Si tratta di un dramma in costume splendidamente scritto e fotografato ed ispirato al lavoro del romanziere russo Nikolaj Leskov, Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk (Firenze, Passigli Editori, 1987, 97 p.). Il film ricorda (ed è da intendersi come un complimento), a tratti, il The VVitch di Robert Eggers per il punto di vista adottato, l’iconicità della fotografia e la sinuosità con cui la camera si avvicina al tema della trasgressione.
La prima parte del racconto sembrerebbe presentare una storia piuttosto classica, quella della diciassettenne Katherine (Florence Pugh) intrappolata in una casa della campagna inglese del 1865 da un matrimonio forzato: particolarmente sensibile e vivace, la giovane non può certo trovare la felicità in un ambiente che ha conosciuto solo in termini di indifferenza e coercizione e la cerca in un affair con un giovane operaio durante le lunghe assenze del marito.
La Katherine che vediamo nella seconda parte è, al contrario (e, forse, di conseguenza), una donna senza scrupoli e immune ai morsi della coscienza.
Lady Macbeth riesce a riproporre, in questo modo, l’ambivalenza ed il fascino della figura d’origine che ha da sempre rappresentato un’occasione per far traballare convinzioni e convenzioni sociali (e, perché no, anche cinematografiche) su mascolinità e femminilità.
La regina di Scozia del dramma shakespeariano si trovava, infatti a dover reprimere istinti e passioni tipicamente associati alla femminilità come sensibilità, fragilità ed istinto materno in favore di una risoluta e senza riguardi ambizione al potere, caratteristiche che di solito venivano associate ad un ruolo maschile forte.
Oldroyd riadatta magistralmente con un linguaggio contemporaneo il personaggio e la sua funzione critica.
Da un lato, la meticolosità della messa in scena e la freddezza dei toni tragicomici con cui vengono affrontate anche le situazioni più crude fanno sì che lo spettatore, che nella prima parte della pellicola poteva aver simpatizzato con il personaggio di Katherine, assista in uno stato di anestesia alle violenze di cui la giovane si rende protagonista nella seconda parte. Viene abbracciato, in questo senso, lo stesso modus operandi di alcuni lungometraggi o grandi racconti televisivi dei primi anni Duemila (uno su tutti I Soprano) dove il personaggio con cui si è portati ad immedesimarsi è un uomo dalla morale dubbia, un difficult man (Brett Martin, Difficult Men: Behind the Scenes of a Creative Revolution: From The Sopranos and The Wire to Mad Men and Breaking Bad, London, The Penguin Press, 303 p.), dinamica che spinge lo spettatore ad interrogarsi sulla facilità con cui, in determinati casi, si può arrivare ad ignorare o a giustificare la violenza.
Dall’altro lato, l’inversione dei ruoli tradizionalmente attribuiti a uomo e donna fa avanzare ancora di qualche passo la riflessione. Prendendosi gioco dei topoi del racconto romantico (specie se in costume) Lady Macbeth ci presenta una storia d’amore che ben presto diventa il racconto sorprendentemente lucido e cinico di un’ossessione in cui è evidentemente la figura maschile ad incarnare i tratti dell’ipersensibilità e della sottomissione.
Seguendo la riflessione di Evelyne Grossman (Éloge de l’hypersensible, Paris, Les Éditions de Minuit, “Paradoxes”, 2017, 224 p.), professoressa a Paris 7, potremmo dire che coì facendo la pellicola slega il discorso sulla sensibilità da una questione di genere e la rende una caratteristica umana a tutto tondo da rielaborare e rimettere in causa. Vale a dire che è proprio da questa inversione di ruoli che si può partire per liberare la sensibilità dall’associazione tradizionale al genere femminile (e quindi colorata di tutti gli aspetti negativi con cui si guarda alla vulnerabilità) per riqualificarla come una qualità “neutra”, una disposizione umana ad un sentire, che è prima di tutto un ricevere una sensazione, che ci invita a pensare.