E poi, siamo sinceri, a che servono i ragionamenti?
Bisogna farla finita con questa cosa inutile
[Ignazio Silone, Fontamara]
C’è in corso una guerra vera in Europa, combattuta sul terreno dell’Ucraina occupata militarmente dall’esercito russo, che fa morti, feriti e profughi – come da sempre, ed anche in contemporanea a questa, lo fanno tutte le guerre, anche quelle dimenticate che non tracimano tutti i giorni dagli schermi televisivi e dagli smartphone – e poi c’è la guerra culturale che impazza nel nostro paese ed ha già generato in poche settimane (ma con una incubazione lunga almeno due anni) una regressione di decenni nel clima culturale, informativo e relazionale. Una esaltazione bellicista che tracima anch’essa dai teleschermi e dai social – mai forte, a mia memoria (che dal 1991 in avanti momenti di esaltazione per vere guerre camuffate da “missioni di pace” ne ho viste tante), come in questo momento – che ha un drammatico e straordinario impatto anche sui modelli educativi, costruendo con incredibile velocità una pervasiva pedagogia di guerra che si autoalimenta e cresce giorno dopo giorno. In venticinque anni di lavoro educativo e formativo sul campo se c’è una cosa che ho imparato è che ragazze e ragazzi chiedono agli adulti, prima di tutto, coerenza: apprendono non da quello che gli adulti dicono – siano essi genitori, insegnati ed educatori – ma da quello che gli adulti fanno, dalle loro azioni concrete, che osservano e assorbono, come una spugna. E quando le azioni degli adulti contraddicono le parole, colgono in pieno le contraddizioni e credono alle azioni, non alle parole. Le contraddizioni in cui gli adulti stanno cadendo in questi giorni – tra gli insegnamenti intenzionalmente impartiti singolarmente e quelli effettivamente trasmessi collettivamente – provocando una tremenda reazione a catena, sono infinite.
La messa al bando dell’intelligenza
A cominciare dagli adulti autorevoli – gli “esperti”, i politici, i giornalisti – che, quasi all’unisono, ovunque sui media, sbeffeggiano ed accusano l’esercizio del pensiero complesso, ossia ragionante, di partegianeria con il “nemico”, in una degenerazione logica progressiva, esemplificata dal titolo (serio) dell’Huffington post Italia (15 marzo 2022) “Sull’Ucraina chi dice <<ma è più complesso>> è complice di Putin”: dopo aver sospeso corsi universitari su Fëdor Michajlovič Dostoevskij, la cui unica “colpa” è quella di essere stato uno scrittore che la Russia ha donato all’umanità, siamo pronti al mette al rogo in piazza anche i libri di Edgar Morin, filosofo della complessità, indicata come elemento fondante dei Sette saperi necessari all’educazione del futuro (Raffaello Cortina Editore, 20001), sui quali si sono formati generazioni di educatori e di insegnanti. La fine – o la messa al bando – della capacità di svolgere ragionamenti fondati sulla complessità è, in verità, la fine dell’intelligenza, ossia della capacità di intus legere, di leggere dentro ai fenomeni, in particolare in quelli dirompenti come i conflitti che – per essere affrontati e portati saggiamente a soluzioni non catastrofiche – necessitano di un di più, non di un di meno, di intelligenza.
Educazione immersiva e totalizzante
E non è questo, infatti, ciò che si insegna a scuola, la capacità di fare ragionamenti complessi, a cominciare dallo studio della storia, per esempio, per comprendere le cause e le ragioni scatenanti delle guerre, al di là delle verità di parte? Eppure gli stessi studenti sono investiti, fuori dalla scuole, da schiere di adulti sedicenti “esperti” che schiumano rabbia chiedendo a chiunque provi ad articolare un ragionamento intelligente di schierarsi: poche chiacchiere, o qua o di là, o con i buoni o con i cattivi, o con gli amici o con i nemici. Esercitando a reti unificate una educazione immersiva e totalizzante nella ragione bellica, che a sua volta è generatrice di altra violenza. Siamo in guerra, “bisogna farla finita coi ragionamenti”, come Ignazio Silone fa dire ironicamente a Berardo in Fontamara per raccontare l’Italia fascista. E sono irrise e censurate, per questo, le voci di quei pochi adulti che cercano e provano ad indicare vie non armate per giungere a soluzioni negoziate al conflitto in corso in Ucraina, che possano portare alla mediazione e alla pace, anziché all’escalation fino all’olocausto nucleare. Ignorate se va bene, tacciate di connivenza con il nemico se va male.
