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L’arte della pace: un libro di Alberto L’Abate

Diadmin

Mag 9, 2016
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L’incontro con Alberto L’Abate all’Ecoistituto di Mestre e la lettura del suo ultimo libro (Alberto L’Abate, L’arte della pace, quaderni di Centro Gandhi Edizioni, Pisa 2014), che riesce così bene a presentare una concezione della nonviolenza integrale, nel senso di completa, mi ha fatto venire in mente una metafora forse banale, ma vera.

Per coltivare “l’arte della pace” servono più elementi: dei buoni semi, vale a dire degli “operatori per la pace” con una profonda ispirazione etica, capaci di “resistere all’odio”; dei vivai e delle serre dove possano crescere, vale a dire delle associazioni, delle istituzioni “professionalizzanti” dove imparare ad apprendere le necessarie pratiche di osservazione e di intervento nei conflitti (le associazioni come i War Resisters o il Movimento Internazionale della Riconciliazione e i corsi del Servizio civile nazionale di nuova istituzione); dei terreni minimamente accoglienti dove le piantine possano sperare di attecchire e “colonizzare” l’ambiente, vale a dire dei contesti sociali, delle comunità locali disposte ad intraprendere un rivolgimento culturale tale da reimpostare le relazioni sociali liberandole dal paradigma della violenza.

Per sconfiggere la guerra bisogna conoscerla. Ci dice L’Abate. Per immaginare un futuro umano capace di liberarsi dalle pulsioni mefitiche della morte, dell’annientamento del nemico, del respingimento violento dello straniero, della sopraffazione del concorrente… serve far emergere un’idea diversa di società. Chi sono, dove si nascondono i guerrafondai, i cultori dell’odio, gli imprenditori della sicurezza armata? Il lavoro di L’Abate ci aiuta a scovarli.

Innanzitutto sono i costruttori di armi, il “complesso militare”, la “macchina bellica mondiale”, le agenzie di contractor, l’industria della sicurezza (che negli Stati Uniti è il primo settore economico per produzione di Pil) e tutti coloro che ricavano un “utile economico diretto” dal maggior numero di conflitti armati che si generano nel mondo. E questi sono facili da individuare.

Poi ci sono le cancellerie degli stati nazionali, più o meno aggregate per aree di influenza geopolitica, che lavorano incessantemente e con ogni mezzo per prevalere sui concorrenti, controllare l’accesso alle risorse naturali, garantirsi mercati di sbocco per le loro merci, stabilire ragioni di scambio economiche favorevoli ai loro commerci (finanza, moneta) e così via tentando di colonizzare ed egemonizzare anche culturalmente (vedi industria culturale e pubblicità, che ormai sono la stessa cosa) interi popoli e continenti.
Establishment politico ed elite economiche (l’1% della popolazione che sottomette l’altro 99, le 270 compagnie transnazionali che controllano i 2/3 dei commerci internazionali) formano oramai un tutt’uno. La politica è stata interamente catturata dal neoliberismo imperante. La ragione economica (la crescita dei profitti, della produttività, del valore monetario delle merci sul mercato) è totalizzante. Un modello economico e sociale che mutua quello della guerra di conquista: delle materie prime, dei beni comuni da privatizzare, della forza lavoro da schiavizzare, dei consumatori da accalappiare. Tutto ciò forma quel contesto di “violenza strutturale”, cioè diffusa, pervasiva che riesce a plasmare anche i comportamenti individuali delle persone singole rendendole aggressive.

Tutta questa macchina infernale, infatti, non reggerebbe un minuto se non fosse supportata da una ideologia diffusa (più a destra che a sinistra – dice L’Abate) che legittima quell’egoismo (l’ “egotismo”, direbbe Erich Fromm, facendo una crasi tra egoismo ed egocentrismo) che gli studi di Alberto e, soprattutto, di suo fratello Luciano (il fondatore della “teoria relazionale”), hanno dimostrato essere penetrati e consustanziali più negli uomini che nelle donne. Tutto ciò, in una situazione di prolungata crisi economica, amplifica i conflitti tra aree geografiche (vedi la “terza guerra mondiale a pezzi” definita così dal papa Bergoglio), allarga le disuguaglianze, provoca immani esodi e migrazioni, scatena “guerre tra i poveri”.

La decadenza del modello economico e sociale attuale occidentale rende urgente un’alternativa, ma aumenta anche i pericoli. Non sfugge a nessuno, infatti, che gli “umori” delle popolazioni impaurite e prive di alternative siano più influenzati dalla retorica bellica e facilmente spinti verso un abisso di odio. Salvini e Casapound, i neofascisti austriaci e i neonazisti nell’est europeo sono “eventi sentinella” (direbbe L’Abate) che ci devono preoccupare non poco.

Don Luca Favarin, un prete che sta facendo grandi cose nel padovano per accogliere rifugiati e profughi (intervista ad Attilio De Alberti su “il manifesto”, aprile 2016) ha affermato, a proposito dell’accordo UE-Turchia sulla deportazione dei profughi dalla Grecia in campi di concentramento turchi: “Stiamo ponendo delle premesse vicine al genocidio”. Probabilmente la definizione più giusta è “sterminio in tempo di pace”. Sono stati 3.771 i morti accertati nel Mediterraneo solo nel 2015. A cui vanno aggiungiamoci quelli nel deserto del Sahara, nelle carceri libiche, nei campi profughi… .

Nei confronti degli immigrati siamo passati da un atteggiamento prevalente di indifferenza (negazione d’aiuto, omissione di soccorso) ad uno di ostilità, di allontanamento violento, di respingimento. Sono 500 i campi profughi allestiti solo in Europa. Guido Viale ha scritto: “Nessuno potrà dire ‘io non sapevo’, come al tempo dei nazisti”. Alex Zanotelli ha detto: “C’è chi considera i migranti come i nazisti consideravano gli ebrei: sotto-uomini” (Nigrizia, ottobre 2009). Il giurista Luigi Ferrajoli dice che sono da considerare “razziste” quelle leggi che criminalizzano l’immigrato.

Penso allora che i primi Corpi civili di pace, le prime Brigate per la pace, i primi Osservatori e le prime Ambasciate della pace, i primi strumenti e le prime forme di interposizione non violenta che dovremmo cominciare a costruire siano dentro quest’Europa, nelle nostre comunità, dentro casa nostra.

L’Abate nel suo libro ripercorre il pensiero dei maestri della nonviolenza e le loro esperienze concrete. I conflitti non sono (quasi) mai tra equipotenti. In un modo fondato sulla asimmetria dei poteri, non c’è neutralità possibile. La nonviolenza è schierata dalla parte degli oppressi, dei deboli, degli inferiorizzati, di coloro che stanno in basso. La nonviolenza non è collaborazionismo con l’oppressore. Ma, al contrario, suo disconoscimento, disubbidienza alle sue leggi ingiuste.

Paolo Cacciari – Mestre, 4 maggio 2016

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