Dovrei tenere alcuni incontri con giovani per parlare di diritti e nonviolenza. L’idea sarebbe di partire dai principi e dai diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione, dalla loro attuazione e sviluppo e dall’apporto che possono dare la pratica e il pensiero nonviolenti. Cominciamo.
Costituzione art.1 “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Vediamo il primo comma: Repubblica è come dire cosa/casa di tutti. È democratica perché tutti quanti vi si trovano sono chiamati a partecipare alle decisioni. È fondata sul lavoro, dunque non sul privilegio, il sangue, il territorio.
Il lavoro fonda la Repubblica e la Costituzione precisa, art. 3 secondo comma, “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
È un diritto dovere il lavoro perciò la Repubblica “promuove le condizioni per renderlo effettivo”, lo tutela in Italia e nell’immigrazione, si preoccupa dell’adeguatezza della retribuzione, delle condizioni legate al sesso, all’età, all’inabilità, confida nell’azione dei sindacati (art. 4); garantisce a chi serve la patria, in forme diverse, la conservazione del posto di lavoro (artt. 35-39); gli dedica un organo di rilevanza costituzionale, il Cnel (artt. 51 e 52); affida alla concorrente responsabilità di Stato e Regioni la sicurezza e tutela del lavoro (art. 99).
In Italia, in molti Paesi europei, dopo la guerra si è vista la faticosa costruzione dello Stato sociale e del diritto del lavoro. Il lavoro però cala. È sempre più precario. Non calano le morti che procura. Sono cifre di guerra, con i morti da una parte sola. Le politiche in corso, in barba all’art. 3, non rimuovono ma promuovono le disuguaglianze. Le garanzie dei diritti sociali e del lavoro sono manomesse. Sono in corso la demolizione del diritto del lavoro e la riduzione dello Stato sociale, con i tagli alle spese per salute e scuola pubblica. È sotto attacco lo Statuto dei lavoratori, il tentativo più organico di dare norme al lavoro conformi al disegno costituzionale. Ma se al posto di lavoro diciamo job già le tutele si adeguano al cambiamento. Debbo, con molto altro, a Ferrajoli la citazione dell’articolo 4 dell’Acte constitutionnel allegato alla Costituzione francese del 1793: “Ogni straniero di età superiore a ventuno anni che, domiciliato in Francia da un anno, viva del suo lavoro, o acquisti una proprietà, o sposi una cittadina francese, o adotti un bambino, o mantenga un vecchio, è ammesso all’esercizio dei diritti del cittadino”. Virtù del lavoro nel promuovere i diritti! Duecentotrenta anni dopo non ci siamo arrivati. Niente jus soli, niente jus scholae, niente jus laboris. La Repubblica non sta bene. E come potrebbe se il lavoro su cui si fonda è in questo stato?
La politica non si cura delle promesse in Costituzione né ascolta il Papa, non convertito al vangelo neoliberista: “Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri a ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro”.
Il secondo comma allinea sovranità, popolo, costituzione. Scrive Ferrajoli: “Questa norma è compatibile con il paradigma costituzionale, che non ammette poteri assoluti, solo se viene intesa in due significati fra loto complementari: in negativo, nel senso che la sovranità appartiene al popolo e a nessun altro, sicché nessun potere costituito, né assemblea rappresentativa, né presidente eletto, possono usurparla; in positivo, nel senso che, non essendo il popolo un macro-soggetto ma l’insieme di tutti consociati, la sovranità appartiene a tutti e a ciascuno, identificandosi con l’insieme di quei frammenti di sovranità, cioè di poteri e contropoteri, che sono i diritti fondamentali di cui tutti e ciascuno sono titolari”. Coerente con tale lettura è quella che da tempo pratico di mettere sempre “persona” in luogo di “cittadino” nella lettura di testi giuridici a partire dalla Costituzione. Spesso la sostituzione è del tutto appropriata rispetto al punto al quale è giunto il meglio del diritto internazionale e costituzionale. È sempre, e comunque, un’indicazione della direzione nella quale muoversi.
Nota sempre Ferrajoli che “lo sviluppo dello stato di diritto all’interno degli ordinamenti nazionali, la nascita dell’ONU, la globalizzazione e l’integrazione economica, politica e culturale hanno dissolto il vecchio principio della sovranità. La sola alternativa a un futuro di guerre e disuguaglianze è l’abbandono di questa categoria, nella prospettiva di un costituzionalismo mondiale già disegnata nelle carte internazionali dei diritti umani”. Ne ho recentemente fatto cenno. Perciò il giurista si chiede “come rifondare la politica attraverso il principio dell’uguaglianza e restituire frammenti di sovranità alle persone ormai private dei diritti sociali”. Accanto agli stati nazionali, sovrani capaci solo di fare la guerra, sono infatti emersi poteri economici e finanziari: gli “odierni sovrani assoluti, impersonali, invisibili, irresponsabili, che hanno assoggettato la politica ai loro interessi”.
Una risposta, in tutta la sua vita, ha cercato di offrirla Capitini. In Omnicrazia: il potere di tutti e di ciascuno, Capitini indica come la nonviolenza possa giungere a liberare dai condizionamenti nei quali viviamo. “L’individuo si trova in gruppi di condizionamenti, che per semplificazione abbiamo ridotto a tre: lo Stato, l’Impresa, la Natura. Egli si sente individuo che lotta là dentro, per migliorare la sua condizione: per esser cittadino con certi diritti garantiti; per essere lavoratore non sfruttato dai proprietari dell’impresa; per mantenere la propria vitalità: tre sforzi continui”. Quanto alla “alternativa a un futuro di guerre, in perfetta sintonia con Ferrajoli, scrive: “Il rifiuto della guerra è la condizione preliminare per un nuovo orientamento”.
La parola popolo infine a me evoca quello dei migranti, esclusi con accanimento dai diritti fondamentali riconosciuti da numerose dichiarazioni “universali”. Su Azione nonviolenta del settembre 1968 Capitini, che muore nell’ottobre, scrive: “il metodo nonviolento… rende presenti moltitudini di donne, giovinetti, folle del Terzo Mondo, che entrano nel meglio della civiltà, che è l’apertura amorevole alla liberazione di tutti. E allora perché essere così esclusivi (razzisti) verso altre genti? Ormai non è meglio insegnare, sì, l’affetto per la propria terra dove si nasce, ma anche tener pronti strutture e mezzi per accogliere fraternamente altri, se si presenta questo fatto?”. Ferrajoli ne parla come “popolo costituente”, testimonianza delle nostre contraddizioni e insufficienze e insieme prefigurazione della “identità meticcia e democratica dell’umanità futura, basata sull’uguaglianza delle differenze, promessa dalle nostre costituzioni, cioè sull’integrazione e sulla convivenza pacifica di tutti gli esseri umani”.
Così ho cominciato dal primo articolo e mi fermo a questi appunti.