Solo i Sindaci possono presentare l’istanza e questa è venuta da Vergato, mossa da una ispettrice di Polizia Municipale appassionata alla divisa come aiuto alla gente. Di violenza di genere si occupa spesso, fa anche formazione ai colleghi. Uno dei suoi pallini è l’ascolto. Sarà per questo che è riuscita a stabilire una bella sintonia con V., una giovane donna che in tanti momenti non è stata capita.
I fatti risalgono a dieci anni fa. V. ha 19 anni, è con un’amica, vogliono andare a una festa di paese ma non hanno la macchina. Un conoscente del padre offre un passaggio. Trova una scusa per passare prima da casa, l’amica rimane in strada per intercettare altri amici, V. sale con lui che la aggredisce.
“Inizialmente non volevo neanche fare denuncia, sono stati i miei amici e i miei genitori a convincermi. Quando siamo arrivati in caserma ‘lui’ era lì, a dire che era stato adescato da una ragazzina”.
V. viene interrogata subito. “Erano in 4: un maresciallo, un altro graduato e due carabinieri giovani, tutti maschi. Hanno fatto di tutto per incalzarmi, volevano farmi dire che ero stata io a provocare. Avevo già accettato la mia omosessualità e di sicuro non avevo fatto niente per stuzzicare quell’uomo”. Le chiedo se pensa che l’omosessualità abbia inciso sull’atteggiamento dei carabinieri. È convinta di sì. Qualcosa di simile lo ha vissuto anche nell’udienza. “Erano passati dieci anni e loro pretendevano che io ricordassi nei dettagli tutto quello che era successo, anche il mio messaggio di aiuto all’amica parola per parola. Ricordavo di averla cercata ma non la frase esatta. Non si rendevano conto di tutto il tempo passato, e forse qualcosa avevo voluto metterlo nel dimenticatoio per stare meno male. Dopo l’interrogatorio sono andata via, non riuscivo a stare lì anche se per fortuna ‘lui’ non si era presentato. Sono rimasti i miei genitori. Mi hanno detto che ho vinto”.
V. ha vinto, vale dire ‘lui’ è stato condannato. Per come lo dice sembra irrilevante. Le chiedo di che cosa avrebbe avuto bisogno.
“Forse di un ascolto, di un aiuto psicologico per lavorare su me stessa e capire davvero cosa mi era successo”.
Invece, in quei dieci anni, di supporto a V. come presunta vittima di violenza (“presunta” è d’obbligo, prima della sentenza) da parte dello Stato neanche l’ombra, nonostante una direttiva europea quasi decennale (2012/29/UE) lo richieda. “La sera della denuncia mi hanno fatta spogliare completamente e mi hanno mandata in ospedale a fare una visita. Avevo addosso solo una felpa di mia madre che era nella sua macchina. I Carabinieri hanno assicurato di tenere i contatti con me e con i miei genitori per farci sapere come procedevano le cose, poi per dieci anni non li abbiamo più sentiti, né loro né nessun altro”.
Un aiuto psicologico se lo è cercata da sola, privatamente, per calmare le paure, gli incubi, gli attacchi di panico che sono seguiti. “Ho cambiato tre psicologhe, la prima perché io non ero pronta e dopo qualche incontro ho smesso, la seconda perché non mi sono trovata bene. Con l’ultima ho fatto un buon percorso”.
Dopo l’istanza del Sindaco la Fondazione le ha corrisposto una somma che l’ha in qualche modo rimborsata per le spese affrontate. È molto meno di ciò che le spetta, lo sappiamo. Lo dice anche V.
“Non è il risarcimento che dovrei avere ma un piccolo aiuto sì, e poi è un segnale. Se non fosse stato per Elena Corsini e ora per la Fondazione, avrei detto che le istituzioni proprio non esistono”.
Di questo l’ispettrice è consapevole e uno dei suoi obiettivi è proprio accorciare le distanze tra il Comune e i suoi abitanti. Dalla sua ha il Sindaco che, racconta, “mi incoraggia nel mio lavoro, è molto vicino a questi temi”. Lo ha chiamato una sera, appena saputo che la Fondazione aveva stabilito un aiuto per V. “Ero appena arrivata a casa quando ho letto la mail sul cellulare e mi sono proprio commossa. Mio marito si è preoccupato ma io gli ho detto: No, sono lacrime di gioia”.
Non tutte le storie sono a lieto fine. Lei fa il possibile.
“L’altro venerdì, era sera, stavo uscendo dalla sede dopo dodici ore di lavoro, si avvicina una donna e mi fa: ‘Scusi, è lei Elena Corsini?’. ‘Sì, sono io’. ‘Ho bisogno di parlarle’. Non sapevo cosa aspettarmi. Sono rientrata e abbiamo cominciato a parlare. Il marito la maltratta da anni, quella sera era andata alle forze dell’ordine e le avevano detto di pensarci bene prima di denunciare, si è ricordata che qualcuno le aveva fatto il mio nome ed è venuta a cercarmi”.
Deprechiamo in coro l’atteggiamento per fortuna meno diffuso di un tempo, ma ancora in parte presente, con cui certi agenti sminuiscono le parole delle donne e cercano di persuaderle a sopportare le botte. Elena mi spiega che, paradossalmente, da qualche tempo c’è un motivo in più.
“Il Codice Rosso è diventato un boomerang. Tutti noi sappiamo che la denuncia dovrà essere trattata entro tre giorni e c’è chi cerca in tutti i modi di dissuadere le donne per non creare un imbuto, soprattutto se è venerdì sera. E invece no, è difficile per una donna trovare il coraggio di chiedere aiuto e quando riesce a farlo le istituzioni ci devono essere”.
Penso ai giorni di Natale che si avvicinano, alle feste accavallate. Se un rischio si corre di venerdì sera, chissà nelle prossime settimane.
“Il giorno dopo quella donna mi ha scritto per ringraziarmi, era stata accolta in sicurezza ed era molto più serena. Sono queste le medaglie che mi appunto sul cuore, non certo gli encomi”.
Ci salutiamo emozionate ipotizzando un incontro con i colleghi di Elena, possibilmente aperto anche ad altri operatori, per parlare dell’ascolto necessario alle vittime di violenza.
“Io ci voglio essere”, interviene V. a sorpresa. “In fondo io sono stata forte ma altre persone possono non esserlo, ci tengo a portare la mia testimonianza”.
Molto bene, cara V, è bello il tuo coraggio. Come vedi, abbiamo già incominciato.