L’immagine paradigmatica
C’è un’immagine paradigmatica di questa tragica involuzione educativa: è quella della bambina ucraina, seduta su una finestra, con il fucile in mano e il lecca lecca in bocca che – scattata in posa dal padre fotografo – e data in pasto ai social, è diventata virale tanto nella versione digitale che sulle prime pagine stampate di molti importanti giornali italiani, come icona della resistenza degli ucraini, che coinvolge anche i bambini. “La semantica aberrante dell’arruolamento di bambini al fine di farli combattere e uccidere altri esseri umani ha cambiato di segno. Quel che fanno gruppi armati in Uganda, Sud Sudan, Afghanistan etc. – annota la scrittrice Daniela Ranieri su Il Fatto Quotidiano (14 marzo 2022) – è una barbarie. La piccola ucraina col fucile è glamour (…). La bambina così è usata due volte: come combattente e come icona. Romantizzazione ed eroizzazione di un crimine (per la Convenzione dell’Onu sui diritti dell’infanzia) caricano la foto di un vitalismo incongruo quanto osceno”. In un solo colpo vengono spazzati via non solo anni di percorsi che raccontavano nelle scuole l’assurdità e la crudeltà delle guerre, anche attraverso l’orrore dell’uso dei bambini soldato, ma anche l’ipocrita indignazione adulta – e delle varie gazzette locali – sui video di musica trap che spopolano tra i giovanissimi mettendo in scena l’uso e l’abuso spettacolare di pistole finte. Abbracciare un fucile vero a nove anni è invece tragicamente figo – è il messaggio implicito – se sei dalla parte giusta. Quella a favore di obiettivo dei grandi media.
Pedagogia di guerra
In questo quadro, vengono in mente alcune domande che si interrogano sull’efficacia delle azioni intenzionalmente educative, quando sono così platealmente e (quasi) coralmente e socialmente smentite. A che cosa serve l’impegno di tanti educatori – nei contesti scolastici ed extrascolatici – nel formare ed educare a disarmare le relazioni ed a gestire i conflitti, a cominciare da quelli interpersonali, con la nonviolenza, quando gli adulti non trovano di meglio che rispondere alle armi con più armi, fino a minacciare incredibilmente l’uso delle armi nucleari? A che cosa serve svolgere percorsi formativi contro l’hate speech e per la promozione del linguaggio inclusivo, se poi importanti piattaforme di social media sdoganano e autorizzano l’odio sui social – rievocando “i due minuti di odio” quotidiano raccontato da George Orwell in 1984 – purché sia rivolto contro i russi tout-court, ossia contro il “nemico”? A che cosa serve promuovere progetti per prevenire la violenza delle cosiddette “bande giovanili”, quando gli adulti – addestrati e organizzati per ben più violenti eserciti e milizie – si fanno ancora anacronisticamente la guerra, nella logica arcaica dell’occhio per occhio e dente per dente? Bastano venti giorni di guerra e di forsennata propaganda bellica per abbattere – anche – anni di lavoro educativo, facendo pedagogia negativa. Pedagogia di guerra.
Il salto di civiltà necessario
Eppure, spesso in questi giorni sono invitato a parlare di guerra e pace nelle scuole – da insegnanti non rassegnati a mettere da parte l’intelligenza e la complessità – dove spiego, tra le altre cose, che se le guerre fossero valutate come esperimenti scientifici nella loro capacità di dare risposte positive nella risoluzione dei conflitti, sarebbero state abbandonate, almeno, dai tempi di Galileo Galilei. Invece, nel più essenziale dei campi del sapere – quello che si occupa di costruire e mantenere la pace – il metodo scientifico non è mai arrivato: siamo rimasti incredibilmente creduloni, pre-scentifici, irrazionali, ci affidiamo al pensiero magico che ci propina sempre più armi (come in questi giorni stanno decidendo i parlamenti europei, compreso quello italiano), sempre più potenti, sempre più guerre, sempre più insicurezza. Con la sconfitta di tutti, tranne di chi produce e vende armamenti. Aggiungo, in questi incontri, che l’unica speranza di salvezza per l’umanità sta nel superare questo irrazionalismo che continua a pervadere pericolosamente e colpevolmente menti e politiche e che il loro contributo – dei giovani, degli studenti – è fondamentale per fare, una volta per tutte, il salto di civiltà necessario: archiviare la guerra tra le mostruosità della storia. E sono sempre sommerso da domande di approfondimento alla ricerca della verità, di risposte credibili al di là della propaganda di guerra di tutte le parti e di tutte le guerre. Esco sempre incoraggiato dall’esercizio del ragionamento intelligente e complesso di questi ragazzi, che ieri chiedevano la transizione ecologica e oggi – dopo due anni in cui sono strati costretti al ritiro sociale forzato – si trovano inchiodati nella permanenza bellica, mentale e reale. Traditi, ancora una volta, da quegli adulti di cui si fidavano, ma che stanno ancora rubando maledettamente il loro futuro.