[Immagine a cura della rete pacifista israeliana Refuser Solidarity Network]
Nel secondo anniversario dall’invasione russa dell’Ucraina – mentre la presidente Meloni si impegnava, senza mandato parlamentare, per un accordo decennale di sostegno militare al governo di Kiev “a ogni costo” e i poliziotti di Piantedosi usavano il manganello contro gli inermi studenti liceali pisani che manifestavano contro il massacro in Palestina – si sono svolte, sostanzialmente ignorate dai media nazionali, oltre 130 iniziative e manifestazioni pacifiste in città italiane grandi e piccole per il cessate il fuoco e il negoziato in Ucraina, per la fine della carneficina a Gaza e il riconoscimento dello Stato di Palestina.
Tra queste, ho partecipato al XXVII Congresso nazionale del Movimento Nonviolento, svoltosi a Roma con molti interventi internazionali, e alle iniziative di Reggio Emilia con le portavoci dei Parents Circle Families Forum. Tra le due città, ho ascoltato scelte di vita, provenienti da aree geografiche e conflitti armati differenti – a distanza o in presenza – accomunate dall’assunzione di responsabilità personale nella scelta di obiezione alla guerra e costruzione di ponti di pace con il nemico. “Traditori della compattezza etnica”, li avrebbe definiti Alex Langer, disertori dell’odio e delle reciproche propagande di guerra.
Tra di essi, Elena Popova che ha raccontato delle condizioni disumane degli arruolati nell’esercito di Putin, degli oltre 4000 disertori russi condannati ad almeno cinque anni di carcere e della galera per i cittadini che protestano contro la guerra, come successo anche a lei, portavoce del Movimento degli obiettori di coscienza: “non possiamo fare molto, ma non possiamo essere complici”. Yurii Sheliazhenko, segretario del Movimento pacifista ucraino ha ricordato, a sua volta, che gli è impedito lasciare il paese, come a tutti gli uomini, oltre a subire pressioni e intimidazioni del governo di Zelensky per il sostegno agli obiettori di coscienza e l’opposizione alla “delirante utopia di trasformare l’intera popolazione in un esercito”, sottolineando la necessità della solidarietà internazionale dei resistenti alla guerra. Tra le quali Olga Karatch, pacifista bielorussa in esilio a Vilnius perché condannata per “terrorismo” in patria – a Roma in presenza per ritirare, non a caso, il Premio Langer 2023 – che insieme alle donne bielorusse vuole sottrarre all’esercito di Lukasenko uomini in armi, con la campagna No significa No a sostegno degli obiettori e dei disertori, “perché la guerra non si può fare senza soldati”, mentre il rifiuto dei governi europei di dare loro rifugio e protezione nasconde la volontà internazionale di continuazione della guerra. Che solo dal basso può essere fermata.
Come provano a fare nell’altro scenario di tragedia bellica i pacifisti israeliani della Refuser Solidarity Network, la cui la coordinatrice internazionale Maya Eshel ha raccontato della retorica della vittoria diffusa in Israele mentre a Gaza è in corso un genocidio, per cui gli obiettori e i pacifisti che solidarizzano con la sofferenza dei palestinesi sotto le bombe e contro l’occupazione e l’apartheid sono considerati traditori. Tra questi i giovanissimi obiettori di coscienza israeliani, i refusenik, supportati dagli obiettori più anziani che li sostengono per resistere all’esperienza del carcere ed al massiccio apparato militare, anche con l’assistenza legale e con azioni antimilitariste volte a provocare un cambiamento nella società israeliana, sempre più militarizzata e violenta. Per questo, dicono, è necessario un attivo supporto internazionale. Come sottolinea anche Tarteel Al-Junaidi, attivista palestinese del Community Peacemaker Teams che supporta la resistenza contro l’occupazione dal 1995 cercando di proteggere in particolare i bambini dalle irruzioni dell’esercito israeliano e dalle demolizioni delle loro case: chiede di aiutare il loro lavoro andando direttamente sul posto ad affiancarli, per aiutarli a far finire l’oppressione che è causa di tutte le violenze.
A Reggio Emilia ho poi incontrato per un’intervista Robi Damelin, portavoce internazionale dell’organizzazione israelo-palestinese dei Parents Circle Family Forum, composta da seicento familiari di vittime del fuoco “nemico” che lavorano insieme per la pace e la riconciliazione: lei ha perso un figlio nel 2002, ma – nel paese in cui fin da piccoli si alimenta “il dna della paura” – ha rifiutato la logica della ritorsione e della violenza. Invitata a partecipare ad un incontro dei PCFF, guardando negli occhi una madre palestinese che aveva a sua volta perso un figlio, ha capito che condividevano lo stesso dolore e insieme potevano essere una forza potentissima: avrebbero potuto salire entrambe su un palco e parlare di riconciliazione e nonviolenza, testimoniandole attraverso la propria alleanza. Come fanno da allora, anche se dopo la strage di Hamas del 7 ottobre e la mattanza continua dei palestinesi, tutto è diventato più difficile, ma per questo ancora più necessario. Per mantenere viva e generativa l’alleanza dei “facitori di pace”, per dirla ancora con Alex Langer, di cui oggi c’è bisogno più che mai. A tutte le latitudini.