A pochi giorni dal Congresso di Verona del 2007, Daniele Lugli, allora Segretario nazionale del Movimento Nonviolento, è stato intervistato da Elena Buccoliero per parlare di nonviolenza e politica, disarmo, diritti umani. Riprendiamo alcuni brani di quella conversazione.
Incominciamo dal rapporto tra nonviolenza e politica.
La nonviolenza è una freccia di direzione da dare alla propria vita e da portare nella vita pubblica, in particolare. Mi sembra importante una collettiva riflessione sull’attualità della Carta costitutiva del Movimento Nonviolento. In essa sono evidenziati obiettivi e metodo verso una società nonviolenta.
Non vi è dubbio dunque che per noi la nonviolenza è politica. Così formulato è stato il tema dell’ultimo congresso e di una riflessione che a questo congresso ci porta. Avviene nel momento in cui una crisi della politica è generalmente riconosciuta, se ne indica la fine e persone che vi hanno profuso impegno le danno l’addio. È una crisi non solo italiana. La difficoltà che la democrazia e i suoi istituti incontrano è generalizzata nel nostro continente e fuori. Una ventata autoritaria sembra percorrere anche le democrazie di più lunga tradizione.
Lo strumento principale previsto dalla Costituzione per il concorso dei cittadini a determinare con metodo democratico la politica nazionale, e cioè il partito, è da tempo in una crisi senza sbocchi visibili. Né sembra che le proposte in campo siano in grado di rivitalizzarlo.
C’è una specificità italiana di questa crisi così largamente diffusa?
È una società che appare in fuga dalla politica, nelle gran parti delle regioni del nord, come se questa fosse un puro ostacolo al combinare affari, e nelle ragioni del sud in gran parte in mano alla criminalità organizzata. Resta un “ridotto”, più o meno ubicato nel centro, dell’esperienza repubblicana.
La nonviolenza, allora…?
È proprio qui che si rende particolarmente necessaria l’aggiunta del pensiero e della pratica nonviolenta, sintetizzabile in una partecipazione consapevole alla vita pubblica con strumenti nuovi di democrazia partecipativa e l’adozione di un metodo rigorosamente nonviolento nell’azione individuale e collettiva. Che entrambe le esigenze siano diffusamente avvertite è un dato di esperienza. Mancano però continuità e coerenza.
I partiti che hanno mostrato più attenzione a questi temi, non sembrano però averne fatto un uso conseguente nella pratica politica, a partire dalla formazione delle liste elettorali e fino a oggi.
La nonviolenza è politica per il disarmo
Parlare di disarmo pare un’ovvietà, per un movimento che si chiama nonviolento. Nel frattempo però sembra riprendere un clima di Guerra Fredda…
La sottolineatura viene proprio da questa ripresa del clima che ha caratterizzato il secondo dopoguerra. Sciolto il Patto di Varsavia, il mantenimento e l’estensione della Nato non poteva che produrre questo risultato. A chi va in giro con un grosso martello, è stato detto, la maggior parte delle cose che incontra appaiono come chiodi.
C’è anche un altro elemento che ha a che fare con il diffuso, e fondato, senso di insicurezza, per cui occorre spiegare come togliere uno strumento di offesa non sia anche contemporaneamente togliere uno strumento di difesa.
Le armi sono tante. Arma in latino è sempre plurale, e noi sappiamo come, pur essendo rilevante l’A-B-C (atomiche, batteriologiche e chimiche), non sia sottovalutabile l’impatto delle cosiddette armi leggere. È un argomento che spazia dalla ripresa del fuoco atomico al commercio e diffusione di ogni tipo di arma. E del resto il campo distruttivo è quello che costantemente e in modo crescente impegna scienza e tecnologia.
C’è il grande tema culturale, sociale ed economico della riconversione dell’industria bellica in costante espansione. Bisogna far comprendere come tutte le armi siano per così dire sempre a doppio a taglio, rivolte verso chi è colpito e verso chi le usa, e come sia indispensabile trovare altro per difendersi da minacce vere e presunte che provengono dall’esterno e dall’interno delle nostre società. Affermare una diversa possibilità di convivenza.
La nonviolenza è politica per il disarmo, ripudia la guerra… come la nostra Costituzione.
Si può certo dire che la guerra è una continuazione della politica e ne manifesta la medesima inettitudine a risolvere i problemi che pretende di affrontare. La sua conclamata inefficacia è quasi un luogo comune eppure sembra inevitabile, nella ripetuta pantomima tra i combattenti su chi l’abbia provocata. Anche continuando a ignorare i più sanguinosi conflitti africani, è questo certamente il caso dell’Iraq e dell’Afghanistan.
È stato detto giustamente che di fronte ai flagelli che affliggono l’umanità – miseria, fame, stermini di massa, malattia… – le guerre possono apparire eventi minori, ma sono assieme gli eventi che maggiormente veicolano quei flagelli e aprono al peggio. Ecco perché l’attenzione non deve calare.
Anche quello dei diritti umani è un tema che merita la massima attenzione. Richiede però approfondimento e riflessione nelle società che ritengono di averli in buona misura già realizzati. Il modo migliore di diffonderli consiste nel farli vivere e approfondire, nel riconoscere la loro presenza anche in culture differenti, sapere che mai la loro diffusione potrà avvenire sulla punta delle baionette, come si sarebbe detto un tempo. Senza questa attenzione – dalla quale si è ben lontani, basti pensare al trattamento generalmente riservato agli immigrati nei paesi più ricchi e fortunati che li ricevono – la questione dei diritti umani diviene addirittura pretesto di guerra.
Un filosofo del diritto ha proposto di non usare più la parola “guerra”, ma “carneficina di massa”, più difficilmente conciliabile con aggettivi quali santa, umanitaria, giusta…
Un grande contributo può dare l’Unione Europea, oggi in grande difficoltà, con politiche decise contro la guerra.
(Nella fotografia, Mao Valpiana e Daniele Lugli sono ritratti alla Marcia per la pace di Rovigo nel 2012).