Quello dell’accoglienza verso i migranti è uno dei temi che Daniele Lugli ha preso maggiormente a cuore negli ultimi anni, riconoscendo in loro il capro espiatorio cui la società odierna fa pagare il prezzo più alto della crisi economica, sociale, ambientale e dei diritti.
Su questo la nonviolenza ha una parola da spendere, fin dalla visione profetica di Aldo Capitini che nel 1968, quando certamente l’Italia non era un paese attrattivo per i poveri della terra, invitava a predisporsi alla “apertura amorevole alla liberazione di tutti”.
Non è così che è andata. Non nel 2017, quando Daniele propone queste riflessioni alla serata introduttiva del nostro XXV Congresso in un dibattito con Mauro Biani e Luigi Manconi, e certo non oggi quando – è notizia del 4 aprile scorso – la Guardia costiera libica (finanziata dall’Unione Europea) ha aperto il fuoco contro naufraghi e soccorritori della Mare Jonio, un’imbarcazione della ong Mediterranea Saving Humans.
Sull’immigrazione, in Italia, c’è stato un ritardo terribile. La prima legge sull’immigrazione è dell’86 e questo già denuncia una incapacità di visione. È vero che Capitini era uno che vedeva lontano, dietro occhiali spessi, ma nell’agosto del ’68 su Azione nonviolenta scrive: “Il metodo nonviolento rende presenti moltitudini di donne, giovani, folle del terzo mondo che entrano nel meglio della civiltà che è l’apertura amorevole alla liberazione di tutti. E allora, perché essere così esclusivi, razzisti verso altre genti? Ormai non è meglio insegnare sì l’affetto per la propria terra dove si nasce ma anche tener pronte strutture e mezzi per accogliere fraternamente altri, se si presenta questo fatto? La nonviolenza è un’altra atmosfera per tutte le cose e un’altra attenzione per le persone e per ciò che possono diventare”. Torno a dire: siamo nel Sessantotto.
Questa apertura è l’elemento di una battaglia culturale profonda che deve sostenere, poi, un’azione. Siamo di fronte a una violenza che è diretta, e trova anche forme giuridiche per attuarsi, e a una violenza che è strutturale perché fa parte di un quadro nel quale l’ingiustizia in termini mondiali non può non pesare, che se ne sia consapevoli o meno, sulla disgregazione di una società. Nel suo libro “Quale pace?” il nostro amico Giuliano Pontara l’ha sottolineata. Ma anche uscendo dagli autori più “nostri”, sul Sole24Ore l’economista Fabrizio Galimberti – l’ho conosciuto molto bene, e frequentato, in anni lontani quando insegnava a Ferrara – spiega la questione citando una frase della Yourcenar nel suo “Memorie di Adriano”: “una parte dei nostri mali dipende dal fatto che troppi uomini sono oltraggiosamente ricchi o disperatamente poveri”. Galimberti ci dice: qui c’è un nodo. Voglio, ancora, ricordare che più di quarant’anni fa Lelio Basso scriveva: “La democrazia appare sotto assedio. Un pugno di manager di immense multinazionali fanno e disfano quello che vogliono. Gli altri miliardi di uomini sono complici o schiavi. Se si rifiutano, nella migliore delle ipotesi sono emarginati e non contano niente”.
Il quadro nel quale sentiamo di essere e che ci consegna in molti casi alla disperazione, lo abbiamo davanti da tanto, tanto tempo. Si è preferito voltare le spalle, in pochi non lo hanno fatto. Conosciamo gli imprenditori del razzismo nel nostro Paese, rispetto ai quali si sono levate voci isolatissime, che non sono diventate un senso comune della sinistra. Ecco allora, se c’è una violenza diretta e c’è una violenza strutturale, c’è, insieme, una violenza culturale che è penetrata profondamente, per cui persone che conosciamo, su alcune cose, semplicemente non riescono a ragionare.
A me succede di dire: “Guardiamo insieme questi dati. Tito Boeri, che mi pare sia interessato a come funzionano i conti dell’INPS, scrive che gli immigrati non sono una minaccia allo stato sociale; al contrario, uno stato sociale strutturato non solo può reggere alle ondate migratorie in atto, ma trae giovamento degli effetti dell’emigrazione”. Ecco, quando io porto questi elementi mi si dice: “Sarà anche vero quello che dici. Non mi interessa niente, non lo voglio sapere”. La chiusura che è avvenuta oggi è diffusa in tutto il Paese e c’è una battaglia profonda da compiere sulla quale fare, per quello che possiamo, un pezzo di strada. A questo abbiamo dedicato il congresso del 2010, intitolato “La nonviolenza per la città aperta”, e non finiremo di dedicare un’attenzione, per tutto quello che possiamo.