primo figlio? Rappresentano uno la Fortezza, l’altra la Carità? Certo è “paesetto in tela cum la tempesta, cum la cingana et soldato”. Mi piace che Giorgione abbia ritratto una bella e giovane mamma cingana. Sono i primi anni del ’500. Da venti anni sono cominciati i bandi contro i gli zingari, presi e incatenati ai remi delle galere veneziane. Ma l’arte ancora accoglie.
All’inizio queste genti – fuggite dai Balcani occupati dagli ottomani – vengono generalmente ricevute con curiosità e simpatia in Italia. La prima documentazione scritta è del 18 luglio 1422. “A dì 18 de luglio venne in Bologna uno ducha d’Ezitto lo quale avea nome el ducha Andrea, e venne con donne, putti et homini del suo paese…” La comitiva si sposta in agosto a Forlì. Ancora è ricordato Nicolò Zingaro, proprietario di sei biolche di terra e case a Carpi, nel 1448, che certo non voleva proseguire in una vita nomade. Tra le spese del Duca di Ferrara vi è il compenso di lire 0,6 a “uno cingano che sonava una citola”, antenata forse del violino.
In un articolo de l’Avvenire, “Storia di un popolo. Gli zingari, perseguitati da cinquecento anni in tutta Europa di Alessandro Marzo Magno” (sabato 23 giugno 2018) trovo che a rompere l’idillio sarebbe stato Ludovico il Moro. A noi piace considerarlo quasi un ferrarese. Reggente del Ducato di Milano ordina la cacciata dal territorio, pena la morte, nel 1473. A Milano l’accanimento è intenso e di lunga durata in un crescendo di persecuzioni. Dopo gli Sforza ci penseranno i francesi, poi gli spagnoli, fino a Maria Teresa d’Austria, che ne imporrà la sedentarizzazione nel tentativo di assimilarli. Santino Spinelli, nel suo Rom, genti libere, ritiene successivo il bando milanese, 1493. Di bandi a Milano ce ne saranno una sessantina. Spinelli conta in tutto 212 bandi tra il 1483 e il 1785 nel nostro paese. Il 38% sono dello Stato pontificio, a partire da quello di Bologna del 1565 “contra li cingani”. Le pene le conosciamo, frusta e forca, man mano che vengono meno i forzati ai remi. Tale era la condanna alla galera.
Non è una storia più incoraggiante quella negli altri paesi europei. Il primo bando contro i gitani di cui si ha notizia in Europa è un bando tedesco del 1416. Lo sterminio programmato, il porrajmos ha radici lontane. E ogni volta occorre ricordare che ci sono sempre anche loro nella persecuzioni, nelle espulsioni. I re cattolici cacciano, 1492, dalla Spagna moriscos e marranos, ma pure i gitanos, anche se viene poco ricordato. Credo siamo capaci di fare meglio di così. Ci vuole impegno, costanza, coerenza, rispetto. Sono requisiti difficili presi uno alla volta, tutti insieme quasi impossibili.
Mi fermo a questa breve memoria lontana. La memoria delle vicende di sinti e rom è in gran parte affidata a una trasmissione orale. Credo però efficace e presente. Mi colpisce un dato nella mia regione. La maggior concentrazione di persone che conservano nell’abitare una traccia delle origini nomadi è a Reggio Emilia. Quando sette anni fa mi sono occupato di questo tema erano 1.094, il 41.4% del totale delle presenze in aree e campi in Emilia Romagna. Insomma a Reggio Emilia, considerata la popolazione della provincia, un reggiano su cinquecento è in quella condizione. Ciò vale per un piacentino su mille e ottocento. Tra Reggio e Piacenza c’è Parma: solo un parmigiano su diecimila vive in quella situazione. “Nel 1572 trecento zingari nella provincia di Parma vengono attaccati e sterminati dai soldati del duca, accompagnati da una folla inferocita”, leggo nel citato articolo dell’Avvenire.
A una pagina lunga cinquecento anni non bisogna aggiungere altre righe. È il caso piuttosto di voltarla per sempre. Alex Langer – sì, sempre lui – nel 1991 scriveva: “bisogna che l’Europa con quella sua stragrande maggioranza di ‘sedentari’ accolga, anche nel proprio interesse, la sfida gitana, dei rom e dei sinti, e faccia posto ad un modo di vivere che decisamente non si inquadra negli schemi degli stati nazionali, fiscali, industriali, militari e computerizzati. Un modo di vivere che indica non solo un passato ricco di tradizione, di dignità e di sofferenza, ma anche una possibile modalità di convivenza tra migranti e residenti, e forse un’esistenza capace di affidare la propria identità e continuità non al possesso (di immobili, carte di credito e diplomi), ma solo alla solidarietà della comunità”. Ci sono sfide difficili, ma necessarie per non tramutarsi in carnefici, per restare semplicemente umani. Questa ne fa parte. Apre inoltre una prospettiva non insignificante verso una società migliore. Occorre molto impegno e nonviolenza: apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di queste persone, ad un tempo eguali e diverse. Allora la parola zingaro non suonerà più dispregiativo per nessuno. Un sinti in un incontro lamentava le difficoltà incontrate nel fare il giostraio, ora che finalmente lavorava dignitosamente e non “faceva più lo zingaro”. Ci vuole molto impegno e anche salute e fortuna, come mi è stato augurato e io auguro a tutti: but baxt ta bastipé.